Il personale Leggere e Scrivere: un susino con foglia, forse frutti se il sole…

La metafora brechtiana del susino, a cui – sapientemente e metodologicamente – ricorre Cinzia Baldazzi per significare la rilevanza del Leggere e dello Scrivere, è di una bellezza e delicatezza particolari.

In questo modo la scrittrice e critica letteraria ci permette di irradiare di nuova energia la nostra mente, specie in questi giorni di cupo e forzato isolamento casalingo da Covid-19.

Allo scopo Cinzia Baldazzi prende dapprima spunto dagli scritti estetici di Benedetto Croce,  dove idealisticamente si afferma che “Ogni schietta rappresentazione artistica è in se stessa l’universo ”

Subito dopo, al fine di  suffragare ulteriormente ciò, non rinuncia a far ricorso ai propri consueti riferimenti kantiani, in questo caso quelli estetici,  evidenziando che “non si dovrebbe dare il nome di arte se non alla produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni”.

Infine Cinzia Baldazzi si premura di fissare bene la produzione libera attraverso “qualcosa di costretto (…)  un meccanismo, senza il quale lo spirito, che nell’arte deve essere libero e che solo anima l’opera, non acquisterebbe corpo e svaporerebbe interamente”.

Come dire, quindi, che nell’arte sono fondamentali, certo, la libertà e il genio ma non – o, perlomeno, non solo – la sregolatezza quanto, piuttosto, anche il rigore.

Una ricetta e un metodo utili anche per noi, anche alla nostra quotidianità, al fine di non disperderci specie – ma, anche qui, non solo – in questi giorni di maggior possibilità di riflessione, elucubrazione, lettura, elaborazione, scrittura; affinché pervenga un po’ di sole al nostro personale susino brechtiano, oggi avente una foglia e, in molti casi, niente frutti.

Facciamone tesoro, noi che possiamo!

[Fabio Sommella, 21 marzo 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

L’istanza tragica nel fumetto d’autore: il caso de La Storia del West

La pagina 55 del fascicolo N°5, Alamo, de La Storia del West, edizione 1984, edita da Cepim.

In questi giorni di desolazione e ansia, molti luoghi del pianeta – e adesso qui da noi in Italia – sono purtroppo trasformati in una sorta di avamposto di eroi, diffidenti l’uno dell’altro, ultimo baluardo assediato da un implacabile nemico denominato  Coronavirus e Covid-19. Le analogie tra la nostra condizione e quella di personaggi della fiction non sono peregrine e varie metafore possono emergere e delinearsi nella nostra coscienza, provenendo magari da molto lontano.

Una metafora può essere espressa dai fumetti.

Anche i fumetti, analogamente alla narrativa e al cinema, raccontano: e se questo raccontare assurge a livelli qualitativi autoriali, tanto la narrativa che il cinema quanto anche i fumetti medesimi divengono vere e proprie opere d’arte.

Molti sono, indubbiamente, i fumetti d’autore, o fumetti opere d’arte; tra questi ne annovero alcuni che mi sono particolarmente cari. Rimanendo, qui,  nel panorama italiano, collocandoci nello spazio temporale del secondo ‘900 e, all’interno di questo,  a cavallo dei decenni ’70-’90, senz’altro, tra le saghe di comics di maggior pregio, se ne possono indicare almeno due: a mio avviso la prima è Ken Parker, autori la coppia  Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo; la seconda è La Storia del West, attribuibile, de jure e de facto, al suo padre artistico e spirituale Gino D’Antonio, con cui ovviamente nei decenni hanno collaborato alcuni tra i migliori disegnatori italiani di quegli anni.

Tralasciamo in questa sede, almeno per ora, le avventure – connotate da uno stile asciutto e decisamente postmoderno – di Lungo Fucile – questo l’evocativo nome di battaglia che gli indiani d’America, nella fiction omonima, hanno attribuito a Ken Parker, il generoso antieroe della tarda frontiera americana dal volto preso in prestito dal Robert Redford di Corvo rosso non avrai il mio scalpo. E, viceversa, rivolgiamo la nostra attenzione alla saga de La Storia del West.

Gino D’Antonio crea – partorisce, sarebbe il termine più idoneo – la saga de La Storia del West – dei Mac Donald, potremmo dire, ovvero della famiglia che per tre generazioni compie le proprie gesta, dal 1804 al declinare del secolo, lungo gli sconfinati spazi della frontiera americana – nel 1967 con la Collana Araldo. Questa, per capirci, è la casa editrice milanese che tiene capo al mitico Tex (nato nel 1948 con il volto di Gary Cooper) di Galep-Bonelli (al secolo rispettivamente Aurelio Galeppini e Pierluigi Bonelli, quest’ultimo Bonelli padre). Con uscite saltuarie e irregolari, intervallate da atre pubblicazioni, La Storia del West pubblicherà oltre settanta (76?) fascicoli formato gigante .per tutti gli anni ’70. Tra i principali disegnatori, oltre a sé stesso, a cui Gino D’Antonio farà riferimento in corso d’opera figureranno, tra gli altri, Sergio Tarquinio, Renato Polese, Renzo Calegari.

Nel 1984 sarà la volta della riedizione, in parte ampliata nei primi episodi/fascicoli, della medesima saga de La Storia del West, stavolta edita dalla Cepim.

Per chi ha letto, in parte o totalmente, entrambe le edizioni, rievocarle ha il sapore non della pura e semplice nostalgia giovanile ma rammentare una forma di educazione alla storia, pur in parte rivisitata in chiave finzionale, non priva dei necessari pathos ed empatia per l’esistenza: è questo che l’arte dell’autore Gino D’Antonio è riuscito a infondere  a pressoché ogni episodio della saga de La Storia del West, a ogni pagina, a ogni fumetto.

Un esempio, credo pregnante, è quanto ho recuperato ieri, pensando alla nostra condizione di assediati da Coronavirus; spontaneamente l’ho comparata all’assedio, storico, dei messicani alla fortezza di Alamo nel 1836, in cui erano asserragliati coloni texani. Gino D’Antonio ne parla nel fascicolo N°5 , intitolato appunto Alamo, della riedizione del 1984 de La Storia del West.

Dopo la panoramica a inizio articolo, ne estraggo in dettaglio i 7 fumetti della pagina 55, in cui – con sequenze di tipo filmico, dal momento che vige anche un sapiente campo-controcampo dei due protagonisti – il capostipite Brett Mac Donald dialoga, in modo struggente fino alla commozione, con la moglie indiana Sicaweja, giungendo a rievocare il massacro epico delle Termopili: alto fumetto d’autore dove l’istanza tragica domina incontrastata fino alla catarsi. Senza aggiungere altro, lascio al lettore il gusto di scoprire – o riscoprire – questi piccoli ma grandi gioielli del comics nostrano, con il solo augurio che, presto, per noi tutto termini, catarticamente, con la vittoria degli assediati.

Grazie a Gino D’Antonio e ai suoi collaboratori.

Ad Majora!

[Fabio Sommella, 13 marzo 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Giungere al cuore del lettore (recensione a La donna dai capelli rossi, racconto di Rosanna Sabatini)

È in una dimensione parzialmente altra – tra cui Bastia, Corsica – che la scrittrice romana Rosanna Sabatini – già autrice del pluripremiato Un volo d’aquiloni, Edizioni Thyrus, 2018 – ambienta il suo inedito La donna dai capelli rossi, che tuttavia ha già ricevuto una menzione di merito in un concorso letterario. Il racconto è in bilico fra più ambiti: il management industriale, le agenzie investigative, la cittadina francese e Roma; è forse per questo motivo che, fin dalle prime battute, manifesta una sorta di alone evocativo di atmosfere stranianti, che poi giustamente si trasforma con il procedere della narrazione.

Le due – verosimilmente giovani – amiche Diana e Lisa – probabilmente istanze rispettivamente emotiva e razionale di una medesima entità femminile, chissà quanto e come autobiografica dell’autrice – danno il via a un intreccio in cui un attempato vedovo – Andrea, già nonno e padre di Ada e Paola, quest’ultima affetta da tumore – seppure innamorato, ha da poco interrotto il suo rapporto amoroso con Diana, ciò al fine di stare maggiormente vicino alla figlia malata. L’incipit e il sapiente flashback saranno seguiti poi dagli sviluppi, in effetti densi di relativi colpi di scena; il tutto all’interno di un filo tematico che, a dispetto della realtà spesso fraudolenta in modo sistematico, privilegia gli affetti e le relazioni fondate sulla leggerezza, questa nell’accezione di Italo Calvino, facendolo in modo avvincente. Con il procedere del racconto, altri personaggi entreranno in scena a movimentare e a veicolare i significati – etici – che l’autrice desidera trasmettere al lettore. Ciò viene supportato da una prosa al contempo lineare e musicale, in cui le citate istanze razionale ed emotiva si controbilanciano in un continuo gioco che risulta divertente e gaio, anche quando giunge a lambire i registri se non del tragico, certo del drammatico.

Se il nucleo della narrativa di Rosanna Sabatini – come da lei stessa dichiarato nel corso di colloqui privati, avendo lo scrivente di queste righe il privilegio di conoscerla personalmente – sono il cuore e l’emozione, si deve concordare che l’autrice – anche con questo racconto, decisamente al femminile, solo in apparenza semplice in quanto ricco di suspense e di nodi esistenziali man mano dipanati con abilità e colore – centra il proprio obiettivo facendo uso di un garbato riso e di una sana ironia, sempre utili in un mondo in cui predomina l’inganno. È in questo modo che Rosanna Sabatini riesce a giungere al cuore del lettore e a suscitarne l’emotività.

Rimane da chiedersi: quando e come  La donna dai caoelli rossi sarà pubblicato e fruibile al largo pubblico?

[Fabio Sommella, 15 febbraio 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Il Genio non ha regole accademiche (il caso di Lucio da Poggio Bustone)

Amo tutta la canzone d’autore, italiana e non solo, ma in particolare quella della Grande Stagione che va da inizio ’70 alla metà degli ’80. Amo le voci e gli stili dei maggiori cantautori. Tuttavia, talvolta, ascoltando per ore e ore le canzoni e le musiche di uno solo di loro – inevitabilmente – subentra comunque, in qualche misura, un senso di stanchezza; come se la voce e lo stile di quel pur grande autore – che magari davvero amo moltissimo – si riproponesse pressochè costante e invariata nel tempo, provocando una qualche forma di assuefazione all’ascolto. In questi casi, passo allora ad ascoltare altro autore o altro genere di musica. Ciò mi accade anche con alcuni dei grandi gruppi rock internazionali di quegli anni.

Però non mi accade, devo dire, con la musica di Lucio Battisti.

Ieri infatti, mentre lavoravo ad alcuni documenti, con gli auricolari ho ascoltato per ore e ore – in pratica dal mattino alla sera – le canzoni del nativo di Poggio Bustone, canzoni e composizioni strumentali selezionate casualmente dai motori del web. Non credo sia dipeso da un fortuito  mix randomico delle selezioni; più verosimilmente ritengo dipenda dall’ampia gamma di registri stilistici e arrangiamenti musicali di Lucio. Fatto sta che, in quelle tante ore di ascolto, non ho mai avvertito – pur minimamente – un qualche senso di stanchezza uditiva bensì una continua curiosità di ascolto. Come se, Lucio Battisti, abbia saputo esplorare l’intero universo musicale possibile, variandolo e diversificandolo sapientemente nel corso della sua carriera e produzione, musicale e poetica, dandogli molteplici forme, toni, colori, conferendogli modalità e sonorità che non provocano assuefazione, non inducono ad alcuna forma di stanchezza uditiva o cerebrale… Splendido!

Allora mi sono ricordato di quando – ero appena adolescente – in TV, noi ragazzetti di allora, già ammaliati dalle canzoni e dalle atmosfere di Mogol e Battisti, vedemmo Lucio intervenire in una trasmissione serale in diretta. Era un luglio dei primissimi ’70. La sua apparizione in TV non era per cantare bensì per dirigere un’orchestra (“A luglio si reca a Campione d’Italia per dirigere un’orchestra di 25 elementi nell’esecuzione di 7 agosto di pomeriggio[”, da https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Battisti e anche  https://www.luciobattisti.info/?page_id=1276).

In quella sera d’estate di un inizio ’70, nella TV in bianco e nero di allora, io e mio fratello, emozionati, aspettavamo che Lucio cantasse uno dei suoi brani tradizionali. Invece lui, senza proferir alcuna parola, salì su un palco dinanzi a un’orchestra e a un pubblico. Quindi solo con gesti – che ci apparivano magistrali e misteriosi – lo vedemmo dirigere quegli orchestrali. Si trattava di un brano esclusivamente strumentale: 7 agosto di pomeriggio. Era contenuto nell’album Amore e non amore. Per la musica pop o beat di allora era un brano decisamente d’avanguardia, dissonante… si provi a riascoltarlo anche oggi. Tutto ciò era abbastanza inconsueto, forse per lui ma senza dubbio per noi, che rimanemmo infatti delusi.

Al termine dell’esecuzione, Lucio con rinnovati e sempre essenziali gesti di ringraziamento, continunando a non proferir parola alcuna, si accomiatò da tutti, defilandosi in un nuovo sorprendente e irreprensibile distacco.

Che solennità!

Che mistero!

Che fascino!

Ma, anche, che delusione, per noi fan, ragazzetti di allora.

Solo a distanza di anni ho compreso come, da una parte l’orgoglio artistico di Lucio e dall’altra anche il gioco delle commistioni e contaminazioni culturali dell’epoca, propendessero e facessero sì che si potesse attuare un rituale che definisco totemico-misterico di quella portata e tipologia! 😊

L’arte creativa – polimorfa e, per certi versi, eterea – di Lucio, unita alle disposizioni attitudinali della cultura del tempo, rompeva profondamente – fino a lacerarle, facendole a brandelli – le regole cristallizzate dei conservatori, i loro dogmi e precetti; ne era al di sopra; era oltre; sublimava e travalicava i criteri e le attese della tradizione, li confondeva, li superava. Generava un nuovo alveo in cui la poesia e l’immaginazione dell’autore sovrastavano e subordinavano qualsiasi  possibile e predefinito criterio di scuola o accademia musicale.

L’artista creatore, l’artista a tutto tondo, diveniva divinità – di lì a pochi anni Edoardo Bennato avrebbe incensato/dissacrato sulla figura del Cantautore – a cui tutto era concesso, anche dirigere un’orchestra; e Lucio Battisti, novello demiurgo e deus ex machina, incarnava a pieno questo ruolo e questa figura. In tal modo anticipava in un sol colpo le tendenze della sua – ma non solo – evoluzione  musicale dei vent’anni successivi.

Il Genio non ha età, non ha tempo, non ha luogo, non ha regole accademiche da rispettare ed erompe – anche platealmente – contro e oltre i criteri dei dogmi, degli ordini e delle prescrizioni.

Ci manchi, Lucio: ci manchi! Grazie per averci donato i tuoi ritmi, le tue musiche, le tue intensità compositive, le tue rabbie, le tue voci strozzate, la tua espressività.

Ad Majora!

[Fabio Sommella, 28 gennaio 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Elena Vannimartini intervista Fabio Sommella sul libro Quel ventennio al femminile

Nei giorni di fine novembre 2019, l’Autrice Sognatrice Elena Vannimartini ha intervistato Fabio Sommella in merito al suo libro Quel ventennio al femminile, testo di critica filmica disponibile, sia in formato cartacep che in formato ebook/kindle, sulla sua vetrina AMAZON.

L’autore parla di  cosa è questo libro, come è stato concepito, il contesto storico-sociale di riferimento, da dove parte e dove arriva, non escludendo nessi anche con l’oggi.

Grazie all’amica Elena e, facendo clic qui o sull’immagine sottostante, buona visione a tutti.

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Una chiave fiabesca per vivere la realtà della transizione?

Selenia Ciuffoletti, con Io e Zeta (Kubera Edizioni, 2019), metaforizza la dolorosa transizione adolescenziale – il distacco dagli affetti atavici e primigeni – in una tenerissima – è il caso di affermarlo – chiave fiabesca.

Se di fiaba si tratta, tuttavia, essa comprende senz’altro fini etici, educativi, di formazione, appunto, di ricerca e crescita della piccola protagonista.

Da subito il lettore si avverte partecipe di Viola, suonatrice dispersa in una sorta di ennesimo paese delle meraviglie (varie citazioni di personaggi di favole, in dismissione, saranno fatte e riprese nel seguito del racconto), il quale ha comunque i confini – fieri e tesi, potremmo pensare – delle membrane di un tamburo. Coerentemente il medesimo tamburo/paese è popolato di fantasiose creature, a loro volta metafore delle controverse istanze della labile psiche adolescenziale della protagonista che abbandona l’infanzia per essere traghettata verso la maturità. Così Viola, abbandonata per sortilegio di teletrasporto da parte di Alì Coccolino – può, si chiederà il lettore, un essere dal nomignolo così affabile e garbato compiere un’azione in apparenza tanto malevola? – l’indubbiamente adorata nonna, si trova catapultata in questa nuova dimensione di bizzarria e solitudine.

Ne uscirà mai, Viola? E, se sì, come?

La seguiamo nelle sue peregrinazioni e incontri di simpatici personaggi che tuttavia non colmano il vuoto interiore di Viola, non rispondono alle sue domande. Fanno seguito ripetuti mutamenti di scenario, di tono e di umore, tra cui un boato – chissà se metafora del menarca o di una prima esperienza più intima – in cui la tensione dialettica è sostenuta dal contrasto simbolico fra una piuma smeraldina e una spada, dalla loro alternanza sulla scena, e in cui finalmente fa la sua comparsa la misteriosa figura di Zeta.

Probabilmente tutta la storia, che si attua in un serrato “percorso camaleontico”, si condensa attorno a una delle massime finali: “Sì è proprio tutto qui in questa Terra”; perché, al di là della favola, una fede immanente sorregge l’intero impianto narrativo, una fede conoscitiva che alterna dolore a entusiasmi, solitudine a coralità, luoghi comuni ed echi di storie già vissute entrate nell’immaginario collettivo a nuove misteriose entità.

Una ricetta, pur controversa, per vivere la realtà?

[Fabio Sommella, 21 agosto 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Quella spiaggia che schiude a segreti

Un racconto – Il mistero della spiaggia delle alghe, di Sabrina Cancian, Kubera Edizioni 2019 – che ha un impianto classico – terza persona, tempo dominante il passato remoto, narratore onnisciente, predominanza dell’ipotassi – ma che ben si sviluppa: un personaggio femminile, non più giovanissimo (ha un figlio adolescente), ricerca sé stessa, ritrovandosi infine dopo una serie di curiose ma anche divertenti peripezie. Queste sono tutte ben narrate, a meno di qualche piccola incongruenza – siamo nell’impianto classico, tutti i percepiti nodi dovrebbero essere ripresi e risolti – o qualche brusca accelerazione. Tutto ciò, forse, avrebbe meritato in alcuni casi tempi più dilatati e dettagli ulteriori.

Ma, al di la di questi aspetti formali, é evidente come Sabrina Cancian estragga sapientemente i significati del proprio racconto dal repertorio letterario magico-animistico, una tradizione che, tra gli altri, annovera il latino-americano Carlos Castaneda e il sud americano Paulo Cohelo. Tuttavia echi si colgono del Richard Bach di Illusioni – persone destinate a incontrarsi, ad attrarsi – e più in generale, per il concetto di Sincronicitá che ricorre nel finale del racconto, addirittura di Carl Gustav Jung.

Dopo il preambolo, tutto sommato volutamente neutro, si entra quindi sempre più nel suddetto alveo letterario e affiora  pienamente l’antitesi con il cosiddetto pensiero concettuale, proprio quell’antitesi già cara al citato Castaneda e cardine di tutti i suoi scritti, non ultimo il famoso Viaggio a Ixtlan. Secondo l’autrice, un’anelata e persa arte del vivere? Probabilmente sì, perché la vita non smette di stupire e possiede infinite porte di accesso: Sabrina Cancian, con grazia e garbo, ci mostra la sua preferita.

[Fabio Sommella, 3-4 agosto 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)