Argomentando attorno a I luoghi del pensiero di Cesare Fornari

Coloro che leggono le pagine di questo sito/blog di certo sanno che capita sovente d’imbatterci in scritti che, oltre a esser generosi, posseggono una forza interiore che emoziona; è il caso anche del testo I luoghi del pensiero di Cesare Fornari che, unitamente a Rosanna Sabatini, oggi presentiamo qui nelle seguenti Parte 1 e Parte 2.

[Fabio Sommella, 21 agosto 2022]

 

Per leggere il testo completo de I luoghi del pensiero, autore Cesare Fornari, si può fare clic qui, su I luoghi del pensiero.

Parte 1: Quei rituali contadini nella memoria, ovvero “I luoghi del pensiero” cari a Cesare Fornari [di Fabio Sommella]

Chi è Cesare Fornari, autore de II luoghi del pensiero?

Come alcuni di noi, Cesare è una persona poliedrica ed eclettica; volendo brevemente sintetizzare, senza dubbi possiamo affermare: ingegnere, ex-insegnante di scuola superiore (matematica e sicurezza sono state le sue principali aree di lavoro), agronomo, ciclista, fisarmonicista, ballerino… e certo la lista potrebbe proseguire. Pertanto, per ulteriori dettagli, rimando il lettore al sito di Cesare Fornari e alla sua pagina FaceBook.

Ma, oltre a tutto ciò, Cesare è un generoso e schietto amico che ho avuto occasione di conoscere questi ultimi anni nell’area reatina del comune di Petrella Salto, precisamente a Borgo San Pietro. Questa località, come lo stesso Cesare sostiene nell’incipit – a mio avviso straordinario – del suo scritto, è una “piccola e povera zona del reatino” che, “da bambino, mi appariva immensa, praticamente il mondo per me era tutto lì; di Rieti avevo sentito parlare appena, forse qualche volta c’ero anche stato e mi era parso un luogo misterioso, strano, al limite del surreale. Roma e la luna, poi, erano per me la stessa cosa.

Il “praticamente il mondo per me era tutto lì” ha un evidente valore simbolico che trascende la singola individualità del caso specifico e riecheggia nobili precedenti; ad esempio: rammento che il grande scrittore e artista Vincenzo Cerami, mai troppo compianto, in un’intervista sul Messaggero ebbe a dire che, quando negli anni ’50 ai tempi delle scuole medie in quel di Ciampino (area metropolitana fra Roma e i Castelli Romani) lui, immigrato con la famiglia da una limitrofa regione attigua al Lazio, conobbe un docente di Lettere che si chiamava Pier Paolo Pasolini, fu allora che comprese che il Mondo aveva una Storia. E allora ci si chiede: quale significativa analogia con le memorie del nostro amico Cesare?

Ma tornando a I luoghi del pensiero, va osservato che un incipit così superbo potrebbe essere giustamente il preambolo di un lungo e fecondo racconto alla maniera di Cesare Pavese. Viceversa Cesare Fornari, almeno per il momento, si accontenta di ripercorrere alcune pregnanti fasi della sua infanzia attraversando una gustosa galleria di immagini, sequenze, suoni, odori, cerimoniali, come per esempio quando afferma “per me salire su un albero o camminare per terra era la stessa cosa“. Questi pittoreschi e caleidoscopici amarcord recano in loro l’inequivocabile sapore agrodolce – talvolta financo efferato – di una vita vissuta con occhi di bimbo perennemente curiosi.

Pertanto, invitandovi a leggere anche l’altrettanto vibrante intervento di Rosanna Sabatini qui di seguito nella Parte 2, incito il lettore a entrare ne I luoghi del pensiero di Cesare Fornari, immergendosi negli intensi ricordi di un animo sensibile, nobile e candido di quando Roma era percepita come la Luna e i romani come degli avventori talvolta invasori, teatranti plateali e patetici, nelle memorie dell’amico Cesare permeate dai rituali contadini scandenti i ritmi delle stagioni, sullo sfondo di una natura al contempo innocente e crudele,  memorie e rituali che – come accade per le genuine testimonianze accorate – acquisiscono la connotazione dell’universalità.

[Fabio Sommella, 21 agosto 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

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Parte 2: Chi è Cesare, mio cugino (Memories) [di Rosanna Sabatini]

Chi è Cesare? Mio cugino.

Un cugino speciale per la sua poliedricità ed eclettismo, come ha scritto Fabio Sommella; aggiungo: una specie di “folletto benevolo” che piacerebbe a ciascuno di noi incontrare nei boschi e comunque fuori dai centri abitati, di quei folletti di cui si parla nelle fiabe.

Che cosa abbiamo in comune oltre alle nostre madri, Gina e Iole, figlie di due fratelli? Molto più di quanto immaginassi, prima di leggere il suo scritto.

Intanto, a entrambi piace guardare il mondo che ci circonda “con gli occhi di un bambino” e Cesare ne dà ampia dimostrazione nel suo racconto. Poi, anche se sono nata a Roma, sento che non ho mai rinnegato le mie radici che affondano nel Cicolano, un lembo di terra dove gli antichi abitanti erano popoli fieri e combattivi che non si sono mai arresi ai romani e sono stati da loro sterminati.

E dei “romani” pure parla il racconto di Cesare, di quelli che sono stati costretti ad allontanarsi dal paese per motivi di lavoro dopo la costruzione della diga che ha dato origine al Lago del Salto.  Quei figli del Cicolano esuli tornavano periodicamente per “invadere” il paese – Borgo San Pietro – e spesso rinnegavano le loro origini, ostentando una certa superiorità economica e sociale rispetto ai “paesani”.

E ancora parla di suo nonno Cesare, lo zio di mia madre, che ricordo, quando alla fontana del paese andava con l’asino a raccogliere l’acqua insieme alla moglie Loreta e anche per i racconti di mia mamma bambina, quando, ad esempio, la salvò da una vipera che si era introdotta in casa.

Nel racconto di Cesare – che parla del nonno – ho rivisto mio nonno, Remigio, che come lui era uno stagnino ambulante che, però, andava in bicicletta di paese in paese e che svolgeva lo stesso tipo di vita di suo fratello, quando non lavorava.

Inoltre, quando Cesare scrive: “Spesso l’attendevo sulla porta e appena riconoscevo, da lontano, la sua inconfondibile figura correvo per andargli incontro con la speranza che mi avesse portato qualcosa, speranza che non andava mai delusa. Nelle sue tasche c’era puntualmente qualche mela o pera o, secondo la stagione, qualche nocciola, delle noci, delle fragole, delle fave ecc…”, ho rivisto il mio nonno paterno, Antonio, che lasciava per me sempre qualche grappolo d’uva appeso alle piante dopo la vendemmia.

Teneri e dolci ricordi che condivido con mio cugino. Così come condivido pure le tradizioni della tavola delle feste che mia madre seguiva a Roma come zia Loreta e zia Iole.

Infine, anch’io aspettavo con ansia le vacanze agostane per stare un po’ con Cesare, Carlo e Nadia. Spesso andavamo in un grande prato ai piedi di un castagneto poco fuori del paese – che oggi è stato trasformato in un rimessaggio per camper e roulotte – e passavamo mattinate indimenticabili a giocare. A quelle mattinate ho dedicato una delle mie poesie del libro Dal cuore e dall’anima (poesie del cassetto) – From heart and soul (poems of the drawer) della Casa Editrice Kimerik:

Musica

Musica soave,
capace di portare i miei pensieri
su ali d’argento… lontano!
I miei occhi guardano l’azzurro del cielo
e le acque di un lago,
scintillante ai raggi del sole.
Il cancello è aperto, come sempre,
quel cancello che chiudeva
l’accesso a quel prato,
Eden nei miei sogni di bambina.
E quel colle, degradante sul prato,
coperto di profumati castagni,
ricco di fragole e mirtilli,
di siepi di more e di arbusti,
è sempre lì ad aspettarmi.
Ora non vedo più
né il cielo, né il lago,
né il prato, né il colle,
né sento il profumo
dei castagni e delle fragole:
la musica è finita.

Per concludere, caro Cesare, mi hai fatto un grande regalo a voler condividere il tuo bellissimo racconto, perché mi hai dato emozioni che mi hanno fatto piangere e che hanno fatto bene al mio cuore.

Grazie!

Tua cugina, Rosanna [21 agosto 2022]

 

Per leggere il testo I luoghi del pensiero di Cesare Fornari, fare clic su I luoghi del pensiero.

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Quell’armonica, grido di speranza

Così parlò il Vecchio dell’Alpe, di Vittorio Rombolà (Progetto Cultura, 2022), è uno scritto di carattere teorematico o a tesi, considerabile romanzo breve o racconto lungo, che ruota attorno a due tematiche fondamentali: la prima è la dialettica fra opposti stili di vita nel mondo post-globalizzato e sempre più iper-tecnologizzato; la seconda è il bullismo.

Se i personaggi sono gli elementi di una storia che, insieme agli eventi che li coinvolgono, veicolano i significati della medesima, anche nel caso di questo romanzo i significati emergono grazie ai tre protagonisti: Gabriele, Valeria e Thomas. Quest’ultimo è il Vecchio dell’Alpe che conferisce il titolo al libro. Cercando di non far spoiler alcuno, cerchiamo di vedere come questi tre protagonisti veicolano questi significati.

Relativamente alla prima tematica, Valeria e Thomas sono, almeno inizialmente, figure antitetiche: Valeria è una ancor giovane e rampante professionista dell’informazione mediatica, sempre attiva e connessa (always on, potremmo dire) che, insieme a un operatore video (Gabriele), si reca in un delocalizzato luogo alpino, agli antipodi del mondo frenetico e tecnologizzato delle metropoli globalizzate, per conoscere e intervistare – nell’arco di due-tre giorni – un anziano e disincantato personaggio ancora energico, Thomas appunto.

Premesso che, come sempre nella Storia, il problema non è la Tecnologia in quanto tale bensì l’Uso che se ne fa (il Fattore e la Natura Umana docent), diciamo subito che se il personaggio di Valeria ricorda, come icona umana, la Donna in Carriera degli ’80, il personaggio di Thomas ricorda il Carl Gustav Jung dei ’50 che, negli ultimi anni della sua vita, appena poteva si ritirava nella sua Torre a Bollingen, “rinunciando al riscaldamento e all’acqua corrente, tagliandosi la legna per il fuoco e pompando l’acqua dal pozzo, in quanto questi gesti semplici rendono l’uomo semplice… e quanto è difficile essere semplice!” Ma ciò, ovviamente, mutatis mutandis, è vero solo a un primo livello.

Thomas infatti incarna una saggezza umana sovra secolare, millenaria (il Coriolano della latinità – che, dopo i trionfi militari, decideva di abbandonare i fulgori della gloria per tornare all’ameno suo podere – sovviene alla memoria), e molti sono gli echi anche recenti che si possono rintracciare nel folclore, non ultimo quello della musica popolare. Si pensi infatti al The Fool on the Hill, di beatlesiana memoria che “sees the sun going down and the eyes in his head see the world spinning round”; oppure al Manù di Stefano Rosso, il “gitano vecchio che da sopra la collina prende l’acqua dal suo secchio e c’innaffia la piantina e tra i panni stesi al vento, su due canne di bambù, dice al mostro di cemento tu non prenderai Manù.”

Storie eterne, storie comuni, quanto dissimili, se non per grado d’istruzione, dal sopracitato Carl Gustav Jung?

Si rimarca tutto ciò a significare che la dialettica fra Modernità, incalzante e incipiente, da una parte e, dall’altra, la Nostalgia di una Reale – o Presunta – Dimensione più Umana, in tutti i tempi e a tutte le latitudini è sempre stata avvertita. Si pensi anche all’icona dell’operaio del Charlie Chaplin di Tempi moderni; oppure, non ultimo, al quesito che, nel 1980, Erich Fromm – lo stesso che, nei primi anni ’30, in collaborazione con la Scuola di Francoforte, aveva approfondito il nesso vigente fra Struttura Istintuale e Struttura Economica (Cfr. Metodo e compito di una psicologia sociale-analitica) – si poneva ancora poco prima di morire: “Può un’intera società esser malata?” [https://www.youtube.com/watch?v=79Zp_XG0wmE]

Detto ciò, il primo tema si snoda e sviluppa lungo pagine di prosa ben scritta, attraverso lo sguardo dei due colleghi/collaboratori Valeria e Gabriele, sguardo che ha il sapore di una lunga soggettiva cinematografica dove immagini memorabili si levano potenti – ad esempio il volo dell’aquila – a significare lo spontaneo e naturale avvicinamento dei personaggi, la diminuzione delle distanze, la sintesi – in qualche misura – degli iniziali opposti dialettici.

Relativamente alla seconda tematica, il bullismo, Gabriele e Thomas appaiono non in un rapporto antitetico bensì in un rapporto, seppur indiretto, di Discepolo-Maestro. Gabriele, ora in qualche modo divenuto un valido operatore video, custodisce in sé penosi e dolorosi trascorsi di vittima di bullismo e, come tale, serba memorie lancinanti di annullamento della persona da parte del branco di turno. Di questi personaggi e dei relativi eventi, l’istanza narrante fornisce alcuni sporadici ma comunque fastidiosi spaccati, indugiando in qualche misura – oltremisura? – in dettagli crudi che rasentano l’efferatezza e lo splatter. Se da un lato, circa questa tematica, il lettore può cogliere echi letterari illustri – per citarne due, dal Demian di Hermann Hesse all’Agostino di Alberto Moravia – dall’altro lato il lettore si interroga circa l’integrazione, profonda o viceversa epidermica, di questa tematica con la precedente. Ovvero ci si chiede se la trattazione – ma ancor più il montaggio (in senso filmico-cinematografico) dei passi, degli episodi, degli antefatti, degli spaccati circa la sofferenza del bullizzato da parte degli odiosi bulli, sia opportuna; e non in senso assoluto, ma in modo relativo a quanto viene narrato.

Perché ci si chiede ciò?

Lo si chiede laddove un oggetto, solo apparentemente marginale, – nello specifico un’armonica a bocca – si carica e viene investito di un meraviglioso e solenne nonché sovratemporale significato: il legame e la continuità con il defunto padre biologico e con un, seppur simbolico, ritrovato padre. Questo avviene in una magnifica scena di commiato, da considerarsi a pieno l’acme del romanzo, evento che sarebbe pertanto sufficiente a chiuderlo. Il lettore si chiede viceversa come mai, in chiusura, si indugi di nuovo sulle efferatezze delle memorie del bullizzato, le quali non appaiono funzionali – a meno di altre finalità non colte, forse distrattamente – a veicolare alcunché di nuovo. Perché rimestare e continuare a dissotterrare ennesime memorie dal sottosuolo?

Non si domanda ciò per puro e banale desiderio di un lieto fine; ma perché, pur affascinati da una prosa efficace, in cui l’uso predominante dell’imperfetto conferisce una fluidità continua, ci si interroga circa il grado di effettiva integrazione dei due temi. Non si poteva cercare di renderli più visceralmente integrati, piuttosto che far applicare al racconto/teorema un abito che, almeno in alcuni passi, si avverte posticcio?

Pertanto, in una eventuale trasposizione filmica, al fine di cogliere completamente la più profonda e costruttiva critica alla società e al nostro tempo, si ritiene che la sceneggiatura sarebbe – almeno in parte – da rimontare, terminando con il magnifico episodio della riconsegna dell’armonica, grido di speranza.

Infine, in merito a quale uso di un testo di questa fattura e pretese, nella misura in cui la letteratura può avere valore pedagogico, si ritiene valida la seguente considerazione: se è vero che il problema del bullismo, prima ancor che di pertinenza dei giovani o dei giovanissimi è di pertinenza dei genitori dei medesimi, questo testo, come altri siffatti, attraverso le strutture territoriali di assistenza sociale, sarebbe da indirizzare e da rivolgere innanzitutto alle famiglie e soltanto in un secondo momento direttamente alle scuole.

Una speranza per l’evoluzione di una società comunque globalizzata e multietnica.

[Fabio Sommella, 11 giugno 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Uscire sulla strada, ovvero Tre piani di Nanni Moretti

La presentazione d’un film da parte del suo regista certamente aggiunge delle chiavi interpretative chiarificatrici alla successiva visione e lettura del medesimo. È stato questo, per me, il caso di Tre piani di Nanni Moretti, che ho avuto modo di vedere qualche sera fa al cinema Trianon di Roma; la visione del film è stata infatti preceduta da circa un quarto d’ora di simpatica chiacchierata del regista stesso.

Incontrare, oggi, in quel luogo – il cinema Trianon di Roma, dove circa cinquant’anni fa Giorgio Gaber teneva i suoi spettacoli teatrali romani – uno dei maggiori autori del cinema d’idee della contemporaneità, non solo italiana, ritengo che ad alcuni spettatori come me possa dare un senso di continuità storica – intellettuale e culturale – rilevante, non trascurabile e che travalica il tempo stesso.

Nel corso del pur breve incontro, Nanni ha fornito interessanti informazioni ed espresso importanti concetti – in merito al film, ma non solo – con la propria ironia affascinando, credo, quasi tutti noi della gremita platea (ciascuno spettatore regolarmente distanziato di un posto dal vicino, per le notorie misure Covid). Il soggetto del film è stato ripreso dall’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo ma la sceneggiatura è stata ampiamente rivisitata dallo stesso Moretti nonché da Federica Pontremoli e Valia Santella al fine di trasformare tre storie, parzialmente separate e indipendenti, in un intreccio di vicende di personaggi che s’incontrano e, in qualche modo e misura, interagiscono. Ascoltando tutto questo, non ho potuto fare a meno di pensare ad alcuni canoni di ciò che, negli ultimi decenni del secolo scorso, è stato denominato postmodernismo.

Questi due elementi – l’origine del soggetto del film, nonché il mio personale ricordo di Gaber – tuttavia da soli non basterebbero a giustificare la sensazione di benessere che la visione del film può trasmettere allo spettatore e, nel caso specifico, ha trasmesso a me.

Ma vediamo con qualche dettaglio una serie di cose e di fatti.

Tre piani è forse uno dei film volutamente maggiormente complessi e corali di Nanni Moretti; probabilmente anche per questo è stato indicato da alcuni denigratori come opera mal riuscita o in altri casi, appena più generosi, confusa. A mio avviso il film non è né l’una né l’altra cosa.

Innanzitutto, come accennato in precedenza, Tre piani è un film dove si rintracciano almeno alcuni criteri canonici del postmodernismo, essendo questi la polifonia e la multi-linearità; ma, certo, sussistono altri aspetti di rilievo.

Come già in Mia madre, pure in questo film il regista mette quasi totalmente da parte sé stesso, dal punto di vista attoriale, accontentandosi di un ruolo tutto sommato marginale, per lasciare il posto ad altri interpreti. Questi sono in primis quelli femminili; ad esempio Margherita Buy conferisce, come sempre, solida ma pur garbata interpretazione a una delle protagoniste.

Ma i personaggi sono anche altri: ad esempio c’è quello del padre ansioso e sospettoso, magnificamente reso da Riccardo Scamarcio. E la galleria da illustrare sarebbe lunga, grazie al bravo stuolo di attori di cui il Moretti regista – interprete viceversa sempre volutamente grottesco, freddo e didascalico – si serve. È evidente come, ormai, nella cinematografia di Nanni siamo lontani anni luce dalle tematiche intrise di soggettivismi, personali e generazionali o categoriali, di un personaggio come Michele Apicella, dalle pur intense lacerazioni di Ecce Bombo o di Bianca o di Palombella rossa. Qualcuno potrà esclamare «E vedi un po’!» Certo, son passati decenni su decenni e le età, anagrafiche e storiche, sono cambiate. Ma non è solo questo il punto.

Come già fatto in altra epoca da Woody Allen, se Nanni sulla scena si mette quasi totalmente da parte, non è solo per scopi attoriali ma è per dare voce, forma e spazio all’altro del proprio tempo; perché desidera parlare di altro; rivolgersi ad altro, al di là dei personalismi e delle categorie. Pertanto sceglie un testo originale orientato allo scopo. In tal modo viene data voce alla comunità eterogenea e frammentata in cui si è immersi nella società post-globalizzata. Il risultato è la pretesa multi-linearità delle storie a molteplici voci. Queste sono obbligatoriamente confuse e approssimative come la realtà o ancor più come il possibile che si rappresenta e che si vuole raccontare. È tipico dei registi maturi – si veda il già citato Allen ma si pensi anche all’Ettore Scola de La cena oppure a pressoché tutto il cinema di Marco Ferreri – spostare il focus della macchina da presa sul caos e sul frammentario che li circondano.

Anche Nanni, pertanto, ispirandosi ai tre monologhi dello scrittore israeliano, compie una tale operazione. Tuttavia, come da lui stesso spiegato, oltre a intrecciare tre storie apparentemente separate dei condòmini di una palazzina di tre piani, effettua ciò estendendo le vicende, che nel romanzo si svolgono hic et nunc, in un arco temporale di dieci anni, precisamente dal 2010 al 2020. In questo spazio di tempo i protagonisti nascono, crescono, alcuni muoiono, cambiano, rivedono le proprie azioni, mutano il proprio sentire. Il risultato è una storia davvero corale, globale e globalizzante, come la contemporaneità pretende; tuttavia questa storia – certo anche cupa, ma non solo – non allarma o allerta soltanto bensì, in qualche modo e misura, fa bene al cuore e alla mente.

Un agrodolce ottimistico e a lieto fine?

Ma no, perché mai?

Piuttosto, come già il Fellini di Otto e mezzo, pure Moretti oltrepassa l’antica ottica dei film senza speranza – ad esempio quella della già citata e pur struggente Bianca – in favore del recupero d’un qualcosa: trattasi fondamentalmente dell’aspirazione a un principio comunitario perduto. Emblematica, in tale ottica, è una delle sequenze di chiusura: una delle protagoniste, a poca distanza dalla sua abitazione, assiste a un ballo collettivo dove molte coppie danzano sull’onda delle note e dei ritmi d’un liscio dal sapore vagamente romagnolo. È una delle scene pacificatrici del film. Pur in altro contesto, Il riferimento a Fellini e al maestoso carosello della Passerella di Nino Rota, non è peregrino bensì avvertibile.

Inoltre, analogamente ad altri Maestri, è come se anche Moretti volesse dirci che la vita è, appunto, complessa e interdipendente.  Non è poco. Quanti nessi, pur con valenze esistenziali sicuramente differenti, ci sono con il Babel di Alejandro González Iñárritu? O con il Vivere di Francesca Archibugi?

Con questo film, come il qui tante volte citato Fellini di Otto e mezzo, anche Nanni Moretti infine ci invita a pensare e a sentire che, malgrado tutto, la vita è una festa da vivere insieme. A differenza della sua antica produzione, incentrata su una coscienza certo onesta quanto tuttavia solipsistica, adesso un senso di necessaria spinta comunitaria, epocale, preme urgente tanto alle porte della propria coscienza che a quella dello spettatore ideale di Nanni Moretti.

Come avvenuto al termine dell’incontro di presentazione di Tre piani al cinema Trianon, anche nel film il regista si congeda da noi spettatori con l’implicito augurio di buona fortuna, l’augurio di uscire dal chiuso di quella comoda ma certo angusta palazzina di tre piani, per recuperare il senso comunitario della strada; di questi tempi, non appare davvero poco. Del resto, nel segno d’una continuità intellettuale e culturale, anche il – da me, qui – già citato Giorgio Gaber quasi mezzo secolo fa cantava «C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza.» È la strada su cui Nanni è già uscito e forse quella su cui dovrebbero uscire, per interrogarsi, coloro che a torto oggi lo denigrano, essendo egli regista quanto mai attento e attuale.

[Fabio Sommella, 10-14 ottobre 2021]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

La Prefazione ad Analisi semantica di quattro film – Edizione 2015

Analisi semantica di quattro film è un mio libello (pamphlet) comprendente quattro articolate riflessioni –  originatesi in un arco di tempo di oltre vent’anni  (dagli ’80 ai primi 2000) – attorno a quattro grandi film d’autore.

Analisi semantica di quattro film - Ristampa 2015

La prima edizione, cartacea, edita da Boopen, risale al 2008; la ristampa, ebook (PDF), con LULU è del 2015.

Successivamente, alcuni corposi contenuti – quelli pertinenti a C’eravamo tanto amati e a La meglio gioventù – sono confluiti, pur riveduti e ampliati, nel mio Il cambio della guardia pubblicato dapprima da Caosfera nel 2016 (edizione oggi fuori catalogo) e poi pubblicato e inserito nella mia vetrina Amazon nel 2019.

Qui di seguito propongo la Prefazione ad Analisi semantica di quattro film, ristampa 2015 [il libro in formato ebook PDF è acquistabile al link Analisi semantica di quattro film – Ristampa 2015 (lulu.com)] Oggi probabilmente rivedrei la forma, per renderla più snella, ma il contenuto credo sia sempre valido. Pertanto auguro, a chi vorrà, di nuovo

buona lettura.

Fabio Sommella, 23 agosto 2021

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  • 1 Prefazione
    Parafrasando(1) H. Tajfel e C. Fraser, che a riguardo della loro
    disciplina sottolineavano la competenza in certa misura
    acquisita da parte dell’uomo comune (anche Sigmund Freud(2),
    nel loro carteggio epistolare, appellava “fortunato” il professor
    Albert Einstein in quanto nessun uomo, che non conosceva la
    fisica, si sarebbe mai permesso di giudicare la sua opera;
    viceversa tutti si permettevano di criticare la Psicoanalisi),
    possiamo affermare che siamo tutti cinèfili o, pur
    impropriamente ma in modo più circostanziato, amanti dei film
    (certamente il primo termine appare senz’altro più nobile).
    Ovvero: tutti, o quasi, siamo perennemente, o frequentemente,
    attratti dalla magia del cinema.
    Tuttavia, più probabilmente e in generale, oltre che dalla
    congerie di elementi tecnico-spettacolari di “quell’enorme
    baraccone chiamato cinema”, ciò che più ci attrae nei film sono
    i racconti, le storie, i personaggi, i simboli, manifesti o celati, e
    quindi, in una parola, i significati che questi, nonché le loro
    vicende, incarnano e rappresentano. Così come giungono a noi
    i lontani miti e le favole/fiabe che le nostre mamme e nonne, e
    poi le tradizioni popolari e letterarie dei diversi popoli, ci
    hanno trasmesso e si tramandano da quando esiste l’uomo (e,
    forse, ancor prima), così nel nostro cuore, perenni bambini mai
    cresciuti, seppure adulti abbiamo necessità e ci nutriamo dei
    moderni percorsi dei protagonisti di storie di qualsiasi natura:
    narrativa, poetica, figurativa, musicale, teatrale,
    cinematografica, fumettistica, iconografica, multimediale …
    (aggiungerei anche matematica, ma …); e così sarà, per noi,
    per la nostra coscienza e la nostra psiche più profonda, finché
    non calerà il sipario (e, ancora forse, anche oltre).
    Ne consegue che, in base ai convincimenti di cui sopra, un
    lettore/fruitore di queste storie non può non porsi anche di
    fronte ai film, perlomeno ad un certo tipo di film, in modo non
    dissimile a quello con cui si pone di fronte alla letteratura o ad
    altri dei suddetti generi, espressioni tutte dell’arte di
    “raccontare”, pur con differenti linguaggi e metodi.
    Da queste premesse sono nate, negli ultimi quindici anni, le qui
    presenti mie quattro analisi semantiche dei seguenti film:
  • Otto e ½ – di Federico Fellini (1963)
  • C’eravamo tanto amati – di Ettore Scola (1974)
  • Luna di Fiele – di Roman Polanski (1992)
  • La meglio gioventù – di Marco Tullio Giordana (2003)
    Non me ne vogliano gli autori, con i quali innanzitutto (pur
    indirettamente) mi scuso, se un non addetto ai lavori si è
    permesso di esaminare, con l’approccio ed un fare ed un dire
    del critico del settore, alcune delle loro più pregiate opere
    (senz’altro questo è stato fatto con estremo amore e
    ammirazione e per puro spirito costruttivo e conoscitivo).
    Troppo ghiotte, dall’inizio della mia età matura, mi sono
    sembrate le varie occasioni di cimentar me stesso, “olistico
    ricercatore” in vari ambiti e settori, con i significati che a me,
    spettatore/lettore di queste opere/racconti, apparivano così
    prepotentemente fuoriuscire da loro stesse. La loro forza
    poetica, esistenziale, psichica, politica, culturale, storica,
    simbolica, onirica, planetaria, sovratemporale … trapelava ad
    ogni, spesso, ripetuta visione; vi emanava come maggiori
    entità, presenze naturali o sovrannaturali che, attraverso questi
    film, mi parlavano di una saggezza, pur nascosta e segreta,
    profonda ed eterna che, appunto, travalica lo spazio ed il
    tempo, hic et nunc, durante la visione e ancor lungamente
    permanente successivamente ad essa. Come raccontava il
    grande Massimo Troisi: da giovane egli era rimasto affascinato
    dalla visione del film “Medea” di Pier Paolo Pasolini, pur,
    precisava sempre Troisi, non avendone capito quasi nulla; così,
    o analoga mi sento di affermare, era stato il mio sentire
    all’uscita del cinema Metropolitan di Roma dopo la visione di
    “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola. Una sorta di
    folgorazione, una fascinazione profonda attorno alla storia, alla
    narrazione, ai personaggi, alle loro vicissitudini e alle loro, pur
    tristi e amare, evoluzioni (tant’è che, ogni volta con maggior
    piacere “filmico”, negli anni seguenti rividi lo stesso film
    almeno altre dieci volte in altrettanti cinema).
    Sono queste cose, queste presenze, questi umori-fermenti ed
    elementi poetico/razionali, definiti-indefiniti, che, mi auguro
    con un buon livello di analisi semantica ed espressione critica,
    ho cercato, naturalmente e istintivamente ma accompagnati
    dall’analisi delle strutture e delle relazioni narrate, di
    imprimere ed esprimere in questi quattro, più o meno brevi (le
    sezioni relative a “C’eravamo tanto amati” e “La meglio
    gioventù” sono senz’altro quelle di più ampio respiro), saggi
    critici. E, malgrado l’indubbio interesse che mi suscitò
    all’epoca, almeno coscientemente poco è valso, o poco è stato
    utile nel preparare il presente lavoro, il corso di
    alfabetizzazione/critica da me frequentato nell’anno 1996
    presso la sede AIACE di Roma: senz’altro utilissimo a
    comprendere le basi fondamentali del linguaggio
    cinematografico (inquadratura, sequenza, il montaggio come
    grammatica delle frasi del cinema, …); ma qui, senza nulla
    togliere a quanto appena citato ma senza neanche voler
    sminuire la portata del mio lavoro, si parla quasi di altro. Per
    comprendere pienamente ciò che si intende, vale quanto cito in
    una nota successiva: “(…) saggio critico su un film visto da un
    non addetto ai lavori; un oggetto d’arte, un mezzo espressivo
    (al di fuori della tecnica cinematografica ma dentro la
    letteratura)”.
    Naturalmente, non si pretende certo di aver esaurito i significati
    intrinseci a queste opere; sarebbe, si perdoni il paragone, come
    se si intendesse esaurire la simbologia dantesca o omerica con
    una lettura critica di qualche decina di pagine. Nondimeno, si è
    certi d’aver colto e trattato almeno alcuni dei principali
    elementi semantici e poetici di queste opere. Laddove si era
    consapevoli di non aver effettuato tutto il percorso critico, si
    sono lasciati volontariamente aperti, anche solo accennati,
    alcuni sentieri ulteriori. E chissà se in seguito, magari a fianco
    di un’analisi semantica di “Fanny e Alexander” (storico
    capolavoro di Ingmar Bergman, summa di tutte le principali
    tematiche, e significati, dell’opera cinematografica del maestro
    svedese) questi non vengano ripresi e approfonditi
    ulteriormente.
    Tutto ciò premesso, mi auguro che il lettore faccia uso di tale
    approccio metodologico: ciò che parla, in questo lavoro, è lo
    spirito dello spettatore che viene colpito, in positivo, dalla
    forza delle vicende che si svolgono all’interno di questi quattro
    film. Come è già capitato di sostenere e scrivere (ma non sono
    certo il primo né sarò l’ultimo ad affermare ciò), ogni
    spettatore/lettore/fruitore, completa, con la propria esperienza,
    l’opera d’arte e ne osserva e trae significati spesso anche ignoti
    agli autori stessi: del resto, a mio avviso, non è ininfluente
    affermare che uno dei mestieri più affascinanti sia quello del
    critico letterario (a dispetto di quanto a volte sostenuto anche
    da qualche grande protagonista del teatro del secondo
    novecento; ma, in tal caso, subentravano probabilmente “fattori
    di disturbo esterni” quali, non ultimi, i rapporti conflittuali nei
    confronti della critica cosiddetta “togata”), almeno di colui che
    svolge tale attività, creatività critica, affiancandola alla
    creatività creatrice delle opere (un modello, in tal senso, è stato
    senz’altro Ugo Foscolo, sia autore di letteratura che critico
    letterario).
    Alla luce di questi elementi, e premettendo che per
    comprendere, concordare o dissentire con quanto ho scritto, è
    necessario aver visionato e, almeno un pò, amato i film qui
    presi in esame, auguro di cuore buona lettura e buona “discesa”
    nei significati di questi quattro, a mio avviso grandi, racconti
    filmici.
    Fabio Sommella
    Roma, 13 gennaio 2008

(1) Henri Tajfel, Colin Fraser: Introduzione alla psicologia sociale; Il Mulino, Bologna, 1984,
pagina 15: “Siamo tutti psicologi sociali. (…)”.
(2) Albert Einstein: Il lato umano; Einaudi, 1980, Seconda edizione, pagine 33-34.

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Boati dal profondo di Pasqualino Cinnirella: fra propensione rivelatoria della verità e magico accordo

“(…) la propensione rivelatoria della verità implicita nella scelta delle parole”, a cui si riferisce Cinzia Baldazzi nel primo capoverso di un suo recente articolo di critica letteraria, risuona come l’approccio programmatico di ciascun lettore ideale – o, per dirla alla Peirce, lettore-interpretante – di un libro di poesia: il disvelarsi inaspettato di un senso riposto e insospettato, “il punto morto del mondo”, l’epifania improvvisa delle kantiane cose in sé, lo scrosciare delle “trombe d’oro della solarità” mediato dai “gialli dei limoni”, intravisti “un giorno da un malchiuso portone”. È quindi con questa splendida evocazione montaliana (ma non solo) che il lettore – chissà se ideale? – si accinge a leggere questo ampio commento critico di Cinzia Baldazzi alla silloge Boati dal profondo di Pasqualino Cinnirella.

La “Ποίησις generale del nostro scrittore” – magnifica espressione per intendere la produzione poetica che rimanda alla emopoiesi fisiologica o alla mitopoiesi junghiana – è il disattendere le premesse, ciò insieme all’impossibilità di discernere fra bene e male del mondo, impossibilità in cui ancor più si concretizza il “male di vivere”, espressione che evoca ovviamente di nuovo Montale. E il riferimento all’autore di Ossi di seppia si fa ancor più intimo e pregnante quando Cinzia Baldazzi legge, in Cinnirella, l’”estraniazione dal mondo oggettuale”, stato d’animo che, se nella letteratura rimanda di nuovo a Montale, nelle arti figurative rimanda alla pittura metafisica di Giorgio De Chirico, in cui qualcuno ha letto assonanze/consonanze con Eugenio Montale. Quanto appena detto si ricongiunge alla lettura che Cinzia Baldazzi fa della silloge di Cinnirella quando si parla del “lessico pienamente novecentesco (…) di sorprendente modernità, con intenzionali riferimenti montaliani”.

L’esperienza di Cinnirella come ποιητική τέχνη (poeta d’arte, di tékhnē) e la pressoché onnipresente “dialettica poetica” conducono inevitabilmente le riflessioni di Cinzia Baldazzi a “Charles Sanders Peirce, padre della semiologia contemporanea” e al suo lettore-interpretante: chi, meglio di questa figura, può leggere un testo come il riportato – doloroso! – Ora che c’eri? E come leggerlo? Forse, come Cinzia Baldazzi sapientemente ci indirizza a fare, mediante l’ausilio dei codici esegetici di certo strutturalismo psicoanalitico. O forse facendo ricorso alle egide genitoriali, tanto paterna che materna.

Dai Boati del profondo di Pasqualino Cinnirella emergono, infine, come dono, lascito finale, congedo, “pochi monili del cuore / appuntati… alla sua roccia friabile.” Parafrasando il citato film di Scorsese, pure menzionato nell’intenso primo capoverso da Cinzia Baldazzi, ci si può chiedere: avrà l’autore della silloge raggiunto il “magico accordo”? Come per molti di noi, ce lo auguriamo di cuore.

[Fabio Sommella, 27 luglio 2020]

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Quel carillon della coscienza… (bis)

Il precedente, approfondito, articolo – musicale, critico, analitico – dello splendido brano (quale? Si veda il link seguente) è del 16 giugno 2019 in https://www.fabiosommella.it/wp/quel-carillon-della-coscienza-che-sapre-e-suona-nella-mente/

In data 11 giugno 2020, con chitarra acustica Furk Indigo unplugged, tonalità SOL maggiore e LA maggiore, è stato replicato quanto segue:

Grazie, di nuovo, agli autori del brano.

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Il Mare – Lirica di Anna Vasta, con annesso breve commento critico di Fabio Sommella

La Lirica

Il mare
il mio orizzonte
il mio presente
ieri oggi sempre
Mi viene incontro
mentre cammino
passo dopo passo
lungo il Corso che corre
dritto alla marina
cambia colore col
mio umore
il mio muta col suo
Le rondini schiamazzano
in alto
non si curano d’ altro
di quel cielo che si eleva
sopra le nuvole
oltre i loro frivoli voli
verso un ignoto senza nome
Di questo enigma che scende rasoterra
prende le forme della sera
Si stende sulle case
si posa sui giardini
indugia sui binari della vecchia stazione
si allunga
sui tigli in fioritura del parco comunale
che esala i profumi del male.

[Anna Vasta, 6 giugno 2020]

Commento critico

Sono quattro le dimensioni che attraggono la protagonista di questa – splendida? Indubbiamente sì – lirica della poetessa catanese Anna Vasta.

La prima è quella prospettica e orizzontale, la profondità dell’orizzonte, mediato dal mare e verso il mare, irraggiungibile ma a cui,  inestricabilmente pur nell’impossibilità, tende l’anima in un moto istintuale, calamitato.

La seconda dimensione è quella verticale, questa vertiginosa – trascendente? –  e  infinita, nella quale e verso la quale, tuttavia, le “frivole” rondini che “schiamazzano”, insieme alle nuvole, fanno barriera, rondini a loro volta sgomente e che precludono quindi il cielo (“sopra le nuvole / oltre i loro frivoli voli / verso un ignoto senza nome”).

La terza dimensione,  eminentemente terrena, – immanente? Certo umana – è così usuale, quotidiana, ordinaria e malevola. Essa “esala i profumi del male” e, dopo alcuni passaggi – simil movimenti di macchina filmica – (“sulle case /
si posa sui giardini / indugia sui binari della vecchia stazione”),  assume la fisionomia e i contorni definitivi del parco comunale.

Infine, a latere – ma, certo, non marginale – il tempo è la quarta dimensione che s’incarna nei colori e nelle evanescenze nella sera.

In questo scenario tetravalente – o, se vogliamo, di spazio-tempo in qualche modo e misura einsteiniano – prende corpo un processo – il processo? – di contaminazione reciproca, di osmosi, di commistione scambievole con il mare (“dritto alla marina / cambia colore col / mio umore / il mio muta col suo”), orizzonte della protagonista. Protagonista, autrice e certo il lettore, tutti insieme indugiano a muoversi, a conoscere, a spaziare veicolati dalla forza della poesia.

Al lettore, pertanto, nell’ordito temporale della sera, non resta che perdersi inebriato nell’enigma, in questo spazio tetradimensionale, alternativamente richiamato verso – nonché combattuto  dal – l’orizzonte marino, le altezze misteriose, il parco comunale. Sintomatici sono i predicati spaziali – anche geometrici – nei versi finali: stende, posa, allunga, indugia, esala.

Ce la farà la protagonista, se non a svelare – forse troppo, per noi umani! – l’enigma, ad approssimarsi al suo mare?

Al lettore la risposta.

[Commento critico di Fabio Sommella, 6-7 giugno 2020]

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I giorni a colori e il mistero della vita letti nelle poesie di Elisabetta Di Iaconi

Una bella lettura: complimentiRosanna Sabatini, per il completamento dei significati, e, soprattutto, alla poetessa, prof.ssa Elisabetta Di Iaconi, per la tenue sensibilità dei fili del suo poetare in Giorni a colori.

L'amore e il mistero della vita. "Giorni a colori", silloge di Elisabetta Di IaconiIl libro si apre con la prefazione…

Pubblicato da Rosanna Sabatini su Lunedì 25 maggio 2020

[25 maggio 2020]