La nostra antropologia

Stamane sono stato all’AMA. Si, l’Azienda Municipale Ambiente. Quella in via Capo d’Africa. Non dovevo pagare nulla, ma avevo smarrito l’ultimo avviso di pagamento, pervenuto qualche giorno fa. Contestualmente poi ho pensato bene di effettuare la variazione dell’utenza, ancora a nome di mia moglie. Sono arrivato lì poco dopo le 9:30. La sala d’accoglienza era gremita. Non conoscevo – no – non conoscevo affatto questo sportello dell’AMA. È in un rione storico di Roma – Celio, poco dopo San Giovanni, prendendo via Labicana – a poche, davvero poche, centinaia di metri dal Colosseo. Questo s’intravede, di lontano, lungo gli stradoni paralleli alla via principale. Magnifico! La mattinata era luminosa. Splendida. Estiva. Il cielo azzurro di Roma sovrastava tutto (che scoperta, è?) Gli spazi dell’antica urbe – perché anche quegli stradoni, che vanno da San Giovanni al Colosseo, appartengono all’Antica Roma – erano veramente stupendi. E mentre giungevo in questa agenzia di Roma Centro – al telefono, ieri, una cortese impiegata ha tenuto a sottolinearmi ciò – avevo pensieri altrettanto magnifici, che ora non rammento bene, ma garantisco sulla loro autenticità e magnificenza!!!

 

Entrato sono però stato aggredito dalla penombra, una penombra che – almeno per i miei occhi – dominava ovunque. Si, insomma: venendo da fuori, l’ambiente era scarsamente illuminato. La sala era molto grande ma gremita di gente. Gran confusione. Un vociare diffuso e ininterrotto. Apparentemente una bolgia dantesca. Ho preso il numeretto al dispensatore automatico. Una gentile addetta al servizio d’ordine mi ha aiutato – in quella confusione ho specificato «Non ho gli occhi buoni!» – e neanche capivo bene dove dovevo aspettare. Mi pareva ci fossero luci solo in fondo. Nel fragore ho visto che il mio numero era il 217. Stavano al 50-60 circa. Avevo quasi 160 persone davanti. Così ho deciso di andare a fare un giro e a scattare qualche foto. Ed è stato bene, perché il rione era incantevole

  .

Quando sono tornato stavano al 70-80. Mi sono appoggiato al muro, ad aspettare pazientemente (i posti a sedere, pur numerosi, erano tutti occupati). In queste situazioni, inevitabilmente, t’immergi nella folla. Ti lasci andare in quel soporoso caos sistematico. Si: una folla di persone della quale ascolti i discorsi più disparati. I discorsi più disparati ed eterogenei. Dopo aver familiarizzato con una signora – una bella signora, giovane e fine – mi sono di nuovo appoggiato al muro però un po’ più in là, per lasciare il posto libero. Lì c’era un giovanotto, coi baffetti, poco alto, che tuonava contro tutti: «Loro lo sanno… loro lo fanno…», sembrava un complotto dei dannati del Pendolo di Focault. Eh si, i complottismi nostrani! Interloquiva con uno un po’ più anziano – età mia? – abbastanza robusto, tipicamente romano. Discorsi populisti, qualunquisti. «Guarda se qui ce so’ gli immigrati a paga’ la spazzatura… ce so’ solo i Romani a paga’… io c’ho ‘na casetta… m’hanno richiesto un pagamento… io c’ho mi’ moje che fa questo…» A me, per esorcizzare il tutto, mi veniva da cantare Casetta de Trastevere. Così, nella confusione, ho iniziato; tanto, in quel boato continuo, chi mi sentiva? «Casetta de Trastevere, casa de mamma mia . Tu me te porti via la vita appresso a te. Tutti li sogni cascheno mattone pe’ mattone, ma sotto ar porverone io nun te vedo più.» E poi c’era pure la magnifica intro, mica ce la possiamo dimenticare: «Fa’ piano, murato’, co’ quer piccone. Nun lo vedi che mamma è ancora lì?»

Ecco, pensavo, pensavo a come – malgrado tutto, mutatis mutandis – la Roma attuale non sia diversa dalla Roma di quegli anni, ovvero degli anni ’30, della Roma fascista, quando il duce faceva eseguire lo sventramento di Roma. E ho ricordato come ciò riguardasse anche Spina di Borgo, il quartiere medievale dove poi è sorta via della Conciliazione. Lì è nata e ha abitato – i primi anni della sua vita – mia madre. E, oltre a pensare a come quella Roma non sia diversa dall’attuale, pensavo – ma quanto pensavo? – anche a quanto non sia differente da quella dell’antichità. Ad esempio da quella del Colosseo, che aveva sostituito il Colosso fatto costruire da Nerone, a poche centinaia di metri da dove mi trovavo quando avevo ‘sti pensieri. Che poi, avendo Nerone subito la Damnatio Memoriae, era stato abbattuto – quel Colosso – e dai Flavi era stato fatto edificare l’Anfiteatro Flavio propriamente detto.

Infine pensavo – si, ancora – a come tanti fatti – espressi anche in Casetta de Trastevere – non siano fatti irraggiungibili, lontani, rimossi ma, viceversa, siano ricordi. E quindi a come questi ricordi siano tuttora presenti e ci condizionino – spesso, per fortuna, anche positivamente – perché stanno nella nostra coscienza passata ma anche nel nostro presente e financo nel nostro futuro.

Perché, ciò?

Ma perché sono la nostra antropologia.

Dissonanze

Abbiamo necessità di coerenza. Necessità di sentirci coerenti. Avvertirci tali. Anche se non lo siamo. A tal fine adottiamo – consapevoli o meno – strategie di riduzione della dissonanza. Nel nostro caso della dissonanza cognitiva.

La dissonanza musicale – affermava Roman Vlad – è motore dell’evoluzione musicale. Divenire coscienti della dissonanza fra suoni permette alla musica di evolvere.

Analogamente, divenire coscienti della dissonanza cognitiva dovrebbe permettere l’evoluzione delle persone, delle comunità, della Società.

Strategie di riduzione della dissonanza cognitiva l’adottano i negazionisti dell’Olocausto. La adottavano gli addetti alle camere a gas che, con le loro amorevoli famigliole, abitavano gli incantevoli agglomerati abitativi limitrofi ai forni crematori. E che, per evitare che i fumi dei camini entrassero nelle loro case ben arredate dove piccoli infanti coltivavano i sogni propri della loro età e allietavano le proprie ore con deliziose suonatine al pianoforte, serravano bene le finestre, oltre le quali i vetri e le tendine colorate cercavano di far dimenticare e rimuovere gli orrori esterni.

Strategie di riduzione della dissonanza cognitiva l’adottano – o la adottavano – anche gli adepti dell’inflessibile mondo finanziario-economico monetario: in azienda, in Borsa, spietati sparvieri della finanza; in casa, amorevoli padri e madri.

Come se l’incoerenza dovesse essere dimenticata.

Come se si possa – e si debba – amare profondamente tutti coloro che sono interni al proprio garden. Mentre coloro che sono esterni a esso, coloro che sono al di là – lo straniero, diceva Erich Fromm – possano essere – e debbano essere – al più ignorati se non sgominati, distrutti, annientati, disintegrati, ridotti in polvere, che questa sia reale o morale fa poca differenza.

L’importante, per coloro – siano essi i mostri del nazismo o quelli della finanza – è non divenire coscienti della dissonanza cognitiva. Ridurre la coscienza di tale dissonanza. Nel parallelo dell’evoluzione musicale, ciò è il non evolvere sociale.

C’è una riduzione della dissonanza cognitiva rispetto alle immigrazioni?

[Fabio, 20 giugno 2018]

Globalizzazione, immigrazioni, dislocazioni: il punto di vista dell’antropologia

Ieri, muovendomi per Roma dall’area semicentrale all’estrema periferia e quindi al centro, poi di nuovo da queste all’area dei Castelli Romani – spostandomi io, necessariamente, sempre e solo con mezzi pubblici urbani o extraurbani – ho “respirato”, ancora ripetutamente, quella che gli antropologi, ormai da anni, hanno denominato dislocazione.

L’antropologia culturale ci aiuta a capire e a orientarci nella complessa contemporaneità. Fai clic sul questo link, se sei interessato ai temi pertinenti a globalizzazione, immigrazioni, dislocazioni nelle “nostre” città: per provare a comprenderli da un’ulteriore angolazione, se già non è nella tua ottica.

[Fabio, 17 giugno 2018]

Arie musicali

La notte talvolta non dormo. Allora inizio a leggere. Talvolta  quello che su FB mettono gli amici. Mi imbatto così nei magnifici versi civili di Marazico. Non soddisfatto, io, cerco di attingere informazioni su questo poeta dell’attuale contemporaneità. Così, oltre a sue personali performance romanesche come questa, scopro che Marazico collabora con Giampiero Mannoni. Eseguita da quest’ultimo riascolto anche un’accorata versione del Semo gente de borgata e riscopro la bellezza musicale – armonica, con la modulazione dalla modalità minore alla maggiore – di quel brano di Franco Califano (portato alla notorietà da Edoardo Vianello e Wilma Goich). Eccolo, in una mia versione strumentale, per chitarra classica sola.

Poi, casualmente, mi è stato fatto notare come l’aria del suddetto brano – almeno il suo incipit iniziale – somigli a quella del valzer n° 2 di Dmitrri Shostakovich. E allora qui di seguito ripropongo anche quest’ultimo, in una mia personale versione, con un rapidissimo accenno – consapevolmente  incompleto –  alla variazione centrale nella modalità maggiore.

Insomma:  in particolare mi son chiesto quanto anche – indirettamente – Franco Califano abbia ripreso, consapevolmente o inconsapevolmente, il modello di Dmitri Shostakovich. In generale: quanto le arie musicali, pur involontariamente, sono legate da inevitabili nessi?

Si, già lo so… cercherò di dormire di più!!! 🙂

Il cambio della guardia

Il cambio della guardia, dal sottotitolo Itinerari semantici nella cinematografia italiana del secondo ‘900: dalla conchiusa commedia all’aperta contemporaneità, vuole essere un articolato e attento esame di una parte della produzione cinematografica italiana della seconda metà dello scorso secolo. Nello specifico scruta le trasformazioni di quella che veniva denominata commedia all’italiana che ha annoverato, tra alcuni dei suoi Maestri, i nomi di Comencini, Emmer, Loy, Monicelli, Risi, Scola.

Tuttavia il presente saggio non si limita a ciò, in quanto si sviluppa su più piani. Quello squisitamente cinematografico è senz’altro il maggiore ma non esaurisce la profondità dell’analisi, ponendosi dialetticamente in rapporto con la cultura della modernità e con quella che è stata denominata postmodernità, o contemporaneità. È in tale ottica che vengono prese in considerazione anche alcune tesi di illustri critici d’arte e letterari, quali Renato Barilli e Giulio Ferroni.

Inoltre, attraverso l’esame di alcuni dei più noti film italiani successivi al 1950 (tra quelli maggiormente approfonditi, per il livello di dettaglio a cui ci si spinge, spiccano C’eravamo tanto amati di Ettore Scola e La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana), indirettamente si svolge un’analisi di costume. È in questo modo che, all’interno dell’ampio percorso, esaminando i criteri e le angolazioni che hanno ispirato e prodotto i film, l’autore cerca di identificare i momenti e i passi di ciò che definisce processo storico-filmico di costume – quello proprio di cambio della guardia – che conferisce il titolo al libro.

Ecco i link ad alcune vetrine dove è possibile acquistare il libro:

Caosfera Amazon LibreriaUniversitaria Libraccio Feltrinelli  Mondadori IBS