Quando un lago si racconta con storie universali

Fa molto piacere, durante un periodo di vacanza, assistere, anche in un  improvvisato palcoscenico della piazza di un borgo del reatino, a un intenso spettacolo: è questo il caso della pièce, teatrale e musicale, IL LAGO SI RACCONTA, messo in scena in questo periodo dal Teatro Potlach.

Organizzato, con l’ausilio di molti enti locali dell’area geografica circostante al Lago del Salto  lo spettacolo IL LAGO SI RACCONTA è stato realizzato dai bravi attori, cantanti e performer, del Teatro Potlach, sapientemente condotti dal loro direttore artistico Pino Di Buduo,

Il teatro Potlach – che, nell’intrigante nome, evoca rituali antropologico-culturali solo apparentemente da noi lontani, in quanto certo interiorizzati in vari modi nelle nostre coscienze comunitarie – è stato fondato nel 1976 dallo stesso direttore artistico Pino Di Buduo e da Daniela Regnoli e ha sede a Fara in Sabina (Via Santa Maria in Castello n.28 02032 Fara in Sabina, Rieti, Lazio, email teatropotlach@gmail.com).

Lo spettacolo – che, come riferito già nelle soprastanti locandine, è stato realizzato anche attraverso la mediazione e le interviste agli abitanti del territorio – verte sull’accorata rappresentazione drammatico-sociale degli impatti di un evento storico-geografico di notevole portata: la formazione, attorno al 1940, del Lago Artificiale del Salto  e della Diga volute dalla Società Terni nell’area abitativa di Borgo San Pietro, frazione limitrofa a Petrella Salto e collocata in una pre-esistente vallata naturale. Ciò, tra le altre cose, ha costituito un macro processo economico-industriale-idrografico che ha di fatto sommerso di acque, provenienti dal fiume Salto, l’antico borgo di Borgo San Pietro, centro abitativo poi riedificato modernamente in area immediatamente attigua e a maggior altitudine, come altri borghi prossimi, coinvolti dalla costruzione della suddetta diga.

La rappresentazione, teatrale e musicale, nello spazio temporale di circa un’ora, entra acutamente nel merito dell’impatto che tale processo di cambiamento sul territorio ha avuto sulle coscienze delle persone che vivevano in quei luoghi, sulle loro attività economiche che, pastorizio-agricole-artigianali, scomparivano quasi del tutto, inducendo la maggior parte della popolazione a emigrare a Roma, in altre città italiane o all’estero. Pertanto, ancora una volta, assistiamo a un’appassionata vicenda di vite umane, di piccoli-grandi moti dell’animo, di paure e speranze, di resistenze e accettazioni, di oltraggi e opportunità che transitano sopra le esistenze di piccole-grandi collettività.

Nella serata del 20 luglio 2024 – pur da posizione defilata e a margine (si noterà ciò dai video) – sulla piazza di Borgo San Pietro sono stati registrati alcuni stralci di questo spettacolo, nell’ordine denominabili Valzer, Aprirò un ristorante, Sei una bella monachella, Ne ho baciati tanti.

Ma analogie e nessi con altri fenomeni e processi storici, di maggiore o minore portata, possono originarsi spontaneamente nella coscienza di alcuni di noi, osservatori degli scenari storici nonché dello spettacolo popolare.

Infatti, nei medesimi anni di quelli “raccontati dal lago”, poco prima del 1940, a Roma si erano eseguiti molti interventi urbanistici che avevano, in parte, cambiato il volto della Città Eterna; due per tutti: l’edificazione di Via della Conciliazione, in luogo del precedente antico complesso edilizio di Spina di Borgo, e l’edificazione dell’allora Via dell’Impero, poi ridenominata Via dei Fori Imperiali, al posto dell’antica Suburra (dove pure notevoli interventi erano già avvenuti a fine XIX secolo con l’edificazione di Via Cavour).

Tuttavia certo i richiami, tra le vicende “raccontate” dal lago del Salto e altre, non si fermano qui.

Molti infatti ricorderanno, qualche decennio fa, la struggente rappresentazione teatrale che Marco Paolini fece della tragedia del Vajont.

E le rappresentazioni del Sociale che riguardano la Basilicata nel Teatro di Ulderico Pesce, come a esempio questa, non sono da meno.

Infine, senza protrarci in disamine ulteriori, rappresentazioni altrettanto profonde e significative potrebbero essere realizzate per gli eventi legati ai giacimenti petroliferi che, negli ultimi trenta-quarant’anni, hanno coinvolto, industrialmente e dal punto di vista dell’ecosistema e del paesaggio, la Val D’Agri, ancora in Basilicata, prima a Viggiano e poi a Corleto Perticata.

Ma tornando all’intensa rappresentazione de IL LAGO SI RACCONTA, va detto che a essa hanno dato corpo, volto e voce un gruppo di giovani e meno giovani, ma soprattutto abili, attori e cantanti, tutti condotti da Pino Di Buduo: citiamo, pur in ordine del tutto casuale, almeno i nomi propri di questa splendida famiglia attoriale, di eterogenea provenienza (Firenze, Catania, Perugia, Bulgaria, Ungheria…), i cui appartenenti sono tutti accomunati dalla medesima bravura e professionalità:  Filippo,  Aurelio,  Marta,  Francesco,  Micol, Marieta, Zsofia, Marco, Nathalie, nonché il tecnico Matteo.

Grazie ancora, quindi, a Potlach e a tutti coloro che hanno permesso di realizzare questo spettacolo, in corso di varie repliche, in grado di sensibilizzare le coscienze di noi, oggi, circa ciò che è avvenuto nelle coscienze e nelle vite di coloro che, in certi territori, ci hanno preceduto, ma anche di ciò che avviene oggi e, forse, avverrà domani se le collettività umane non modificheranno la loro condotta. Si tratta di storie universali che riguardano gli uomini di tutte le latitudini.

[Fabio Sommella, Borgo San Pietro, 21 luglio 2024]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

La Cultura, serie di concettualizzazioni storicamente determinate in perenne trasformazione

Nella serata del 21 maggio 2024, in una fascia oraria ottimale (18-19:30), in una sontuosa sala del Palazzo Mattei-Paganica, sede dell’Istituto Treccani di Roma, sita in piazza dell’Enciclopedia Italiana 4, Pandora Rivista ha organizzato l’interessante dibattito intitolato Viaggio nella cultura: reti, forme e mappe di un mondo in trasformazione. Il dialogo, moderato dal direttore della medesima rivista Giacomo Bottos, ha visto come principali interlocutori Paolo Di Paolo, Loredana Lipperini e Giorgio Zanchini. In sala, tra il folto pubblico partecipante, c’era l’editore Giuseppe Laterza che pure è intervenuto con stimolanti riflessioni.

Va detto subito che l’evento, caratterizzato dal pregnante sottotitolo reti, forme e mappe di un mondo in trasformazione, non ha deluso affatto bensì è risultato estremamente interessante. Qui di seguito cercheremo di evidenziare i molteplici motivi di questo interesse.

I tre abili oratori intervenuti, nel pur relativamente breve tempo a disposizione, hanno cercato di sondare e indagare quelle che, nel controverso panorama della contemporaneità, personalmente definisco le silenti ed eludibili Forme della Cultura.

In tal senso mi è parso illuminante l’esordio dialogico di Paolo Di Paolo che, dopo aver ricordato che quest’anno cadono i cento anni dalla pubblicazione de La montagna incantata di Thomas Mann (ambientato poco prima della Grande Guerra, questo romanzo tratta di un’epoca incerta e pure controversa, per molti versi analoga alla nostra attuale), ha parlato di Volubilità della cultura contemporanea, ricordando da una parte il concetto di Effimero, quello delle Estati Romane di Renato Nicolini,  contrapponendolo in qualche modo e misura a quello di Tangibile, o preteso tale, probabilmente della cultura de jure di vecchia nozione tradizionale o scolastica. Se da una parte, da anni o decenni, si assiste a un progressivo processo di frammentazione culturale (personalmente parlo anche di rarefazione), utile è stato pure il richiamo a Tullio De Mauro, alla sua Passione civile (2004) e al suo concetto di Lifelong Learning o Istruzione Permanente per gli Adulti. In questo scenario, probabilmente vige una relazione (anch’essa permanente?) tra la suddetta volubilità e l’effimero nicoliniano, nonché sussiste una plausibile relazione ciclica con l’ormai purtroppo abusato (ma Di Paolo rimarcava l’originalità e la forza di tale intuizione negli anni ’90) di Liquido e di Società Liquida di Zygmunt Bauman.

Loredana Lipperini, riferendosi ai Festival e alle Comunità culturali letterarie, ricorda da principio Leonardo Sciascia quando, negli anni ’80,  lo scrittore siciliano ammoniva circa l’allontanarsi della meta, ella aggiungendo poi che, oggi, la medesima non si vede più. In tal senso è utile recuperare il concetto di Luciano Bianciardi di Lavoro Culturale (in passato ne ho anch’io argomentato nel mio Passaggi molteplici nel romanzo postmoderno: Bianciardi, Calvino, DeLillo, Eco, ma si veda anche qui).

A riguardo, va ricordato che, nei primi ’50, Bianciardi vagava per il grossetano con un furgone da cui si diffondevano le note di Luci della ribalta” di Charlie Chaplin, con lo scopo di “acculturare” gli abitanti di quel territorio che lui, forse con una buona dose di autoironia, considerava la sua Kansas City (a sua volta imparentata con la Rimini felliniana de I Vitelloni.) Poi, probabilmente, la tragedia di Ribolla lo indusse a cambiare qualcosa e concepì il progetto dinamitardo, abortito, che gli ha permesso di scrivere La vita agra della Milano del boom/sboom. Ma la rilevanza del Lavoro Culturale resta e fa piacere, pur settanta anni dopo, recuperarlo dalla polvere del tempo per renderlo di nuovo vivo nell’era digitale e della vaporizzazione.

In tal senso Lipperini ha sottolineato come il prodotto culturale non sia da intendere solo come libro ma esso comprenda un’ampia varietà di elementi diversi tra cui i manga, i fumetti, i video giochi, le serie TV, i Social, nonché i libri di genere minore. Inoltre Lipperini ha sottolineato come vigano  forme subdole, forse latenti, di capitalismo culturale laddove si invita sempre e solo a ragionare sui numeri. Da contrapporre a ciò è l’Utopia, ricordata da Lipperini in due nomi: quello di Steve Jobs, quando questi nel 2005, pur con qualche rischio, invitava i giovani a “essere pazzi”; e poi quello di David Foster Wallace con il suo discorso sulle libertà e quindi di nuovo sull’Utopia.

Giorgio Zanchini, come giornalista culturale, ha indicato l’accentuazione (potremmo anche dire esasperazione) del processo trasformativo culturale ricordando che, una volta, autorità e gerarchie erano riconoscibili mentre, oggi,  la digitalizzazione ha evaporato tutto. Ma la Sfera Pubblica oggi è comunque densa. A tal fine Zanchini ha citato Mario Tedeschini Lalli, con il suo Medium secondo cui è vasto, e non ben conosciuto, l’attuale campo dell’offerta culturale. In tal senso si dovrebbe abbandonare l’idea che, se i giornali “non vendono”, sia una questione di contenuti: se i giornali non vendono è una questione di forma. Necessita una Piattaforma di Relazioni Sociali in quanto, oggi, chi fa giornalismo è solo un piccolo pezzetto di quella che è la Catena di Valore. Oggi risulta difficoltoso trovare territori comuni condivisibili.

L’editore Giuseppe Laterza ha poi fornito una magnifica definizione, antropologica, di cultura (io rammento quella, pure antropologica, secondo cui la cultura è una caratteristica della specie umana, analogamente alla proboscide o alle zanne per la specie elefante) secondo la quale essa è una serie di determinazioni/concettualizzazioni storicamente determinate che risponde a un bisogno.  In tal senso l’editore ha poi stigmatizzato come il libro del generale Vannacci abbia venduto 500.000 copie, secondo solo a quello del principe Harry (sigh!) Pertanto vigono comunità e gerarchie “culturali” e, nella Scuola, si dovrebbe imparare a distinguere tra un film di Francois Truffaut e uno di Bombolo, che pure ha una sua dignità culturale. Inoltre ci sono i fattori storici: in tal senso Giuseppe Laterza ha raccontato il gustoso aneddoto secondo cui Benedetto Croce considerasse “cialtrone” Sigmund Freud che aveva scritto un libro intitolato Totem e Tabù.

Loredana Lipperini, ricordando poi Michela Murgia, liquidata spesso come una banale influencer, ha ribadito che il Lavoro Culturale si fa anche sui Social e che non è un qualcosa da svolgere nei ritagli di tempo bensì a tempo pieno.

Paolo Di Paolo ha quindi invitato gli astanti a procedere con il pensiero, non pensando al ‘900 come all’unico mondo possibile. I suoi maestri universitari, De Mauro e Asor Rosa, non liquidavano uno spazio dell’Estetica come Etica. Il libro va concepito non come un punto di partenza ma come un punto d’arrivo. In tal senso ha citato Giovanni Solimine: Cervelli Anfibi. Oggi sullo smartphone, giornalmente, transitano in media 100.000 parole. La lettura è frammentata – potremmo dire de-regolarizzata – ma non è vero che  i giovani leggono di meno.

Giorgio Zanchini, infine, ha richiamato l’attenzione sui mediatori vecchi e nuovi, sui buoni filtri come Loredana Lipperini e sui cattivi filtri, come certi influencer, citando il suo amico Matteo Cavezzali e Ravenna.

Grazie quindi a Pandora Rivista e all’Istituto Treccani, abbiamo avuto l’opportunità di assistere a un’appassionante maratona attorno alle trasformazioni formali della cultura nel nostro tempo, un incontro che rende giustizia ai tanti modi diversi, oggi, di fruire e veicolare gli elementi culturali rispetto a quelli rigidi del passato e che taluni, probabilmente, vorrebbero cristallizzati secondo criteri e modelli sovratemporali: ma, per fortuna, non è così!

In definitiva, al di là della sopravvivenza (qualcuno potrebbe chiedersi “Il problema è adeguarsi ai tempi o rimanere ancorati ai valori con cui siamo cresciuti ?” Personalmente penserei né l’uno né l’altro), credo il nodo sia sapersi confrontare a tutti i livelli – ossia come fruitore, autore, editore, distributore… cittadino – con la rarefazione e la vaporizzazione (come ha rimarcato Di Paolo, sorpassata è, ormai, anche la “liquidità” della società di Zygmunt Bauman dei ’90) del fatto culturale. Come indicato da Laterza, ci si scontra proprio con il parlare alla Vannacci o sullo scrivere del principe Harry e non si fa uso di una forma d’intelligenza utopica che è l’unica che può salvarci dignitosamente, al di là della mera sopravvivenza. Come suggerito da Lipperini, la sfida (del Nuovo Millennio?) per gli Intellettuali è il Lavoro Culturale H24 attraverso tutti i molteplici canali in grado di veicolare questo processo.

[Fabio Sommella, 22 maggio 2024]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Aprendo la finestra, girando nel quartiere, andando al supermercato, prendendo il metrò

Apro la finestra, è primavera. Tornato il caldo faccio entrare l’aria del mattino, ma anche i suoni del traffico, certo, nonché il frequente cicalino dei semafori, al crocevia sotto casa. L’attivazione del cicalino, l’avvisatore acustico, necessita giustamente ai non-vedenti. Ma da anni mi chiedo: perché viene premuto con tale frequenza, aumentando il rumore della città? Quanti non vedenti ci sono che attraversano ai semafori? La gente normale pensa che così il semaforo diventi verde prima?

Giro nel quartiere. Ormai ci siamo abituati ai monopattini fermi sui marciapiedi, abbandonati nel bel mezzo del passaggio. Il guaio è quando sfrecciano sui medesimi, come pure alcune biciclette. Il marciapiede  è divenuto una pista ciclabile? Provate a dirlo e a fare le rimostranze a qualcuno dei suddetti: va bene se ti porgono le scuse o se non rispondono male.

Autovetture parcheggiate sulle strisce pedonali, qui al VII Municipio, sono frequentissime, perfino in prossimità dei semafori. A Largo dei Colli Albani devo attraversare e il semaforo di fronte è completamente occluso da un furgone, collocato proprio sulle strisce; essendo alto impedisce di vedere se il semaforo per i pedoni è verde. Guardo sopra di me e comunque comprendo dai pedoni che, aggirato il furgone, attraversano nella mia direzione. Così attraverso anch’io. Passo, aggirandolo anch’io, vicino al furgone che è chiuso posteriormente ma sul fianco, lato marciapiede, un giovanotto sta armeggiando con un portellone aperto, incurante (fregandosene) di me e degli altri passanti. Provo a immedesimarmi in lui: penso che svolge un lavoro forse ingrato e che, certo, nel quartiere è difficile trovare un punto di “scarico merci” adeguato, Così tiro dritto e raggiungo un negozio poco più avanti. Sbrigo la mia commissione e torno sui miei passi. Sono passati dieci minuti e il furgone è sempre lì, a occludere il semaforo e l’attraversamento pedonale, col giovanotto che adesso sta scaricando con un carrello del materiale dal retro del furgone. Cinque metri prima ho notato un ampio parcheggio libero. Mi avvicino al giovanotto dicendogli: “Perché non ti sposti cinque metri in là, dove c’è uno splendido parcheggio libero, con cui non occluderesti il semaforo e il passaggio?” “Ah capo, quanno so’ venuto nun c’era e nun ci’ho tempo…”, quindi bofonchia qualche altra cosa, continuando a fare il suo comodo. Me ne vado, applaudendolo e gridandogli “Bravo!”

Entro nel supermercato e seleziono un carrello che non abbia i guanti di plastica abbandonati, lì dentro, dai precedenti avventori. Volete, per igiene giustamente, non toccare le merci della frutteria a mani nude? Bene: usate i guanti di plastica ma, dopo l’uso, perché li abbandonate nel carrello? Questo è igienico? Perché non li gettate negli appositi cestini?

Scendo al Metrò di Colli Albani. Non c’è scala mobile, essendo il dislivello in  effetti minimo. Mi appoggio alla balaustra però, perché non vedo bene i gradini: perché non aumentano l’illuminazione, che è davvero scarsa? Sono anni che è così. Rammento che, anni fa, dopo una mia lamentela al personale lì presente, posero il mancorrente in mezzo all’ampia scala che precede i binari del treno. Ma, adesso, la stazione risulta sempre priva di sorveglianza. Non scorgo mai nessuno a qualsiasi orario si passi. Tuttavia, mentre con la tessera supero il tornello, intravedo un ragazzetto che tira dritto verso i passaggi di uscita, li scavalca ed entra verso i binari del Metrò, probabilmente, senza aver pagato il biglietto. Penso all’azienda municipale di trasporto, che dicono sempre in crisi economica, e mi chiedo: perché quel ragazzetto ruba? Certo: c’è la crisi. E allora tutto è lecito?

Rifletto tra me che il quartiere è completamente lasciato all’incuria e ai capricci di ciascuno che abbia desiderio di fare il proprio porco comodo. Penso anche che, a vent’anni, non avrei notato tutto ciò o l’avrei risolto con una scrollata di spalle Ma non voglio i vigili, le guardie, i poliziotti che dicano a ogni cittadino ciò che deve e non deve fare: perché credo nelle scelte autonome di ciascuno di noi nel rispetto degli altri. Ho ancora fiducia nell’uomo, nella sua autonomia, nella sua forza anarchica che non significa fare scelte di comodo ma fare scelte responsabili per tutti. “Perché la coscienza non s’insegna”, cantava quel cantautore trasteverino.

Sbaglio.

Me ne vado con il fagotto delle mie domande: perché, il cicalino, viene premuto con tale frequenza, aumentando il rumore e la nevrosi della città? Il marciapiede è divenuto una pista ciclabile? Perché, tu lavoratore certo, non sposti il furgone cinque metri in là, dove c’è uno splendido parcheggio libero, senza occludere il semaforo e il passaggio? Non te ne frega che puoi mettere in difficoltà le persone? Perché abbandonate i guanti di plastica usati nel carrello? Perché non li gettate negli appositi cestini? Perché non aumentano l’illuminazione, sopra le scale NON mobili, quando è davvero scarsa? Perché quel ragazzetto ruba?

Perché tutto è lecito?

[Fabio Sommella, 29 aprile 2024]

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La giocosa sperimentazione drammaturgica e giornalistica di una Nuova Romantica, ovvero Patrizia Palombi

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Molti di noi amano sperimentare, nella propria vita, nuove possibilità e percorsi, spesso al confine e in bilico tra ciò che si svolge per professione – il proprio lavoro , con cui ci si guadagna da vivere e con il quale, spesso, tante persone si identificano al punto quasi di far coincidere con esso la propria esistenza – e ciò che si svolge all’interno di altre attività non necessariamente professionali, nel senso che non sono ciò che ci permette di risolvere le problematiche economiche, ma neanche (miseramente, dal mio punto di vista) hobbistiche, termine (hobby) che, personalmente, mi ha sempre suscitato noia e nausea (come se la vita fosse solo una netta distinzione tra lavoro e hobby piuttosto che un continuum di attività, spesso per fortuna anche creative, tali da arricchire la personalità tutta e influenzare positivamente anche la tradizionale sfera lavorativa.)

La sperimentazione può abbracciare àmbiti più o meno ampi, ma è senz’altro promotrice di effetti benefici sulla vita tutta della persona che la intraprende.  Tutto ciò è, a mio avviso, anche valido per Patrizia Palombi.

Conosco Patrizia da poco più di cinque anni. Romana, proveniente come molti di noi da una famiglia di estrazione sociale semplice e popolare, è cresciuta in un clima educativo rigoroso dove il liceo classico ha lasciato impronte umanistiche rilevanti, completate in seguito con una laurea triennale in teologia. Nondimeno, Patrizia è anche moglie e madre nonché energica professionista di un prestigioso ente pubblico economico a base associativa.

Tuttavia, nella vita, Patrizia non si rassegna a svolgere le proprie attività, di pensiero e di azione, unicamente nell’ambito professionale ma avverte, certo da anni, necessità di sperimentare sé stessa in altri molteplici settori. Così, la Nostra, da quando la conosco non ha mai smesso di fare altro.

Cosa?

Chi la conosce abbastanza bene conosce pure di sicuro il suo pseudonimo di Scrittora, ovvero di scrittore al femminile, termine vezzoso con cui Patrizia vorrebbe fondamentalmente prendersi gioco – da, qui, la giocosità del titolo – delle tante ovvietà dei canoni, come il definirsi – lei, che anche scrive narrativa – scrittrice.  È questo un primo principio di provocatrice originalità che semmai fa il paio con la denominazione, della sua piccola/grande comunità culturale che aderisce amorevolmente attorno a lei, di Nuovi Romantici. Quest’ultimo è il termine che di recente ha dato anche il nome a una collana editoriale da lei diretta, insieme all’amica e collega Grazia Di Stefano, all’interno di una piccola casa editrice: The New Romantics.

Ce ne sarebbe già abbastanza per dire “Wow!”. Ma, ovviamente, non finisce qui.

Non finisce qui in quanto Patrizia ama saggiare le altrui attitudini, artistiche e culturali nel senso più lato del temine, per definirne i profili, cercando di mostrarne le peculiarità, anche all’interno di palinsesti radio-televisivi-internet: infatti collabora, settimanalmente da anni, con testate giornalistico-radiofoniche, procacciando talvolta nuovi talenti o anche semplicemente mettendo in luce passioni e affinità, sempre nell’ottica dei Nuovi Romantici.

Ma non sono poche anche le sue sperimentazioni nella drammaturgia, pur piccola, e nel teatro, in collaborazione spesso con professionisti del settore con i quali – e qui sta, nella mia opinione, la rilevanza del suo approccio – vige un perenne interscambio di linfa vitale, di umori culturali e sentimenti umani. In questo scenario, a mia memoria mi sento di citare Dante e le donne tra passato e presente, rappresentato a Roma e in altri centri del Lazio, un primo essenziale cortometraggio estratto da un suo racconto, nonché le pur piccole pièce tenute al teatro Academy di Roma e, di recente, alla Biblioteca del Parco della Pineta Sacchetti a Roma.

In tutti questi àmbiti, Patrizia Palombi diviene sperimentatrice di un’anima collettiva che – probabilmente in un modo che deve ancora trovare la piena forza e disciplina per conformare la primordiale materia caotica in un cosmo compiutamente ordinato –  scandaglia i temi che si agitano nel suo campo d’azione e di conoscenza, siano questi le famiglie allargate originatesi da sorprendenti genitori emigrati in terra d’Africa o forme d’intolleranza razziale o donne mai cresciute che hanno subìto violenze psicologiche o ancora donne viceversa bullizzate in età giovanili.

Si affiancano, alle pièce, l’organizzazione di eventi culturali, siano questi sfilate di moda multietnica o i classici reading poetici o la conduzione di presentazioni di libri. Tutti sono, in modo medesimo, una perfetta amalgama dei vari elementi messi in scena, amalgama tale da rammentare – a me – l’approccio di un grande e compianto giornalista RAI, quel Gianni Minà che sapeva condire le proprie conduzioni di spettacoli in base a una miscellanea di umanità e cultura, di empatia e profondità, di sensibilità e spettacolarità.

Così è Patrizia Palombi, giocosa sperimentatrice drammaturgica e giornalistica di un Nuovo Romanticismo.

[Fabio Sommella, 09 marzo 2024]

Medley musicale in sottofondo: ROMANTICA, di Renato Rascel, e GIOCHI D’ACQUA, di Fabio Sommella, quest’ultima nelle DUE VERSIONI, la prima STRUMENTALE (piccola orchestra), la seconda in un estratto per CHITARRA E VOCI (Fabio Sommella e Rosanna Sabatini). Tutti gli arrangiamenti orchestrali e l’esecuzione alla chitarra sono del proprietario di questo sito.

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Ricordando Federico e Otto e ½

Trent’anni fa di oggi ci lasciava Federico Fellini, uno dei massimi registi della storia del cinema mondiale. Mi fa piacere commemorarlo con questo estratto dal mio libro Analisi semantica di quattro film (LULU, 2015, II edizione; I edizione Boopen del 2008), estratto relativo al regista e in particolare al suo massimo capolavoro Otto e ½.

Buona lettura.

[Fabio Sommella, 31 ottobre 2023]

1        Film 1: analisi[1] di Otto e ½ (1963) di Federico Fellini

Otto e ½ rappresenta in assoluto uno dei migliori film della cinematografia italiana e mondiale. Anche gli americani, che brillano per orgoglio nazionale cinematografico, circa dieci anni fa lo collocavano tra i primi dieci film della storia del cinema (al primo posto, forse sotto la spinta di un eccessivo spirito nazionale, mettevano Citizen Kane, da noi meglio conosciuto come Quarto potere, di Orson Welles). Ma non è per questo, certo, che lo abbiamo preso in considerazione nell’attuale contesto; vediamone meglio i motivi.

1.1       Filmografia felliniana

Riteniamo che, dopo questo film, il regista Federico Fellini avrebbe anche potuto smettere di fare cinema; ci sembra infatti che la totalità delle sue tematiche sia sostanzialmente già espressa,  in forma massima e compiuta, in questo film che, a nostro avviso, è la vetta dell’espressione artistica  felliniana. Ovvero: se non fosse stato per la pura e “semplice” necessità, culturale/biologica, di continuare a “fare film”, l’autore avrebbe anche potuto interrompere la sua attività in quanto siamo del parere che la sua missione, la “missione del suo inconscio”, si fosse già completamente compiuta con Otto e ½.

Dopo Otto e ½, l’autore supera tutte le inibizioni e le remore che lo ostacolano ad esprimersi liberamente e, ci sembra, rompe gli argini che contenevano gli elementi istintuali  e la fantasia della sua anima; ma, dopo Otto e ½, quasi pedissequamente, ripete, in forme senz’altro artisticamente minori, i contenuti di questo film.

Otto e ½ rappresenta il culmine ed il coagularsi di tutte le tematiche dell’autore le quali (come Kant in filosofia rappresenta il confluire di tutte le tendenze del settecento ed il dipartirsi di quelle dell’ottocento) si manifesteranno sostanzialmente, pur in forme artistiche differenti e comunque con risultati indubbiamente diversi, in tutta la sua successiva cinematografia.

La sua filmografia può riassumersi in 3 blocchi:

  • prima,
  • dopo
  • e ovviamente proprio nel mezzo, scolpito come effige di verità solenne su una lapide, Otto e ½.

Esaminiamo in rapida sequenza, assegnando loro dei verosimili e sintetici motti, i maggiori film del grande regista.

1.1.1      Prima

  • Lo sceicco bianco: sogno e disillusione delle luci del varietà.
  • I vitelloni: il realismo riminese trasfigurato dalla memoria;
  • La strada: crudezza, fantasia ed elemento magico;
  • Il bidone e Cabiria: miseria e riscatto morale;
  • La dolce vita: decadenza, anelito e impossibilità di una redenzione e, ancora, esercizio calligrafico e affresco introspettivo della città, sognata e vissuta.

1.1.2      Otto e ½

  • Il sogno e la realtà; la proiezione dell’anima.

1.1.3      Dopo

  • Satyricon: ancora la città, decadente e opulenta, l’umanità alla deriva, il suicidio dell’uomo giusto;
  • Roma: la città non più sognata ma ormai nota, comunque amata e odiata;
  • Amarcord: ancora la Rimini della giovinezza;
  • I clowns: ancora la fantasia del circo, con gli echi della polverosa strada e del carosello di Otto e ½;
  • Casanova: il barocchismo calligrafico per la descrizione di un eterno vitellone (a cui le donne restano sconosciute?);
  • La città delle donne: la ripresa dell’esplorazione del continente e del mistero femminili, nonché del sogno dell’harem;
  • E la nave va: l’incontro di opposti elementi psichici, la coscienza occidentale e l’esoterismo zingaresco;
  • Prova d’orchestra: la metafora e la riflessione sul conflitto di elementi (solo sociali?) opposti;
  • Ginger e Fred: ancora il mondo canuto, sbiadito e nostalgico dell’avanspettacolo, comunque parente del circo, ormai velato di patetismo davanti alla volgarità odierna e al potere della TV (almeno negli anni in cui Fellini concepì e diresse il suo film);
  • La voce della luna: il ritorno e l’accentuarsi del sogno, della saggezza trovata nella follia.

Come non osservare una simmetria, di tematiche ed ispirazioni, il cui asse è proprio rappresentato dal film di cui vogliamo analizzare i significati?

Scendiamo pertanto maggiormente nello specifico filmico.

1.2       Otto e ½ – La storia e i significati

È il racconto della presa di coscienza circa la dignità dell’esistenza e del dramma umano. Tale consapevolezza è raggiunta attraverso un penoso, lento e balbettante iter, simbolizzato prima da esperienze e atteggiamenti di fuga, infine dalla coraggiosa e ispirata decisione, da parte di un regista cinematografico in crisi di valori morali, di realizzare un film.

Guido Anselmi, 43 anni, è  un regista cinematografico di successo. Si trova in crisi, di valori e di significati, crisi somatizzata in uno stato di affaticamento fisico che lo porta in uno stabilimento termale della Toscana. Questo sarà il palcoscenico per le sue memorie, sogni, flussi di coscienza, fantasie, desideri, speranze.

Attorno a questo film, che egli deve a breve realizzare, attorno alla coscienza e all’inconscio di Guido, ruota un universo di personaggi, cinematografici e privati, ritratti con amore nelle loro nevrosi e nella loro insignificanza, come è insignificante, ai suoi occhi, (di Guido Anselmi) la sua vita, il suo film, la produzione e tutti gli altri aspetti e motivi reali ed esteriori.

Guido rievoca la sua infanzia, fondata su una rigida educazione cattolica. Tornano alla mente le immagini dei genitori, pregne di un antico decoro piccolo borghese. Vive la sua vita, scoordinata, in rapporti contrastanti e conflittuali: distratto, e lievemente turpe, quello con l’amante Carla, donna grossolana e commovente nel suo candore infantile; intenso, e destinato a non evolvere, quello con la colta ed elegante moglie Luisa, trasfigurata nell’immagine materna; anelato, e frutto della junghiana proiezione dell’anima, quello con la donna ideale, “la ragazza della sorgente”, “giovane e antica”; e poi tutte le donne sognate, desiderate ed amate, dalla madre alle nutrici dell’infanzia, dalla Saraghina alle attrici sul viale del tramonto, candidate per qualche ruolo nel suo film.

Oltre a questo peregrinare, della coscienza e della memoria, Guido è sottoposto alle pressioni del mondo pratico, del cinema: il produttore, gli aiuti e i costumisti, la critica.

Davanti a questa folla, che lo soverchia e lo opprime, Guido, a tratti, manifesta la sua incapacità di agire, paralizzato come è dalla paura, dalle ansie, dall’incapacità di scegliere. Alla lunga trova rifugio nella menzogna, nella fuga dalla realtà (Elogio della fuga, avrebbe detto circa venti anni dopo il biologo Henry Laborìt, alle cui teorie si sarebbe ispirato il regista francese Alain Resnais per il film Mon oncle d’Amerique) attuata verso tutti e verso le proprie responsabilità.

Guido trascina in tal modo la sua esistenza e, solo attraverso contrarietà, giunge al giorno di inizio delle riprese.

Proprio nel momento in cui Guido sta per mollare tutto, abbandonare il set-palcoscenico, facendo smantellare il set, ecco che, “mediata” dalla figura del clown Maurice (simbolo di impensate ma potenti risorse interiori), riemergono,   improvvise e misteriose, le energie positive e le fiducie, la felicità, la forza, la comprensione umana di se stesso e delle persone che costituiscono il suo universo: il film si farà!

“È una festa la vita: viviamola insieme!” proferisce finalmente Guido, al culmine di una profonda e vibrante riflessione d’amore, di una commovente  comprensione, senz’altro di natura “olistica“, verso tutta la folla di personaggi che ruota e si agita affannosa attorno a lui e che, prendendo in prestito il concetto dal fondatore della Psicologia Sociale  (Kurt Lewin), appartengono al suo “campo cognitivo”.

Il film “si farà”, pertanto: si inizia a girare e tutti, i personaggi, prendono parte ad un fantasmagorico carosello finale piroettando, attorno a Guido, sull’onda delle note, mai troppo rimpiante ed elogiate, de La Passerella, del maestro Nino Rota.

1.3       Per un’ulteriore analisi filmica: i Personaggi e la loro Simbologia

Per una possibile ulteriore analisi filmica, si propone una tabella riassuntiva delle associazioni individuate tra i personaggi e la “simbologia” riscontrata, in base alla lettura appena effettuata.

Tabella 1: Film 1 – Personaggi e Simbologia

Personaggio Simbologia
Guido, il regista la coscienza “debole”
La madre ed il padre le origini
Il produttore, Conocchia, Agostini, Nello Meniconi la realtà esterna
Il critico cinematografico la razionalità
Il cardinale la saggezza anelata
Il collegio dell’infanzia la censura, il “superego”
La Saraghina il mistero
Le nutrici ricordate il legame con la madre
Carla, l’amante la regressione
Luisa, la moglie la responsabilità
Rossella, l’amica di Luisa “il grillo parlante”; la coscienza “forte”
Maurice, il clown le risorse interiori
Claudia, “la ragazza della fonte” l’anima

[1] Prima redazione: 4 aprile 1993; revisione: 2007-2008.

[Fabio Sommella, estratto da Analisi semantica di quattro film, I edizione Boopen, 2008; II edizione LULU 2015]

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Gente per bene e gente per male, ovvero le magnifiche variazioni ritmiche di Lucio e Giulio forzate da una melodia variabile e irregolare

Per chi ha confidenza con la teoria musicale sa che, nella gran parte delle canzoni popolari (ma non solo), il tempo ritmico più comune è il 4/4, vale a dire che ciascuna misura è costituita da quattro tempi, o movimenti, che misurano ognuno 1/4, ovvero una semiminima. Strutture ritmiche molto diffuse sono ovviamente i tempi di 3/4 (tempo di “valzer”) o i tempi di 2/4 (tempo di “marcia) o, anche, i tempi composti di 12/8, 9/8 o 6/8, derivanti dai tre precedenti grazie a una piccola procedura (sostanzialmente di “frazionamento”) che però non stiamo qui a spiegare e per i quali si rimanda qui.

Fatto sta che, generalmente, a prescindere dal tempo ritmico prescelto dal compositore, il medesimo tempo – ad esempio il 4/4 – si mantiene costante per tutta la durata del brano, canzone o pezzo strumentale che sia.

Esistono delle eccezioni (forse molteplici). Ad esempio il Maestro Ennio Morricone nella partitura del tema centrale di C’era una volta il West, film di Sergio Leone, impiega inizialmente un tempo di 12/8 che tuttavia, in una misura specifica (la 9), viene trasformato in 15/8, ciò di certo in dipendenza dell’espressività melodico-ritmica che il compositore voleva conferire a una certa frase musicale.

Esempio di variazione ritmica, tempo della misura 9, nella partitura di C’era una volta il West di Ennio Morricone.

Un caso molto particolare – a mio avviso magnifico – di variazione ritmica è quella che adottò  Lucio Battisti per il suo brano Gente per bene e gente per male, presente nell’album Il mio canto, libero (1972).

Premesso che di questo brano non ho trovato partiture su internet, all’ascolto  risulta evidente come, da un impianto ritmico tradizionale, appunto di 4/4, alcune misure siano state modificate in 5/4 e, anche, in 6/4; ciò al fine di permettere frasi melodiche più lunghe di quanto consentito dalla struttura ritmica di 4/4.

Specifico che quello che segue non è un vero e proprio arrangiamento orchestrale (questo, semmai, sarà effettuato in futuro) bensì essenzialmente uno studio della partitura ritmico-melodica, legata alla struttura armonica sottostante, di Gente per bene gente per male.

Presento pertanto un paio di mie trascrizioni, più o meno approfondite, di questo brano, entrambe eseguite sulla base dell’ascolto del brano di Lucio. Oltre al pentagramma del tempo, che riporta come ausilio anche le sigle degli accordi, ho inserito il pentagramma della voce maschile, della voce femminile e dell’accompagnamento, armonico-ritmico,, di chitarra.

La struttura generale del brano la si può scaricare qui: Struttura armonica e ritmica di Gente per bene e gente per male

La prima trascrizione – ma, per quelli di palato più fine, consiglio di andare direttamente alla seconda trascrizione poco più avanti di qui, certo più approfondita e interessante – è solo musicale, ovvero priva della riga delle parole. La partitura da me trascritta è qui di seguito: Gente per bene e gente per male – trascrizione 1. L’audio MP3 è ascoltabile qui sotto:

Ecco, invece, la seconda trascrizione, come ho detto sopra “più approfondita e interessante”, un quasi arrangiamento, seppure strumentalmente essenziale : la partitura da me trascritta è Gente per bene e gente per male – trascrizione 2, L’audio MP3 è il seguente

A latere, va detto che la tonalità originale d’impianto del brano in SIM è stata da me trasposta in DOM, naturalmente mantenendo la coerenza delle successive variazioni armoniche.

Infine, ecco una sequenza di immagini (riprese da internet senza alcun fine di lucro), calzanti con lo spirito di questo brano di Battisti-Mogol, montate – insieme al testo della canzone – sulla musica da me riprodotta:

Cosa aggiungere? Che questo brano, come dico nel titolo di questo articolo, è davvero un bell’esempio delle magnifiche variazioni ritmiche – di Lucio Battisti e Giulio Rapetti Mogol, probabilmente coadiuvati allora (1972) da Gian Piero Reverberi – forzate da una melodia variabile e irregolare, dove il testo appunto metricamente irregolare vuole esprimere significati la cui forma, di volta in volta , non ricade in rigidi confini prestabiliti. La bellezza della musica è anche in questo: stravolgere le ovvietà!

Buona visione dei file allegati e buon ascolto.

[Fabio Sommella, 9-10 ottobre 2023]

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Istruzione, erudizione, sapere, cultura

Leggo, in rete, distinzioni interessanti ma a volte fuorvianti – o addirittura desuete – sui quattro termini: istruzione, erudizione, sapere, cultura. Pertanto cerco qui di delineare in breve quelli che, a mio avviso, sono i loro rapporti da intendere al meglio in un ambito idoneo di conoscenza.

La distinzione fra Cultura e Istruzione è indicativa delle differenze sostanziali che vigono tra i due termini. In particolare, l’etimologia del primo termine (“dal latino colere=coltivare“) ben rende l’idea dell’intimo processo sottostante. Anche il richiamo al fatto che “L’uomo istruito è colui che possiede maggiori informazioni rispetto alla media degli individui, e spesso queste conoscenze sono di origine scolastica”, appare coerente con il distinguo di fondo che si vuole mettere in evidenza.
Ciò che appare inadeguato è il frequente accento su Erudizione e Sapere nelle accezioni secondo cui il primo termine sarebbe fondamentalmente d’impronta e matrice Classica, il secondo viceversa sarebbe di carattere eminentemente scientifico. Questo distinguo appare fuori dal tempo, obsoleto, ancora figlio delle “Due Culture” che, seppure in forma e modi diversi persistono, in un ambito “Culturale” moderno dovrebbe viceversa essere evitato e inquadrato in un’ottica differente.
Dovremmo “vedere” Istruzione, Erudizione, Sapere e Cultura come gradini o tappe di un gradiente, un continuum, ininterrotto – analogamente alla retta dei numeri reali – dove si transita, se si vuole e quando si vuole, per tutta una vita e il transitare comporta il muoversi nonché trasformarsi da una dimensione/visione iniziale puramente epidermica e accidentale a una dimensione/visione finale – di fatto irraggiungibile (ma Leibniz sosteneva che non è importante raggiungere l’Infinito quanto, viceversa, tendervi) – profonda e sostanziale; ovvero: inizialmente ci si mette indosso un abito d’istruzione che ci veste, poi anche degli indumenti di erudizione, quindi delle forme e sostanze di sapere, infine tutto il nostro essere è e sarà visceralmente costituito di cultura.
Dispiace che molte pagine, pur autorevoli, sulla rete, che dovrebbero avere valore Socratico ovvero Maieutico, siano viceversa concepite secondo un’ottica – al più – nozionistica, vecchio stampo, catechetica, alla San Paolo.
L’Istruzione è fondamentalmente pura memoria di dati, di “nozioni”, tanto detestate nei ’70. Qualcuno ha detto che la Cultura è ciò che si sa quando si è dimenticato tutto.

[Fabio Sommella, 23 settembre 2023]

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Ricordando quel delicato artista che fu Francesco Nuti

Ieri, 12 giugno 2023, è venuto a mancare Francesco Nuti. Io sono stato un estimatore della sua arte, in particolare del suo film  Tutta colpa del paradiso. Come ho avuto già modo di commentare sui Social, considero questo film un autentico capolavoro di poesia e simbolismi che, di sbagliato, ha solo il titolo e la locandina, i quali traggono in inganno rispetto alla bellezza, garbo e delicatezza dell’opera.

Mi fa piacere quindi pubblicare, qui di seguito, qualche contributo su Francesco e la sua arte.

Il primo è un estratto dal mio libro Il cambio della guardia che, nello scenario dell’evoluzione della Commedia all’Italiana, tratta proprio la mia lettura di Tutta colpa del paradiso.

Il secondo è un bell’intervento, dettagliato e accorato, dell’antropologa e mediatrice culturale Adriana Migliucci all’interno della sua pagina Facebook, intervento che ha stimolato ulteriormente il mio interesse per Francesco e che, pertanto, mi permetto di divulgare a mia volta (spero Adriana non se ne abbia a male ma, conoscendola, penserei davvero di no!) Questo bel contributo è corredato anche di un ulteriore scambio fra me e Adriana.

Non mi resta, quindi, che augurare buona lettura a coloro che vorranno incontrare queste nostre analisi e testimonianze e, rivolgendomi a Francesco con la medesima delicatezza che ha contraddistinto la sua arte, dire “So Long, Francesco: che la terra ti sia lieve!”

Fabio Sommella scrive di Tutta colpa del paradiso

In precedenza si è già accennato a questo film del 1985. Esso reca la firma, oltre che dello stesso Francesco Nuti e di un giovane Giovanni Veronesi, anche di Vincenzo Cerami[1], già autore circa un decennio prima del famoso Un borghese piccolo piccolo, portato sullo schermo da Sordi e Monicelli. Sulla scorta di un sapiente soggetto e di una robusta sceneggiatura, questo film brilla tanto per la coerenza narrativa quanto per il sapiente impiego dei plurimi elementi sottostanti, tutti elementi ruotanti attorno al tema del viaggio alla ricerca di un figlio. Questo itinerario ha però origine da un claustrofobico incipit nel carcere e, attraverso alterne e anche molto ironiche vicende, conduce fino all’allegorica conclusione in vetta al Gran Paradiso. In tutto ciò si ritiene che l’apporto di Cerami sia fondamentale proprio in relazione all’affermazione dei plurimi elementi che, tutti insieme, vanno a costituire l’ampio e articolato preambolo del film.

Ma vediamoli con il dovuto ordine, questi elementi  plurimi!

L’inizio è nel citato carcere, assieme al, da principio, minaccioso compagno (un detenuto incarcerato per un feroce omicidio) di cella del protagonista Romeo Casamonica, interpretato dal medesimo Francesco Nuti (certamente nel suo periodo artistico più smagliante).

Giunge poi il commiato tra i due. Esso sarà di estrema amicizia, con il dono del poster di Fausto Coppi da parte di Romeo all’altro; quest’ultimo ricambierà con l’armonica a bocca, elemento in seguito simbolicamente pregno di vibrati e vibranti significati.

Segue una casa, antica abitazione (di cinque anni prima) non più ritrovata da Romeo: al suo posto ci sono palazzoni[2]. «Qui son passati gli americani», dirà a Romeo uno stravagante stralunato amico netturbino, incontrato nel quartiere, una landa suburbana che rimanda all’aspro e anonimo sapore d’un dormitorio pubblico.

Romeo, alla disperata ricerca di suo figlio Lorenzo  – da recuperare a dispetto di un suo presunto-simbolico crimine di rapina a mano armata[3] – che praticamente non aveva conosciuto, dovrà recuperare i suoi pochi oggetti personali. A tal fine scenderà in una sorta di post-moderni inferi, vale a dire i profondi sotterranei-scantinati dei suddetti palazzoni del quartiere dormitorio. Egli, come un novello Dante il cui tragitto è però capovolto, sarà provvisoriamente accompagnato da una donna-nana, anche lei sorta di Beatrice capovolta. Ma questa non giungerà alla meta con lui, poiché anch’essa teme quelle sordide profondità dove, infine, una schiera di loschi punk  apparentemente lo minacceranno, per poi in realtà lasciargli spazio e recuperare le sue poche e perdute cose, i propri affetti personali.

Ciò fatto e adempiuto, Romeo si recherà presso l’assistente sociale, una dura quanto convincentissima Laura Betti – ormai da tempo “orfana” di Pier Paolo Pasolini – la quale gli negherà la conoscenza del luogo adottivo dove vive adesso suo figlio Lorenzo. Ma ciò è poco male: Romeo è stato in prigione ed è ormai avvezzo alle durezze della vita. Così nottetempo, si introduce negli uffici dell’assistente sociale e, consultando i primi pur rudimentali personal computer, svelerà a sé stesso che il suo Lorenzo è stato adottato da una onesta e ligia famiglia che risiede in Val D’Aosta, sulle amene vette del Gran Paradiso.

Fin qui il preambolo/prologo del racconto, da cui il vero nucleo del film prende poi piede e si sviluppa secondo una forte e poetica quanto umoristica vena, lasciando spazio a plurimi significati, secondo la più nobile e matura Contemporaneità o Postmodernità, nonché naturalmente secondo una romantica vicenda amorosa. Questa avverrà quando Romeo/Nuti raggiungerà il rifugio del Gran Paradiso. Qui egli conoscerà l’affascinante Celeste, impersonata da Ornella Muti, madre adottiva di Lorenzo mentre Alessandro, impersonato da Roberto Alpi, padre adottivo del ragazzo, è un brillante ricercatore in etologia. La nuova famiglia risiede e vive, temporaneamente, sulle vette del Gran Paradiso in quanto il brillante etologo ricerca il “famigerato” stambecco bianco, rarissimo esemplare di una specie animale di cui ne nasce uno ogni cinquecento anni. Esso, lo stambecco bianco, proprio a causa di questa sua anomala e stravagante sembianza, viene bandito fin dalla nascita dal gruppo della sua specie.

La simbologia filmica, ben si comprende, è potente: l‘interscambio e il connubio, immediato, fra il protagonista Romeo e lo stambecco bianco saranno sempre più spinti in avanti e marcati fin quasi a confondersi e sovrapporsi con il prosieguo del racconto. Questo sarà naturalmente inframmezzato da tante gustose annotazioni, tra cui il ripetuto tormento del protagonista da parte di fastidiosi insetti volatili.

Il connubio Romeo/stambecco bianco si avrà poi al termine del racconto, dopo che Romeo, ormai persuaso della sua scelta, avrà rinunciato a “riprendersi” il figlio. Ciò avverrà dopo l’unica e irripetibile notte d’amore con Celeste, notte d’amore di “trasgressione” delle regole approvate dalla comunità, “trasgressione” che in base a un’antica leggenda locale è concessa solo per quella notte dell’anno, festa di fine estate. Sarà questo un episodio connotato dalle vibranti note dell’armonica a bocca di Romeo. Dopo tutto ciò, Romeo lascerà il figlio Lorenzo, sereno e inconsapevole, nella sua – per il ragazzo unica e originaria – magnifica famiglia adottiva.

In definitiva Romeo avrà stabilito con Lorenzo  “solo”  un’intensa e sincera amicizia. Successivamente a evocativi ed eroici echi – inerenti a memorie sportive circa Fausto Coppi, memorie dal sapore epico ed atavico riecheggianti certamente l’infanzia di Nuti stesso – solo Romeo, a dispetto di qualsiasi scientifica ricerca etologica, avvisterà lo stambecco bianco.

I due, Romeo e lo stambecco bianco, comunicheranno all’interno di una splendida sequenza alternata di empatiche inquadrature, laddove i due “volti” – dell’umano e del caprino – si confonderanno in un’unicità di sovrapposizioni ed espressioni: ciò a significare che, in realtà, la natura e l’amore per la vita non hanno confini o separazione nell’umano o nell’animale ma sono, più probabilmente, un eterno e scambievole gioco universale, una eterna ghirlanda brillante, come per altri versi si potrebbe leggere l’importante testo di Douglas Hofstadter[4]. È  questo scambievole gioco universale – paradisiaco –  che si deve saper cogliere con l’anima piuttosto che con la pura e sola razionalità.

L’apporto di questo film di Nuti, insieme a Cerami e a  Veronesi, al cambio della guardia, avvenuto nel grembo della “leggera” Commedia all’Italiana degli anni ’80, appare notevole e non si può trascurare. Emblematico trionfo della Contemporaneità postmoderna sarà infatti la sequenza di chiusura. Qui Romeo, avvistato lo stambecco bianco e avvenuto il connubio con lui, ormai definitivamente avviatosi sulla via del ritorno, la via di discesa dal Paradiso, si è appena staccato dal figlio e dai suoi genitori adottivi, lasciandoli tutti insieme, senza personali remore bensì serenamente,  alla loro vita indipendente e autonoma. È adesso che Romeo, per l’ennesima volta, viene aggredito dai fastidiosi insetti volatili che lo hanno già tormentato. Romeo – e qui si coglie tutta la genialità del meta-linguaggio di Nuti, Cerami e Veronesi – schiaccerà il fastidioso insetto volatile ma lo coglierà non in uno spazio intra-diegetico bensì extra-diegetico, vale a dire proprio sull’obiettivo della camera, da cui, noi spettatori, lo stiamo scrutando; ciò a meta-significare – in una superba coda extra-diegetica – che gli insetti, che hanno tormentato il protagonista in precedenti sequenze, eravamo noi stessi, noi spettatori che non eravamo in grado di approvare l‘operato esistenziale, così altruista e generoso,  del personaggio Romeo. È così che, concedendogli ampio e grande omaggio, il meta-linguaggio e l’extra-diegesi supportano la Contemporaneità postmoderna.

[1] Il quale ritroveremo anche in alcuni dei migliori frutti filmici di Roberto Benigni.

[2] Come, per altri versi nella realtà, nella più antica (vent’anni prima) celentaniana canzone Il ragazzo della via Gluck

[3] Crimine tutto sommato analogo ai simbolici delitti compiuti dal surreale Michele Apicella di Nanni Moretti in Bianca.

[4] Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, 1979.

[Fabio Sommella, Il cambio della guardia, pp. 145-150, Caosfera Editore, Vicenza 2017; Amazon 2019]

Adriana Migliucci scrive di Francesco Nuti

Tra i vari bellissimi strani lavori che ho fatto in ambito audiovisivo c’è stato anche quello di trascrivere al pc un po’ dell’autobiografia di Francesco Nuti mentre lui stesso me la raccontava/dettava andando indietro con i ricordi e dialogando al telefono con il fratello Giovanni. Era il 2005, una delle tante mattine in cui ero lì con lui, era proprio il giorno in cui faceva 50 anni e mi ricordo che gli portai delle pastarelle. Non credevo a me stessa, non poteva essere che ero proprio io lì davanti al mio idolo da adolescente con quella sua fossetta irresistibile sul mento e quegli occhi che non saprei definire, e lui che mi dettava alti e bassi della sua intensa vita fino a quell’anno prima di quella drammatica caduta in casa che gli ha cambiato la vita. Alti e bassi della sua vita, altissimi e bassissimi, tra film, amori, struggente affetto paterno e cose molto pesanti che mi dettava raccontando con una voce triste e tenera e che per me era davvero duro battere sulla tastiera e rileggerglielo quando mi chiedeva di tornarci su per correggere qualcosa o aggiungere altro.
Dei cinema in cui ho visto – e molto spesso rivisto – quasi tutti dei suoi film mi sa che purtroppo non c’è ne è rimasto nessuno aperto, di quella ragazza che ero stata nel buio di quelle sale con il suo volto a tutto schermo sicuramente mi porto dentro qualcosa, di quelle mattine con la sua vita tra le mie dita mi rimane una traccia indelebile di profonda sfaccettata umanità. Grazie alla vita che mi ha fatto sognare e ridere con i suoi film e che me l’ha fatto incontrare così intensamente!

 

Fabio Sommella –> Adriana Migliucci

Se tu non ci fossi, si avrebbe il dovere d’inventarti!!! 😅 Scherzi a parte, il ricordo di cui ci partecipi, ma soprattutto l’espressione dei tuoi stati d’animo a quell’esperienza, sono di una levità e sacralità umane molto rare davvero. Io, oltre ai film (in primis quel Paradiso, pure rarissimo come poeticità e simbolismo), credo di aver percepito Francesco in alcune interviste, sui giornali e in TV, nel corso degli aneddoti ufficiali in cui, come anche nelle sue migliori opere, emergeva il “non detto”, i silenzi, il “sottratto”. Uno degli elementi della sua poetica era l’oscurità, il notturno, espressione di un profondo senso di solitudine che s’incarnava nella cella d’un carcere o, all’opposto, nelle vette del Gran Paradiso, dove uno stambecco bianco – “Ne nasce uno ogni 500 anni’ – fa scorribande notturne, e infine si manifesta e si specchia in lui – due sguardi isomorfi che rispecchiano più profonde similitudini – a dispetto di ogni etologo e ricercatore di professione.

È la storia di un ragazzetto che nelle province toscane giocava al calcio, segnando molto, ma che poi fu offuscato da uno di un paese vicino, tal Paolo Rossi 🤣.
Storie di amore per la vita: sarebbe bello parlarne.
PS: ma il tuo dattiloscritto della biografia di Francesco, ha avuto un seguito? È stato pubblicato?

 

Adriana Migliucci –> Fabio Sommella 

Grazie di cuore per le tue parole su di me e concordo pienamente con quanto scrivi della sua arte e umanità. Tutta colpa del paradiso credo che sia un capolavoro assoluto e so che c’è quel film dietro alla scelta del nome di molti quarantenni-trentenni di oggi che si chiamano Lorenzo!

Quando ebbe l’incidente del 2006, ovviamente il suo progetto dell’auto biografia si bloccò e io non l’ho più potuto incontrare perdendo anche i contatti con chi me l’aveva fatto conoscere, ma sono molto contenta di aver scoperto proprio in questi due giorni che poi l’aveva ripreso scrivendola in fiorentino, pubblicata con Rizzoli ed è stata portata anche a teatro con le musiche del fratello. https://www.rizzolilibri.it/libri/sono-un-bravo-ragazzo/
Sono un bravo ragazzo - Rizzoli Libri
RIZZOLILIBRI.IT
Sono un bravo ragazzo – Rizzoli Libri

[Adriana Migliucci, Tra i vari bellissimi strani lavori che ho… – Adriana Migliucci | Facebook]

 

[A cura di Fabio Sommella, 13 giugno 2023]

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Il luogo della libertà, ovvero il palcoscenico dei De Filippo

Eduardo Scarpetta con Luisa De Filippo e i loro figli Eduardo, Titina e Peppino.
Qui rido io, film del 2021 di Mario Martone, è un’intensa e acuta parabola umana e artistica (magnifica l’ambientazione, splendide la fotografia e le riprese, serrato e avvincente il ritmo narrativo scandito anche dal susseguirsi delle struggenti canzoni del repertorio storico partenopeo) della vita, pubblica e privata, del commediografo napoletano Eduardo Scsrpetta. Tuttavia il film – che si avvale di formidabili attori tra cui, ovviamente, brilla per istrionismo Tony Servillo nel ruolo del protagonista, padre-padrone d’una atipica famiglia allargata d’inizio secolo – è soprattutto un omaggio alle origini e alle emblematiche premesse, ancora umane e artistiche, di Eduardo De Filippo e dei suoi sorella e fratello Titina e Peppino. È la sottesa, implicita, dialettica fra i due Eduardo – Scarpetta senior e De Filippo – che fa vibrare le corde emotive e intellettuali di tutta la vicenda. L’analisi dei caratteri e gli intrecci esistenziali sono resi magistralmente da Martone ma l’acme di tutto il racconto filmico sta nel drammatico ausilio che il giovane Eduardo dà all’ancora piccolo Peppino quando quest’ultimo, disperato, vuole fuggire verso una non meglio anelata libertà. In quel frangente Eduardo blocca il fratellino indicandogli il palcoscenico e dicendogli: “Vuoi la libertà; è lì sopra, la nostra libertà!” In questa maniera Martone – riecheggiando nobili precedenti figure cinematografiche, che vanno dal padre di Fanny e Alexander di Bergman (che nel suo teatro trovava un luogo certo e riparatore rispetto alla convulsa vita quotidiana) al pianista sull’oceano di Baricco/Tornatore (che rifuggiva l’aperto mondo in luogo dello spazio conchiuso eppur in qualche modo infinito della tastiera del suo pianoforte) – lascia che la vicenda, pur intrigante di una comunque ordinaria saga famigliare d’inizio secolo, si apra alla leggenda, toccando le vette dell’elegia e del sublime. Il “vecchio”, incarnato in Scarpetta, ancora vincolato e ben saldo alle maschere se non di Pulcinella certo a quelle della sua creatura Felice Sciosciammocca, subordinato alle egide culturali dannunziane e crociane di cui, pur in modo diverso, era succube, lascia il posto e prelude al “nuovo”, incarnato nel giovanissimo Eduardo (di cui conosciamo la futura non subordinazione al pur grandissimo Pirandello). In quell’acme, attimo d’intenso soccorso dialogico fra i giovanissimi Eduardo e Peppino, Martone annuncia il futuro e restituisce, a noi spettatori, la profondità ma anche il sapore agro-dolce di quella che sarà parte della grande storia teatrale e dello spettacolo italiano, ma non solo, del ‘900.
[Fabio Sommella, 22 maggio 2023]

 

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