Occidente e razzismo (Quante – tristi – analogie nella contemporaneità)

“Molti americani bianchi – e in particolare quelli che abitano nel Sud rurale del Paese – conducono una vita grama, caratterizzata da una bassa scolarizzazione, lavori mediocri e un relativo stato di povertà. Il loro senso di superiorità nei confronti dei neri era l’unico privilegio a cui potevano attaccarsi. Ecco perché la presidenza di Barack Obama ha sferrato un duro colpo alla loro autostima, minando il loro presunto vantaggio sociale. È proprio sulla loro ansia e il loro risentimento che Donal Trump ha fatto leva.”

[Dall’articolo di Repubblica del 7 settembre 2018 di Ian Buruma, traduzione di Marzia Porta]

 

 

Dissonanze e Minoranze

Prendendo spunto da un mio precedente articolo – quello relativo alle Dissonanze, tanto cognitive che musicali, del 20 giugno 2018 – mi piace qui ampliare il medesimo concetto estendendolo al tema delle Minoranze nell’ambito sociale, ovvero delle grandi o piccole collettività/comunità umane. Anche perché sui blog si leggono spesso unilaterali affermazioni tipo “Le Minoranze devono necessariamente sottostare alle Maggioranze“. Beh, mi sembra il caso di affrontare la tematica – cruciale, anche nella nostra contemporaneità – con un minimo di riferimenti scientifici e non solo sull’onda dell’emotività.

Rimandando all’articolo del 20 giugno 2018 per alcuni aspetti di dettaglio – relativi alle nostre necessità di coerenza, strategie di riduzione della dissonanza cognitiva, ai parallelismi con la dissonanza musicale – interessa qui approfondire il nesso e il parallelismo con le Minoranze. A tal fine mi rifarò ad alcune mie precedenti riflessioni – datate luglio 2015 –  in epoca in cui tra le altre cose mi sono dedicato, pur provvisoriamente, ad un corso di studio in psicologia sociale.

La dissonanza cognitiva, teorizzata da Leon Festinger, svolge per la psiche un affascinante ruolo di ricerca di stabilità che, consciamente o inconsciamente o, ancora, per rimozione o per dissociazione, operiamo al fine di sottrarci all’ostinato, o naturale, cambiamento del nostro agire o sentire, con la probabile finalità di mantenimento o evoluzione del nostro .

Come già detto la citata dissonanza cognitiva richiama la dissonanza in altri ambiti di conoscenza, specificamente quello musicale per il quale, il compositore e maestro Roman Vlad, sosteneva che essa fosse “motore della storia musicale”. Un breve estratto, molto indicativo in tal senso, da p. 150 del libro indicato al suddetto link: “Fin dall’antichità ci si accorse che quanto più semplici erano i numeri di queste frazioni, tanto più  dolcemente suonavano insieme, «consonavano»  i rispettivi suoni, tanto più consonante era l’intervallo  da essi formato. (…)  A quellìepoca, e fino al Medio Evo avanzato, tutti gli altri intervalli, caratterizzati da rapporti numerici comprendenti numeri quali 5, 6, 7, 15 e 16, venivano considerati dissonanze. Anche le terze e le seste, che per le nostre orecchie suonano in modo perfettamente consonante.” [Roman Vlad, Introduzione alla civiltà musicale, Zanichelli, Bologna, 1988, p. 150]

A tutto ciò si affianca, stavolta in ambito squisitamente di psicologia sociale, il ruolo che, secondo Serge Moscovici, le minoranze svolgono nell’evoluzione sociale. L’evoluzione costante è, a parere di Moscovici, dovuta soprattutto all’influenza delle minoranze, da principio inascoltate e dissidenti, poi incidenti nell’evoluzione sociale.

Mi sembra possa avere importanza rimarcare che le minoranze, indicate da Serge Moscovici, svolgono un ruolo nel sociale analogo a quello che la dissonanza svolge nella cognizione; e che di nuovo, a questo punto, si potrebbe stilare anche una seconda proporzione: le minoranze stanno alla costante evoluzione sociale come la dissonanza, stavolta armonico-melodica indicata da Roman Vlad , sta nuovamente all’evoluzione NdR: storia] musicale.

Pertanto potremmo dire che, decisamente, siano le note stonate, o quelle che in certe fasi storiche appaiono tali – tanto socialmente quanto cognitivamente nonché ancora musicalmente – a fornire energia al motore evolutivo, in ogni ambito.

In questo scenario “gnoseologico”, forse non è marginale osservare che Festinger, pur nato a New York, era figlio di immigrati ebrei russi; Moscovici e Vlad erano entrambi romeni, il primo naturalizzato francese e il secondo naturalizzato italiano. Inoltre Festinger e Vlad erano entrambi del 1919 mentre Moscovici, poco più giovane, del 1925. Tutto ciò lascia intuire un similare analogo fervore intellettuale e culturale, epocale, originantesi dall’Europa dell’Est, macro-area per certi versi davvero minoritaria,  decisamente  dissonante, eppure potente motore di molte innovazioni culturali.

Gli attuali teorici degli orgogliosi purismi a tutti i costi – nazionali e nazionalisti – riuscirebbero a comprendere queste sottigliezze?

[Fabio, 10 agosto 2018]

La fratellanza – transnazionale e transculturale – verso l’estraneo (in tempi non sospetti)

Giuseppe Giusti, l’empatico antropologo culturale ante-litteram

Di tanto in tanto mi tornava in mente, la famosa poesia di Giuseppe Giusti – Sant’Ambrogio, 1846 – uno degli emblemi della nostra letteratura risorgimentale.

Stamane qualcosa – giocavo, nella mia testa, con il termine gabellare – me l’ha riproposta in piena coscienza; tanto che sono andato a cercare quei versi.

Ed eccoli qui, a questo link. Poesia magica e bella, direi (come l’isola non trovata di gucciniana memoria… ma questo è un altro discorso! 😊)

Bella è bella, questa intensa e godibilissima lirica. Leggibilissima e comprensibile, davvero, già in prima lettura.

E – son persuaso – attualissima più che mai, in quanto – in tempi non sospetti, 1846, cioè in epoca di poco precedente alla I Guerra d’Indipendenza – al di là dei contingenti conflitti politici nazionali – patrioti italiani vs impero austriaco – rivela qualcosa di grandioso e potente.

Che cosa?

Ma la forza, sotterranea eppur incontrovertibile, della fratellanza transnazionale e transculturale.

Nel caso specifico, vale a dire nell’episodio così gustosamente narrato dal Giusti, ci sono alcuni elementi che si fanno mediatori di questo processo.

In primis, la sede o luogo dell’azione: la magnifica basilica milanese-romanica di Sant’Ambrogio.

Ma, solamente questo, certo non basterebbe; in quanto effettivo catalizzatore di questa subliminale reazione – elemento di cambiamento, vettore di trasformazione – sarà soprattutto la musica: dapprima un coro di Giuseppe Verdi, poi un lento e solenne cantico tedesco.

Perché effettivamente sono, questi elementi, quanto serve e quanto basta per attivare, nel protagonista della lirica, i necessari processi biologico-psicologici – appartenenti alla nostra specie – di empatia, di comunicazione e identificazione umani; ciò financo verso il presunto o reale nemico, verso lo straniero, l’estraneo: verso colui che – scriverà nel secolo successivo Erich Fromm – non ha alcun punto di contatto con noi. Eppure con il quale, il protagonista della poesia di Giuseppe Giusti (l’uomo Giuseppe Giusti medesimo?), riesce a stabilire alla fine un nesso, un legame, un ponte. Ciò a dispetto di qualsiasi dominante e contingente conflitto e forma d’odio: nazionale, politico, culturale, razziale.

Si rilegga tutta la poesia, in particolare ponendo attenzione a versi come “Un desiderio di pace e d’amore, / Uno sgomento di lontano esilio, (…) A dura vita, a dura disciplina, / Muti, derisi, solitari stanno, (…) E quest’odio che mai non avvicina / Il popolo lombardo all’alemanno”.

Stupore?

Probabilmente no. Ma quella effettuata da Giuseppe Giusti, quasi due secoli fa,  di fatto è un’operazione di antropologia culturale ante-litteram.  Pur se svolta all’interno di un contesto storico-politico – il Risorgimento italiano – che, ovviamente, non lasciava dubbi circa le scelte ideologiche e di fazione in cui schierarsi.

Operazione di antropologia culturale di cui – oggi, più che mai – dovremmo tenere conto tutti, specialmente i cultori degli stolidi nazionalismi contemporanei, delle xenofobie, degli ottusi e ciechi orgogli patriottici, degli odii razziali, del noi contro di loro.

[ 7 agosto 2018]

 

La favola (o barzelletta) degli Operatori, questi “creativi” (grandi imprenditori, è!!!)

L’Utente è soddisfatto: ha sottoscritto un contratto con un Operatore  per un pagamento di 20 Euro mensili. Moltiplicato per 12 mesi solari – quelli canonici dell’anno –  il totale è di 240 Euro/Anno. L’Utente pagherà questo importo all’Operatore.

“Va bene”, pensa tra sé l’Utente.

Un bel giorno, uno dei più grandi imprenditori, un Grandissimo Manager, davvero, capace di creare valore come non pochi (!!!) – probabilmente anche sulla scia di altri responsabili del medesimo Settore di Servizio (altri Operatori) nonché sotto la pressione della Finanza Internazionale (chissà) –  ha comunque la brillantissima idea – tocco di magia imprenditoriale, un vero genio – di far diventare ciascun pagamento – di 20 Euro – relativo non più al mese solare bensì pertinente a un ciclo di soli 28 giorni.

In effetti è un numero più tondo: 28 giorni o 4 settimane.

Solo che, nell’anno, di tali cicli ce ne sono 13.

In termini di pagamento il risultato è che il nostro Utente pagherà così un ammontare di 20 x 13 = 260 Euro all’anno.

Occhio, ragazzi: questa è creazione di valore, è!!! Già, perché moltiplicato per il numero di utenti dell’Operatore… Tutto merito del Grandissimo Manager!!!

Sigh… davvero questa è la creazione di valore???

Le Associazioni dei Consumatori protestano. Così qualche tempo dopo l’Operatore – quel grandissimo manager pare abbia cambiato azienda – torna sui suoi passi: comunica che ciascun pagamento tornerà a essere relativo al mese solare.

Bene: ciascun pagamento non sarà più relativo a 28 giorni o a 4 settimane bensì al mese solare: quindi ci saranno i 12 canonici pagamenti annui, uno per ogni mese.

Però – !!! – per ciascun pagamento interviene un aumento del 8,6%: pertanto ciascun pagamento da 20 Euro diviene di 21,56 Euro.

Moltiplicato per 12 mensilità, risultano 258,72 Euro/Anno.

Ma… dove li trovano questi imprenditori? Questi geni della Finanza?

Ma quante cose abbiamo da imparare da loro? ☹

Le Associazioni dei Consumatori riprendono a protestare.

Ma perche? Davvero è successo? Ma sarà una favola! O una leggenda metropolitana?

O forse una barzelletta.

 

 

Motti del giorno

Mi ha detto un saggio che “Mejo avecce l`animo popolare ch` esse schiavi senza avecce n` cazzo.” [Cit.]

Il medesimo, saggio, sostiene che “Il video gioco della contemporaneità rivede le proprie tecniche e le inserisce in un comparto narrativo – anche di analisi e relazione – che risente dell’intensità cinematografica; ovvero: il video gioco NON è solo intrattenimento.” [Cit. 2]

 

La nostra antropologia

Stamane sono stato all’AMA. Si, l’Azienda Municipale Ambiente. Quella in via Capo d’Africa. Non dovevo pagare nulla, ma avevo smarrito l’ultimo avviso di pagamento, pervenuto qualche giorno fa. Contestualmente poi ho pensato bene di effettuare la variazione dell’utenza, ancora a nome di mia moglie. Sono arrivato lì poco dopo le 9:30. La sala d’accoglienza era gremita. Non conoscevo – no – non conoscevo affatto questo sportello dell’AMA. È in un rione storico di Roma – Celio, poco dopo San Giovanni, prendendo via Labicana – a poche, davvero poche, centinaia di metri dal Colosseo. Questo s’intravede, di lontano, lungo gli stradoni paralleli alla via principale. Magnifico! La mattinata era luminosa. Splendida. Estiva. Il cielo azzurro di Roma sovrastava tutto (che scoperta, è?) Gli spazi dell’antica urbe – perché anche quegli stradoni, che vanno da San Giovanni al Colosseo, appartengono all’Antica Roma – erano veramente stupendi. E mentre giungevo in questa agenzia di Roma Centro – al telefono, ieri, una cortese impiegata ha tenuto a sottolinearmi ciò – avevo pensieri altrettanto magnifici, che ora non rammento bene, ma garantisco sulla loro autenticità e magnificenza!!!

 

Entrato sono però stato aggredito dalla penombra, una penombra che – almeno per i miei occhi – dominava ovunque. Si, insomma: venendo da fuori, l’ambiente era scarsamente illuminato. La sala era molto grande ma gremita di gente. Gran confusione. Un vociare diffuso e ininterrotto. Apparentemente una bolgia dantesca. Ho preso il numeretto al dispensatore automatico. Una gentile addetta al servizio d’ordine mi ha aiutato – in quella confusione ho specificato «Non ho gli occhi buoni!» – e neanche capivo bene dove dovevo aspettare. Mi pareva ci fossero luci solo in fondo. Nel fragore ho visto che il mio numero era il 217. Stavano al 50-60 circa. Avevo quasi 160 persone davanti. Così ho deciso di andare a fare un giro e a scattare qualche foto. Ed è stato bene, perché il rione era incantevole

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Quando sono tornato stavano al 70-80. Mi sono appoggiato al muro, ad aspettare pazientemente (i posti a sedere, pur numerosi, erano tutti occupati). In queste situazioni, inevitabilmente, t’immergi nella folla. Ti lasci andare in quel soporoso caos sistematico. Si: una folla di persone della quale ascolti i discorsi più disparati. I discorsi più disparati ed eterogenei. Dopo aver familiarizzato con una signora – una bella signora, giovane e fine – mi sono di nuovo appoggiato al muro però un po’ più in là, per lasciare il posto libero. Lì c’era un giovanotto, coi baffetti, poco alto, che tuonava contro tutti: «Loro lo sanno… loro lo fanno…», sembrava un complotto dei dannati del Pendolo di Focault. Eh si, i complottismi nostrani! Interloquiva con uno un po’ più anziano – età mia? – abbastanza robusto, tipicamente romano. Discorsi populisti, qualunquisti. «Guarda se qui ce so’ gli immigrati a paga’ la spazzatura… ce so’ solo i Romani a paga’… io c’ho ‘na casetta… m’hanno richiesto un pagamento… io c’ho mi’ moje che fa questo…» A me, per esorcizzare il tutto, mi veniva da cantare Casetta de Trastevere. Così, nella confusione, ho iniziato; tanto, in quel boato continuo, chi mi sentiva? «Casetta de Trastevere, casa de mamma mia . Tu me te porti via la vita appresso a te. Tutti li sogni cascheno mattone pe’ mattone, ma sotto ar porverone io nun te vedo più.» E poi c’era pure la magnifica intro, mica ce la possiamo dimenticare: «Fa’ piano, murato’, co’ quer piccone. Nun lo vedi che mamma è ancora lì?»

Ecco, pensavo, pensavo a come – malgrado tutto, mutatis mutandis – la Roma attuale non sia diversa dalla Roma di quegli anni, ovvero degli anni ’30, della Roma fascista, quando il duce faceva eseguire lo sventramento di Roma. E ho ricordato come ciò riguardasse anche Spina di Borgo, il quartiere medievale dove poi è sorta via della Conciliazione. Lì è nata e ha abitato – i primi anni della sua vita – mia madre. E, oltre a pensare a come quella Roma non sia diversa dall’attuale, pensavo – ma quanto pensavo? – anche a quanto non sia differente da quella dell’antichità. Ad esempio da quella del Colosseo, che aveva sostituito il Colosso fatto costruire da Nerone, a poche centinaia di metri da dove mi trovavo quando avevo ‘sti pensieri. Che poi, avendo Nerone subito la Damnatio Memoriae, era stato abbattuto – quel Colosso – e dai Flavi era stato fatto edificare l’Anfiteatro Flavio propriamente detto.

Infine pensavo – si, ancora – a come tanti fatti – espressi anche in Casetta de Trastevere – non siano fatti irraggiungibili, lontani, rimossi ma, viceversa, siano ricordi. E quindi a come questi ricordi siano tuttora presenti e ci condizionino – spesso, per fortuna, anche positivamente – perché stanno nella nostra coscienza passata ma anche nel nostro presente e financo nel nostro futuro.

Perché, ciò?

Ma perché sono la nostra antropologia.

Dissonanze

Abbiamo necessità di coerenza. Necessità di sentirci coerenti. Avvertirci tali. Anche se non lo siamo. A tal fine adottiamo – consapevoli o meno – strategie di riduzione della dissonanza. Nel nostro caso della dissonanza cognitiva.

La dissonanza musicale – affermava Roman Vlad – è motore dell’evoluzione musicale. Divenire coscienti della dissonanza fra suoni permette alla musica di evolvere.

Analogamente, divenire coscienti della dissonanza cognitiva dovrebbe permettere l’evoluzione delle persone, delle comunità, della Società.

Strategie di riduzione della dissonanza cognitiva l’adottano i negazionisti dell’Olocausto. La adottavano gli addetti alle camere a gas che, con le loro amorevoli famigliole, abitavano gli incantevoli agglomerati abitativi limitrofi ai forni crematori. E che, per evitare che i fumi dei camini entrassero nelle loro case ben arredate dove piccoli infanti coltivavano i sogni propri della loro età e allietavano le proprie ore con deliziose suonatine al pianoforte, serravano bene le finestre, oltre le quali i vetri e le tendine colorate cercavano di far dimenticare e rimuovere gli orrori esterni.

Strategie di riduzione della dissonanza cognitiva l’adottano – o la adottavano – anche gli adepti dell’inflessibile mondo finanziario-economico monetario: in azienda, in Borsa, spietati sparvieri della finanza; in casa, amorevoli padri e madri.

Come se l’incoerenza dovesse essere dimenticata.

Come se si possa – e si debba – amare profondamente tutti coloro che sono interni al proprio garden. Mentre coloro che sono esterni a esso, coloro che sono al di là – lo straniero, diceva Erich Fromm – possano essere – e debbano essere – al più ignorati se non sgominati, distrutti, annientati, disintegrati, ridotti in polvere, che questa sia reale o morale fa poca differenza.

L’importante, per coloro – siano essi i mostri del nazismo o quelli della finanza – è non divenire coscienti della dissonanza cognitiva. Ridurre la coscienza di tale dissonanza. Nel parallelo dell’evoluzione musicale, ciò è il non evolvere sociale.

C’è una riduzione della dissonanza cognitiva rispetto alle immigrazioni?

[Fabio, 20 giugno 2018]