La giocosa sperimentazione drammaturgica e giornalistica di una Nuova Romantica, ovvero Patrizia Palombi
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Molti di noi amano sperimentare, nella propria vita, nuove possibilità e percorsi, spesso al confine e in bilico tra ciò che si svolge per professione – il proprio lavoro , con cui ci si guadagna da vivere e con il quale, spesso, tante persone si identificano al punto quasi di far coincidere con esso la propria esistenza – e ciò che si svolge all’interno di altre attività non necessariamente professionali, nel senso che non sono ciò che ci permette di risolvere le problematiche economiche, ma neanche (miseramente, dal mio punto di vista) hobbistiche, termine (hobby) che, personalmente, mi ha sempre suscitato noia e nausea (come se la vita fosse solo una netta distinzione tra lavoro e hobby piuttosto che un continuum di attività, spesso per fortuna anche creative, tali da arricchire la personalità tutta e influenzare positivamente anche la tradizionale sfera lavorativa.)
La sperimentazione può abbracciare àmbiti più o meno ampi, ma è senz’altro promotrice di effetti benefici sulla vita tutta della persona che la intraprende. Tutto ciò è, a mio avviso, anche valido per Patrizia Palombi.
Conosco Patrizia da poco più di cinque anni. Romana, proveniente come molti di noi da una famiglia di estrazione sociale semplice e popolare, è cresciuta in un clima educativo rigoroso dove il liceo classico ha lasciato impronte umanistiche rilevanti, completate in seguito con una laurea triennale in teologia. Nondimeno, Patrizia è anche moglie e madre nonché energica professionista di un prestigioso ente pubblico economico a base associativa.
Tuttavia, nella vita, Patrizia non si rassegna a svolgere le proprie attività, di pensiero e di azione, unicamente nell’ambito professionale ma avverte, certo da anni, necessità di sperimentare sé stessa in altri molteplici settori. Così, la Nostra, da quando la conosco non ha mai smesso di fare altro.
Cosa?
Chi la conosce abbastanza bene conosce pure di sicuro il suo pseudonimo di Scrittora, ovvero di scrittore al femminile, termine vezzoso con cui Patrizia vorrebbe fondamentalmente prendersi gioco – da, qui, la giocosità del titolo – delle tante ovvietà dei canoni, come il definirsi – lei, che anche scrive narrativa – scrittrice. È questo un primo principio di provocatrice originalità che semmai fa il paio con la denominazione, della sua piccola/grande comunità culturale che aderisce amorevolmente attorno a lei, di Nuovi Romantici. Quest’ultimo è il termine che di recente ha dato anche il nome a una collana editoriale da lei diretta, insieme all’amica e collega Grazia Di Stefano, all’interno di una piccola casa editrice: The New Romantics.
Ce ne sarebbe già abbastanza per dire “Wow!”. Ma, ovviamente, non finisce qui.
Non finisce qui in quanto Patrizia ama saggiare le altrui attitudini, artistiche e culturali nel senso più lato del temine, per definirne i profili, cercando di mostrarne le peculiarità, anche all’interno di palinsesti radio-televisivi-internet: infatti collabora, settimanalmente da anni, con testate giornalistico-radiofoniche, procacciando talvolta nuovi talenti o anche semplicemente mettendo in luce passioni e affinità, sempre nell’ottica dei Nuovi Romantici.
Ma non sono poche anche le sue sperimentazioni nella drammaturgia, pur piccola, e nel teatro, in collaborazione spesso con professionisti del settore con i quali – e qui sta, nella mia opinione, la rilevanza del suo approccio – vige un perenne interscambio di linfa vitale, di umori culturali e sentimenti umani. In questo scenario, a mia memoria mi sento di citare Dante e le donne tra passato e presente, rappresentato a Roma e in altri centri del Lazio, un primo essenziale cortometraggio estratto da un suo racconto, nonché le pur piccole pièce tenute al teatro Academy di Roma e, di recente, alla Biblioteca del Parco della Pineta Sacchetti a Roma.
In tutti questi àmbiti, Patrizia Palombi diviene sperimentatrice di un’anima collettiva che – probabilmente in un modo che deve ancora trovare la piena forza e disciplina per conformare la primordiale materia caotica in un cosmo compiutamente ordinato – scandaglia i temi che si agitano nel suo campo d’azione e di conoscenza, siano questi le famiglie allargate originatesi da sorprendenti genitori emigrati in terra d’Africa o forme d’intolleranza razziale o donne mai cresciute che hanno subìto violenze psicologiche o ancora donne viceversa bullizzate in età giovanili.
Si affiancano, alle pièce, l’organizzazione di eventi culturali, siano questi sfilate di moda multietnica o i classici reading poetici o la conduzione di presentazioni di libri. Tutti sono, in modo medesimo, una perfetta amalgama dei vari elementi messi in scena, amalgama tale da rammentare – a me – l’approccio di un grande e compianto giornalista RAI, quel Gianni Minà che sapeva condire le proprie conduzioni di spettacoli in base a una miscellanea di umanità e cultura, di empatia e profondità, di sensibilità e spettacolarità.
Così è Patrizia Palombi, giocosa sperimentatrice drammaturgica e giornalistica di un Nuovo Romanticismo.
[Fabio Sommella, 09 marzo 2024]
Medley musicale in sottofondo: ROMANTICA, di Renato Rascel, e GIOCHI D’ACQUA, di Fabio Sommella, quest’ultima nelle DUE VERSIONI, la prima STRUMENTALE (piccola orchestra), la seconda in un estratto per CHITARRA E VOCI (Fabio Sommella e Rosanna Sabatini). Tutti gli arrangiamenti orchestrali e l’esecuzione alla chitarra sono del proprietario di questo sito.
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
Gente per bene e gente per male, ovvero le magnifiche variazioni ritmiche di Lucio e Giulio forzate da una melodia variabile e irregolare
Per chi ha confidenza con la teoria musicale sa che, nella gran parte delle canzoni popolari (ma non solo), il tempo ritmico più comune è il 4/4, vale a dire che ciascuna misura è costituita da quattro tempi, o movimenti, che misurano ognuno 1/4, ovvero una semiminima. Strutture ritmiche molto diffuse sono ovviamente i tempi di 3/4 (tempo di “valzer”) o i tempi di 2/4 (tempo di “marcia) o, anche, i tempi composti di 12/8, 9/8 o 6/8, derivanti dai tre precedenti grazie a una piccola procedura (sostanzialmente di “frazionamento”) che però non stiamo qui a spiegare e per i quali si rimanda qui.
Fatto sta che, generalmente, a prescindere dal tempo ritmico prescelto dal compositore, il medesimo tempo – ad esempio il 4/4 – si mantiene costante per tutta la durata del brano, canzone o pezzo strumentale che sia.
Esistono delle eccezioni (forse molteplici). Ad esempio il Maestro Ennio Morricone nella partitura del tema centrale di C’era una volta il West, film di Sergio Leone, impiega inizialmente un tempo di 12/8 che tuttavia, in una misura specifica (la 9), viene trasformato in 15/8, ciò di certo in dipendenza dell’espressività melodico-ritmica che il compositore voleva conferire a una certa frase musicale.
Un caso molto particolare – a mio avviso magnifico – di variazione ritmica è quella che adottò Lucio Battisti per il suo brano Gente per bene e gente per male, presente nell’album Il mio canto, libero (1972).
Premesso che di questo brano non ho trovato partiture su internet, all’ascolto risulta evidente come, da un impianto ritmico tradizionale, appunto di 4/4, alcune misure siano state modificate in 5/4 e, anche, in 6/4; ciò al fine di permettere frasi melodiche più lunghe di quanto consentito dalla struttura ritmica di 4/4.
Specifico che quello che segue non è un vero e proprio arrangiamento orchestrale (questo, semmai, sarà effettuato in futuro) bensì essenzialmente uno studio della partitura ritmico-melodica, legata alla struttura armonica sottostante, di Gente per bene gente per male.
Presento pertanto un paio di mie trascrizioni, più o meno approfondite, di questo brano, entrambe eseguite sulla base dell’ascolto del brano di Lucio. Oltre al pentagramma del tempo, che riporta come ausilio anche le sigle degli accordi, ho inserito il pentagramma della voce maschile, della voce femminile e dell’accompagnamento, armonico-ritmico,, di chitarra.
La struttura generale del brano la si può scaricare qui: Struttura armonica e ritmica di Gente per bene e gente per male
La prima trascrizione – ma, per quelli di palato più fine, consiglio di andare direttamente alla seconda trascrizione poco più avanti di qui, certo più approfondita e interessante – è solo musicale, ovvero priva della riga delle parole. La partitura da me trascritta è qui di seguito: Gente per bene e gente per male – trascrizione 1. L’audio MP3 è ascoltabile qui sotto:
Ecco, invece, la seconda trascrizione, come ho detto sopra “più approfondita e interessante”, un quasi arrangiamento, seppure strumentalmente essenziale : la partitura da me trascritta è Gente per bene e gente per male – trascrizione 2, L’audio MP3 è il seguente
A latere, va detto che la tonalità originale d’impianto del brano in SIM è stata da me trasposta in DOM, naturalmente mantenendo la coerenza delle successive variazioni armoniche.
Infine, ecco una sequenza di immagini (riprese da internet senza alcun fine di lucro), calzanti con lo spirito di questo brano di Battisti-Mogol, montate – insieme al testo della canzone – sulla musica da me riprodotta:
Cosa aggiungere? Che questo brano, come dico nel titolo di questo articolo, è davvero un bell’esempio delle magnifiche variazioni ritmiche – di Lucio Battisti e Giulio Rapetti Mogol, probabilmente coadiuvati allora (1972) da Gian Piero Reverberi – forzate da una melodia variabile e irregolare, dove il testo appunto metricamente irregolare vuole esprimere significati la cui forma, di volta in volta , non ricade in rigidi confini prestabiliti. La bellezza della musica è anche in questo: stravolgere le ovvietà!
Buona visione dei file allegati e buon ascolto.
[Fabio Sommella, 9-10 ottobre 2023]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
Ricordando quel delicato artista che fu Francesco Nuti
Ieri, 12 giugno 2023, è venuto a mancare Francesco Nuti. Io sono stato un estimatore della sua arte, in particolare del suo film Tutta colpa del paradiso. Come ho avuto già modo di commentare sui Social, considero questo film un autentico capolavoro di poesia e simbolismi che, di sbagliato, ha solo il titolo e la locandina, i quali traggono in inganno rispetto alla bellezza, garbo e delicatezza dell’opera.
Mi fa piacere quindi pubblicare, qui di seguito, qualche contributo su Francesco e la sua arte.
Il primo è un estratto dal mio libro Il cambio della guardia che, nello scenario dell’evoluzione della Commedia all’Italiana, tratta proprio la mia lettura di Tutta colpa del paradiso.
Il secondo è un bell’intervento, dettagliato e accorato, dell’antropologa e mediatrice culturale Adriana Migliucci all’interno della sua pagina Facebook, intervento che ha stimolato ulteriormente il mio interesse per Francesco e che, pertanto, mi permetto di divulgare a mia volta (spero Adriana non se ne abbia a male ma, conoscendola, penserei davvero di no!) Questo bel contributo è corredato anche di un ulteriore scambio fra me e Adriana.
Non mi resta, quindi, che augurare buona lettura a coloro che vorranno incontrare queste nostre analisi e testimonianze e, rivolgendomi a Francesco con la medesima delicatezza che ha contraddistinto la sua arte, dire “So Long, Francesco: che la terra ti sia lieve!”
Fabio Sommella scrive di Tutta colpa del paradiso
In precedenza si è già accennato a questo film del 1985. Esso reca la firma, oltre che dello stesso Francesco Nuti e di un giovane Giovanni Veronesi, anche di Vincenzo Cerami[1], già autore circa un decennio prima del famoso Un borghese piccolo piccolo, portato sullo schermo da Sordi e Monicelli. Sulla scorta di un sapiente soggetto e di una robusta sceneggiatura, questo film brilla tanto per la coerenza narrativa quanto per il sapiente impiego dei plurimi elementi sottostanti, tutti elementi ruotanti attorno al tema del viaggio alla ricerca di un figlio. Questo itinerario ha però origine da un claustrofobico incipit nel carcere e, attraverso alterne e anche molto ironiche vicende, conduce fino all’allegorica conclusione in vetta al Gran Paradiso. In tutto ciò si ritiene che l’apporto di Cerami sia fondamentale proprio in relazione all’affermazione dei plurimi elementi che, tutti insieme, vanno a costituire l’ampio e articolato preambolo del film.
Ma vediamoli con il dovuto ordine, questi elementi plurimi!
L’inizio è nel citato carcere, assieme al, da principio, minaccioso compagno (un detenuto incarcerato per un feroce omicidio) di cella del protagonista Romeo Casamonica, interpretato dal medesimo Francesco Nuti (certamente nel suo periodo artistico più smagliante).
Giunge poi il commiato tra i due. Esso sarà di estrema amicizia, con il dono del poster di Fausto Coppi da parte di Romeo all’altro; quest’ultimo ricambierà con l’armonica a bocca, elemento in seguito simbolicamente pregno di vibrati e vibranti significati.
Segue una casa, antica abitazione (di cinque anni prima) non più ritrovata da Romeo: al suo posto ci sono palazzoni[2]. «Qui son passati gli americani», dirà a Romeo uno stravagante stralunato amico netturbino, incontrato nel quartiere, una landa suburbana che rimanda all’aspro e anonimo sapore d’un dormitorio pubblico.
Romeo, alla disperata ricerca di suo figlio Lorenzo – da recuperare a dispetto di un suo presunto-simbolico crimine di rapina a mano armata[3] – che praticamente non aveva conosciuto, dovrà recuperare i suoi pochi oggetti personali. A tal fine scenderà in una sorta di post-moderni inferi, vale a dire i profondi sotterranei-scantinati dei suddetti palazzoni del quartiere dormitorio. Egli, come un novello Dante il cui tragitto è però capovolto, sarà provvisoriamente accompagnato da una donna-nana, anche lei sorta di Beatrice capovolta. Ma questa non giungerà alla meta con lui, poiché anch’essa teme quelle sordide profondità dove, infine, una schiera di loschi punk apparentemente lo minacceranno, per poi in realtà lasciargli spazio e recuperare le sue poche e perdute cose, i propri affetti personali.
Ciò fatto e adempiuto, Romeo si recherà presso l’assistente sociale, una dura quanto convincentissima Laura Betti – ormai da tempo “orfana” di Pier Paolo Pasolini – la quale gli negherà la conoscenza del luogo adottivo dove vive adesso suo figlio Lorenzo. Ma ciò è poco male: Romeo è stato in prigione ed è ormai avvezzo alle durezze della vita. Così nottetempo, si introduce negli uffici dell’assistente sociale e, consultando i primi pur rudimentali personal computer, svelerà a sé stesso che il suo Lorenzo è stato adottato da una onesta e ligia famiglia che risiede in Val D’Aosta, sulle amene vette del Gran Paradiso.
Fin qui il preambolo/prologo del racconto, da cui il vero nucleo del film prende poi piede e si sviluppa secondo una forte e poetica quanto umoristica vena, lasciando spazio a plurimi significati, secondo la più nobile e matura Contemporaneità o Postmodernità, nonché naturalmente secondo una romantica vicenda amorosa. Questa avverrà quando Romeo/Nuti raggiungerà il rifugio del Gran Paradiso. Qui egli conoscerà l’affascinante Celeste, impersonata da Ornella Muti, madre adottiva di Lorenzo mentre Alessandro, impersonato da Roberto Alpi, padre adottivo del ragazzo, è un brillante ricercatore in etologia. La nuova famiglia risiede e vive, temporaneamente, sulle vette del Gran Paradiso in quanto il brillante etologo ricerca il “famigerato” stambecco bianco, rarissimo esemplare di una specie animale di cui ne nasce uno ogni cinquecento anni. Esso, lo stambecco bianco, proprio a causa di questa sua anomala e stravagante sembianza, viene bandito fin dalla nascita dal gruppo della sua specie.
La simbologia filmica, ben si comprende, è potente: l‘interscambio e il connubio, immediato, fra il protagonista Romeo e lo stambecco bianco saranno sempre più spinti in avanti e marcati fin quasi a confondersi e sovrapporsi con il prosieguo del racconto. Questo sarà naturalmente inframmezzato da tante gustose annotazioni, tra cui il ripetuto tormento del protagonista da parte di fastidiosi insetti volatili.
Il connubio Romeo/stambecco bianco si avrà poi al termine del racconto, dopo che Romeo, ormai persuaso della sua scelta, avrà rinunciato a “riprendersi” il figlio. Ciò avverrà dopo l’unica e irripetibile notte d’amore con Celeste, notte d’amore di “trasgressione” delle regole approvate dalla comunità, “trasgressione” che in base a un’antica leggenda locale è concessa solo per quella notte dell’anno, festa di fine estate. Sarà questo un episodio connotato dalle vibranti note dell’armonica a bocca di Romeo. Dopo tutto ciò, Romeo lascerà il figlio Lorenzo, sereno e inconsapevole, nella sua – per il ragazzo unica e originaria – magnifica famiglia adottiva.
In definitiva Romeo avrà stabilito con Lorenzo “solo” un’intensa e sincera amicizia. Successivamente a evocativi ed eroici echi – inerenti a memorie sportive circa Fausto Coppi, memorie dal sapore epico ed atavico riecheggianti certamente l’infanzia di Nuti stesso – solo Romeo, a dispetto di qualsiasi scientifica ricerca etologica, avvisterà lo stambecco bianco.
I due, Romeo e lo stambecco bianco, comunicheranno all’interno di una splendida sequenza alternata di empatiche inquadrature, laddove i due “volti” – dell’umano e del caprino – si confonderanno in un’unicità di sovrapposizioni ed espressioni: ciò a significare che, in realtà, la natura e l’amore per la vita non hanno confini o separazione nell’umano o nell’animale ma sono, più probabilmente, un eterno e scambievole gioco universale, una eterna ghirlanda brillante, come per altri versi si potrebbe leggere l’importante testo di Douglas Hofstadter[4]. È questo scambievole gioco universale – paradisiaco – che si deve saper cogliere con l’anima piuttosto che con la pura e sola razionalità.
L’apporto di questo film di Nuti, insieme a Cerami e a Veronesi, al cambio della guardia, avvenuto nel grembo della “leggera” Commedia all’Italiana degli anni ’80, appare notevole e non si può trascurare. Emblematico trionfo della Contemporaneità postmoderna sarà infatti la sequenza di chiusura. Qui Romeo, avvistato lo stambecco bianco e avvenuto il connubio con lui, ormai definitivamente avviatosi sulla via del ritorno, la via di discesa dal Paradiso, si è appena staccato dal figlio e dai suoi genitori adottivi, lasciandoli tutti insieme, senza personali remore bensì serenamente, alla loro vita indipendente e autonoma. È adesso che Romeo, per l’ennesima volta, viene aggredito dai fastidiosi insetti volatili che lo hanno già tormentato. Romeo – e qui si coglie tutta la genialità del meta-linguaggio di Nuti, Cerami e Veronesi – schiaccerà il fastidioso insetto volatile ma lo coglierà non in uno spazio intra-diegetico bensì extra-diegetico, vale a dire proprio sull’obiettivo della camera, da cui, noi spettatori, lo stiamo scrutando; ciò a meta-significare – in una superba coda extra-diegetica – che gli insetti, che hanno tormentato il protagonista in precedenti sequenze, eravamo noi stessi, noi spettatori che non eravamo in grado di approvare l‘operato esistenziale, così altruista e generoso, del personaggio Romeo. È così che, concedendogli ampio e grande omaggio, il meta-linguaggio e l’extra-diegesi supportano la Contemporaneità postmoderna.
[1] Il quale ritroveremo anche in alcuni dei migliori frutti filmici di Roberto Benigni.
[2] Come, per altri versi nella realtà, nella più antica (vent’anni prima) celentaniana canzone Il ragazzo della via Gluck
[3] Crimine tutto sommato analogo ai simbolici delitti compiuti dal surreale Michele Apicella di Nanni Moretti in Bianca.
[4] Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, 1979.
[Fabio Sommella, Il cambio della guardia, pp. 145-150, Caosfera Editore, Vicenza 2017; Amazon 2019]
Adriana Migliucci scrive di Francesco Nuti
Fabio Sommella –> Adriana Migliucci
Se tu non ci fossi, si avrebbe il dovere d’inventarti!!! Scherzi a parte, il ricordo di cui ci partecipi, ma soprattutto l’espressione dei tuoi stati d’animo a quell’esperienza, sono di una levità e sacralità umane molto rare davvero. Io, oltre ai film (in primis quel Paradiso, pure rarissimo come poeticità e simbolismo), credo di aver percepito Francesco in alcune interviste, sui giornali e in TV, nel corso degli aneddoti ufficiali in cui, come anche nelle sue migliori opere, emergeva il “non detto”, i silenzi, il “sottratto”. Uno degli elementi della sua poetica era l’oscurità, il notturno, espressione di un profondo senso di solitudine che s’incarnava nella cella d’un carcere o, all’opposto, nelle vette del Gran Paradiso, dove uno stambecco bianco – “Ne nasce uno ogni 500 anni’ – fa scorribande notturne, e infine si manifesta e si specchia in lui – due sguardi isomorfi che rispecchiano più profonde similitudini – a dispetto di ogni etologo e ricercatore di professione.
Adriana Migliucci –> Fabio Sommella
Grazie di cuore per le tue parole su di me e concordo pienamente con quanto scrivi della sua arte e umanità. Tutta colpa del paradiso credo che sia un capolavoro assoluto e so che c’è quel film dietro alla scelta del nome di molti quarantenni-trentenni di oggi che si chiamano Lorenzo!
[Adriana Migliucci, Tra i vari bellissimi strani lavori che ho… – Adriana Migliucci | Facebook]
[A cura di Fabio Sommella, 13 giugno 2023]
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I conflitti di un Uomo letti nella figlia, ovvero Ultima Stazione di Anna Vasta
In una dimensione tanto meta-narrativa che meta-critica, scenario spesso proprio degli incontri impossibili, Anna Vasta – già affermata poetessa di acuta e incisiva sensibilità, nonché pensatrice di indubbio pregio intellettuale e culturale – ambienta [Anna Vasta, Ultima stazione, in Salvatore Stefanelli (Ed.), Le improbabili, 2023] un pregnante dialogo immaginario tra un padre e una figlia, pur simbolici, nello specifico Lev Tolstoj e una delle sue più apprezzate creature letterarie, vale a dire quell’Anna Karenina che, da quasi centocinquant’anni, affascina e seduce tanto la critica letteraria che la filmografia.
Se anche Anna Vasta sottolinea la convergenza del destino di padre e figlia in quelle pur differenti stazioni ferroviarie che segneranno, tragicamente, gli esiti di entrambi, nel preambolo di questo meraviglioso incontro, ma soprattutto nel cuore del medesimo, ne disegna e ne tesse le forme e gli orditi cesellando il quadro d’insieme con finissime trame critiche e con ulteriori dettagli che, al di là della bellezza intrinseca, esprimono la recondita intesa che, caratterialmente, lega il padre alla figlia, lo scrittore al personaggio, il demiurgo alla propria creatura.
Magnifico è leggere la lunga digressione che la Vasta dedica alle atmosfere drammaturgiche tolstoiane filtrate attraverso la paesaggistica e le ambientazioni russe ottocentesche: “Le immense incolori distese di neve, le betulle spoglie, la luce fioca dei tramonti e il gorgoglio fumante del samovar. Poi le prime crepe nei laghi gelati, i rivoli d’ acqua smeraldina che luccicavano tra i ghiacci. Era il disgelo”. Ma ciò è l’indispensabile background che la poetessa e scrittrice imprime al suo emblematico ed elucubrante racconto breve per sostenere altri significati: l’intimo rapporto che sorregge padre e figlia simbolici, nonché i destini di molti, certo dei medesimi ma, non ultimi, anche quelli di eventuali lettori.
Se con l’altra immensa eroina della propria narrativa – l’irresistibile, per molti di noi lettori soprattutto maschili, Nataša – il Maestro della letteratura russa era stato magnanimo, consegnandola infine a un destino di caldo tepore famigliare a fianco di uno dei suoi maggiori alter-ego – quel Pierre Bezuchov, personaggio sempre in bilico fra opposte sorti e tensioni nonché pieno rappresentante, insieme al principe Andrej e a Konstantin Levin, dei tormentosi dubbi esistenziali dello scrittore – Tolstoj, con “Annuska” Karenina, inizia in qualche modo a preconizzare anche la propria tragedia. Anna Vasta, nel proprio racconto, attesta questa consapevolezza quando il conte Tolstoj, rivolgendosi alla Karenina, sottolinea che “non potevo cambiare la tua storia e inventarmi per te amori felici, se mai esistono. E comunque non erano nella mia vena.”
Ciò sarà infatti anche per i protagonisti di altre opere come La morte di Ivan Il’ič o Sonata a Kreutzer.
È questo, ci segnala Anna Vasta, l’intimo rapporto che accomuna la protagonista Anna Karenina con il suo creatore; ma anche, aggiungiamo noi, con le altre successive creature letterarie, nonché con molti lettori che hanno amato e amano questi sontuosi affreschi di vita pur romanzata: il conflitto, fino alla rottura estrema comprendente il sacrificio e la rinuncia a ogni forma di esistenziale accondiscendenza, verso le convenzioni e gli obblighi della società del proprio tempo. È in tale ottica che Anna Vasta, quando Anna Karenina si rivolge al conte Tolstoj, le fa dire: “Fui messa al bando dall’ ipocrita, moralista, corrotta società pietroburghese per la mia storia con Alekeij. Voi conoscevate bene quel mondo iniquo e, per quanto uomo di autentici principi cristiani, non avete puntato il dito contro l’adultera.”
Cose dell’Ottocento? Superate? Ovviamente no, o comunque, pur in altra foggia e trasformate dalle diverse culture del tempo e dei luoghi, certo non solo.
Pertanto lode ad Anna Vasta per questo mirabile impossibile dialogo fra un padre e una figlia, fra un Padre e i suoi figli lettori, fra un padre e i suoi più riposti conflitti irrisolti di Uomo.
[Fabio Sommella, 8 aprile 2023]
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Lo sapevano i poeti ermetici, lo sapevano i pre-classici… lo sanno gli scienziati (Foglie in autunno)
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” è Soldati, una delle liriche più brevi di Giuseppe Ungaretti che, quando era sul fronte, durante la Grande Guerra – insieme, tra gli altri, anche ai miei nonni, entrambi del ’93 (del XIX ) – spinto dalla pressante tematica cosciente della precarietà della vita in quel contingente contesto, probabilmente ispirò questi suoi versi parafrasandoli da quelli di Mimnermo, noto poeta greco pre-classico, “pessimista”, che era vissuto in Grecia tra il VII e VI secolo a.C.
In seguito, prima e dopo, altri poeti hanno ripreso le medesime tematiche, in varie forme.
Mimnermo scriveva “Siamo come le foglie”, comparando la condizione umana a quella delle fronde degli alberi che, in autunno, si distaccano dai rami e vengono abbandonate dai medesimi, morendo.
La prima volta che lessi questi versi del poeta pre-classico era sul finire dei ’70. Essi erano in epigrafe a un trattato di chimica del professor Luciano Caglioti: I due volti della chimica. Rimasi piacevolmente colpito circa come, un eminente scienziato, portasse a suffragio o a introduzione o a testimonianza delle proprie argomentazioni il testo lirico di un poeta dell’antica Grecia.
Col tempo ho poi imparato, come sosteneva la nostra docente di Letteratura del Liceo, che non esistono “due culture” – e, se esistono, sono solo nella testa di persone intellettualmente pigre – ma esiste un approccio olistico e integrato, di reciproco supporto tra forme di pensiero solo apparentemente disgiunte e diverse. Infatti, qualche anno dopo, scoprii sempre con piacere che i capitoli del trattato di Microbiologia erano preceduti da epigrafi pure “classiche” (che so: i versi delle satire di Giovenale!) o, ancora tempo dopo (anni ’90), i capitoli del manuale del Database di ORACLE 6, della Oracle Corporation, erano anche preceduti da sontuose ed eminenti citazioni letterarie e teatrali: tutto ciò a significare, simbolicamente o di fatto, l’intimo parallelismo e connubio tra le formae mentis scientifico-tecniche e quelle, cosiddette, letterario-umanistiche.
Ieri c’è stato, nuovo e terribile flagello, il terremoto in Turchia e in Siria, con ripercussioni, notevoli e avvertibili, in molte altre aree del continente dell’Eurasia, Nord e Sud. Si contano già migliaia di morti. E allora viene spontaneo un elementare pensiero.
In una dimensione – planetaria – ormai così fragile e labile come quella che riguarda tutti i 7 o 8 miliardi di umani che popolano questa briciola infinitesima di frammento d’universo che è la Terra, alcuni di noi continuano a farsi guerra come nei secoli passati? Con armi che, oltre a uccidere, non possono certo far bene ai già precari equilibri del pianeta. Alle sue faglie già estremamente critiche.
SIamo come le foglie sugli alberi autunnali.
E acceleriamo i nostri autunni!
[Fabio Sommella, 06 febbraio 2023]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
Tra Attualità ed Eredità (Culturali): parallelismi nelle Memorie e Coscienze Collettive
In qualità di abbonato, io, a Repubblica Online, leggo la Prima Pagina, in NewsLetter, di Maurizio Molinari e – come da sempre mi accade fin da quando, allora poco più d’un ragazzino, leggevo il Messaggero che mio padre, alla sera, portava a casa – avverto un inevitabile capogiro di fronte alla varietà e all’imponenza, spesso funesta, delle notizie dell’attualità provenienti dal Mondo: “la svolta sull’invio dei carri armati per l’Ucraina”, con “il via libera definitivo della Camera italiana al decreto Ucraina” che “proroga al 31 dicembre 2023 la cessione da parte di Roma di materiali militari a Kiev”; “Il Bollettino degli scienziati atomici” secondo cui la “fine del mondo” è ora “ad appena 90 secondi dalla simbolica mezzanotte che indica il traguardo dei tempi”; la conferma dello “sciopero dei benzinai” per cui gli “impianti di rifornimento carburanti rimarranno per lo più chiusi – compresi i self service – per 48 ore consecutive”; la notizia che nei “giorni caldi della giustizia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella difende la magistratura finita nel mirino del ministro Carlo Nordio”; le “Acque agitate a Roma in Fratelli d’Italia“, per cui la “premier e leader commissaria la federazione cittadina scontrandosi con il suo vecchio mentore”; “la fenomenologia di Salvatore Baiardo”; il racconto de “l’Agnelli americano”, laddove – sottolinea il giornalista – “a vent’anni dalla sua morte, il ricordo di ‘Gianni’ – qui a New York nessuno lo chiama l’Avvocato – sia sempre vivo, affettuoso, nostalgico”; “le candidature per gli Oscar 2023” che “premiano il cinema delle grandi storie.”
Insomma: di fronte all’ampiezza e alla numerosità delle informazioni che ci sovrastano, la mente – il cervello? – non può che vacillare.
Sarà forse per questo che la mia mente, nella congerie di tali e tante notizie, imbocca una strada a latere, quasi in disparte, rifugiandosi – sorta di novello o perenne Elogio della Fuga di Henri Laborit – in una dimensione sovratemporale, di difesa.
Infatti il ventennale della morte di Giovanni Agnelli – il ricordo di ‘Gianni’, citato nella suddetta Prima Pagina – lascia affiorare nella mia memoria la dichiarazione in TV di un intervistato, presso il Lingotto di Torino, all’indomani del decesso dell’Avvocato; proprio in quell’occasione, qualcuno aveva sentenziato: “È morto l’ultimo Principe del Rinascimento!” Oggi non ritrovo la dichiarazione precisa ma solo qualcosa di similare, tra cui quanto riportato qui.
Altrove, viceversa e precisamente qui, trovo una decisa critica, indicata come erronea e fallace, a questa immagine “rinascimentale”, sorta di simbolico e contemporaneo AntiRinascimento.
Ma non è questo il punto, perché – stavolta senz’altro a ragione – mi viene subito in mente la dichiarazione di Nino Manfredi all’indomani della morte di Totò: “È morta l’ultima delle grandi maschere della commedia dell’arte”.
E allora penso a come e a quanto, il nostro comune sentire di persone della Modernità, o Post-Modernità, sia legato e agganciato strettamente – in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole, cullandone amorevolmente i criteri e i dettami comparativi – alle memorie storico-culturali: nei casi di Agnelli e Totò rispettivamente il Rinascimento, vero o presunto tale, e la Commedia dell’Arte, probabilmente più aderente alla comparazione proposta; ciò laddove le eredità, culturali, di queste fasi storiche, sebbene lontane e ultrasecolari, pur subliminalmente si dipanano nel tempo, continuandosi, perpetuandosi e giungendo fino alle nostre coscienze.
E infatti penso a quando personalmente, alcuni anni fa, ho ipotizzato un intimo – pur sotterraneo – nesso fra la rappresentazione della donna nella lirica due-trecentesca da una parte e, dall’altra, la rappresentazione della medesima in certa raffinata canzone d’autore.
Se gli esempi del parallelismo, vigente tra forme dell’attualità e forme artistico-culturali storiche, potrebbero essere ulteriori (ma ci fermiamo qui e le tralasciamo, almeno per ora 😊), va altresì rimarcato un semplice fatto: le nostre Coscienze Collettive, di moderni e/o post-moderni uomini del XX e del XXI, sono incontrovertibilmente e intimamente connesse alle nostre Memorie Collettive Culturali, le prime facendo uso continuo, consapevole o meno, delle seconde.
E questo – a dispetto di ogni capogiro e vacillar della mente di fronte alla varietà e all’imponenza delle notizie dal Mondo, spesso funeste e ignobili – mi fa star inspiegabilmente bene, in qualche modo e misura lenendo il cruccio, il dolore, la paura; relativizzandoli, forse!
[Fabio Sommella, 25 gennaio 2023]
Argomentando attorno a I luoghi del pensiero di Cesare Fornari
Coloro che leggono le pagine di questo sito/blog di certo sanno che capita sovente d’imbatterci in scritti che, oltre a esser generosi, posseggono una forza interiore che emoziona; è il caso anche del testo I luoghi del pensiero di Cesare Fornari che, unitamente a Rosanna Sabatini, oggi presentiamo qui nelle seguenti Parte 1 e Parte 2.
[Fabio Sommella, 21 agosto 2022]
Per leggere il testo completo de I luoghi del pensiero, autore Cesare Fornari, si può fare clic qui, su I luoghi del pensiero.
Parte 1: Quei rituali contadini nella memoria, ovvero “I luoghi del pensiero” cari a Cesare Fornari [di Fabio Sommella]
Chi è Cesare Fornari, autore de II luoghi del pensiero?
Come alcuni di noi, Cesare è una persona poliedrica ed eclettica; volendo brevemente sintetizzare, senza dubbi possiamo affermare: ingegnere, ex-insegnante di scuola superiore (matematica e sicurezza sono state le sue principali aree di lavoro), agronomo, ciclista, fisarmonicista, ballerino… e certo la lista potrebbe proseguire. Pertanto, per ulteriori dettagli, rimando il lettore al sito di Cesare Fornari e alla sua pagina FaceBook.
Ma, oltre a tutto ciò, Cesare è un generoso e schietto amico che ho avuto occasione di conoscere questi ultimi anni nell’area reatina del comune di Petrella Salto, precisamente a Borgo San Pietro. Questa località, come lo stesso Cesare sostiene nell’incipit – a mio avviso straordinario – del suo scritto, è una “piccola e povera zona del reatino” che, “da bambino, mi appariva immensa, praticamente il mondo per me era tutto lì; di Rieti avevo sentito parlare appena, forse qualche volta c’ero anche stato e mi era parso un luogo misterioso, strano, al limite del surreale. Roma e la luna, poi, erano per me la stessa cosa.”
Il “praticamente il mondo per me era tutto lì” ha un evidente valore simbolico che trascende la singola individualità del caso specifico e riecheggia nobili precedenti; ad esempio: rammento che il grande scrittore e artista Vincenzo Cerami, mai troppo compianto, in un’intervista sul Messaggero ebbe a dire che, quando negli anni ’50 ai tempi delle scuole medie in quel di Ciampino (area metropolitana fra Roma e i Castelli Romani) lui, immigrato con la famiglia da una limitrofa regione attigua al Lazio, conobbe un docente di Lettere che si chiamava Pier Paolo Pasolini, fu allora che comprese che il Mondo aveva una Storia. E allora ci si chiede: quale significativa analogia con le memorie del nostro amico Cesare?
Ma tornando a I luoghi del pensiero, va osservato che un incipit così superbo potrebbe essere giustamente il preambolo di un lungo e fecondo racconto alla maniera di Cesare Pavese. Viceversa Cesare Fornari, almeno per il momento, si accontenta di ripercorrere alcune pregnanti fasi della sua infanzia attraversando una gustosa galleria di immagini, sequenze, suoni, odori, cerimoniali, come per esempio quando afferma “per me salire su un albero o camminare per terra era la stessa cosa“. Questi pittoreschi e caleidoscopici amarcord recano in loro l’inequivocabile sapore agrodolce – talvolta financo efferato – di una vita vissuta con occhi di bimbo perennemente curiosi.
Pertanto, invitandovi a leggere anche l’altrettanto vibrante intervento di Rosanna Sabatini qui di seguito nella Parte 2, incito il lettore a entrare ne I luoghi del pensiero di Cesare Fornari, immergendosi negli intensi ricordi di un animo sensibile, nobile e candido di quando Roma era percepita come la Luna e i romani come degli avventori talvolta invasori, teatranti plateali e patetici, nelle memorie dell’amico Cesare permeate dai rituali contadini scandenti i ritmi delle stagioni, sullo sfondo di una natura al contempo innocente e crudele, memorie e rituali che – come accade per le genuine testimonianze accorate – acquisiscono la connotazione dell’universalità.
[Fabio Sommella, 21 agosto 2022]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
Per leggere il testo completo de I luoghi del pensiero, autore Cesare Fornari, fare clic su I luoghi del pensiero.
Parte 2: Chi è Cesare, mio cugino (Memories) [di Rosanna Sabatini]
Chi è Cesare? Mio cugino.
Un cugino speciale per la sua poliedricità ed eclettismo, come ha scritto Fabio Sommella; aggiungo: una specie di “folletto benevolo” che piacerebbe a ciascuno di noi incontrare nei boschi e comunque fuori dai centri abitati, di quei folletti di cui si parla nelle fiabe.
Che cosa abbiamo in comune oltre alle nostre madri, Gina e Iole, figlie di due fratelli? Molto più di quanto immaginassi, prima di leggere il suo scritto.
Intanto, a entrambi piace guardare il mondo che ci circonda “con gli occhi di un bambino” e Cesare ne dà ampia dimostrazione nel suo racconto. Poi, anche se sono nata a Roma, sento che non ho mai rinnegato le mie radici che affondano nel Cicolano, un lembo di terra dove gli antichi abitanti erano popoli fieri e combattivi che non si sono mai arresi ai romani e sono stati da loro sterminati.
E dei “romani” pure parla il racconto di Cesare, di quelli che sono stati costretti ad allontanarsi dal paese per motivi di lavoro dopo la costruzione della diga che ha dato origine al Lago del Salto. Quei figli del Cicolano esuli tornavano periodicamente per “invadere” il paese – Borgo San Pietro – e spesso rinnegavano le loro origini, ostentando una certa superiorità economica e sociale rispetto ai “paesani”.
E ancora parla di suo nonno Cesare, lo zio di mia madre, che ricordo, quando alla fontana del paese andava con l’asino a raccogliere l’acqua insieme alla moglie Loreta e anche per i racconti di mia mamma bambina, quando, ad esempio, la salvò da una vipera che si era introdotta in casa.
Nel racconto di Cesare – che parla del nonno – ho rivisto mio nonno, Remigio, che come lui era uno stagnino ambulante che, però, andava in bicicletta di paese in paese e che svolgeva lo stesso tipo di vita di suo fratello, quando non lavorava.
Inoltre, quando Cesare scrive: “Spesso l’attendevo sulla porta e appena riconoscevo, da lontano, la sua inconfondibile figura correvo per andargli incontro con la speranza che mi avesse portato qualcosa, speranza che non andava mai delusa. Nelle sue tasche c’era puntualmente qualche mela o pera o, secondo la stagione, qualche nocciola, delle noci, delle fragole, delle fave ecc…”, ho rivisto il mio nonno paterno, Antonio, che lasciava per me sempre qualche grappolo d’uva appeso alle piante dopo la vendemmia.
Teneri e dolci ricordi che condivido con mio cugino. Così come condivido pure le tradizioni della tavola delle feste che mia madre seguiva a Roma come zia Loreta e zia Iole.
Infine, anch’io aspettavo con ansia le vacanze agostane per stare un po’ con Cesare, Carlo e Nadia. Spesso andavamo in un grande prato ai piedi di un castagneto poco fuori del paese – che oggi è stato trasformato in un rimessaggio per camper e roulotte – e passavamo mattinate indimenticabili a giocare. A quelle mattinate ho dedicato una delle mie poesie del libro Dal cuore e dall’anima (poesie del cassetto) – From heart and soul (poems of the drawer) della Casa Editrice Kimerik:
Musica
Musica soave,
capace di portare i miei pensieri
su ali d’argento… lontano!
I miei occhi guardano l’azzurro del cielo
e le acque di un lago,
scintillante ai raggi del sole.
Il cancello è aperto, come sempre,
quel cancello che chiudeva
l’accesso a quel prato,
Eden nei miei sogni di bambina.
E quel colle, degradante sul prato,
coperto di profumati castagni,
ricco di fragole e mirtilli,
di siepi di more e di arbusti,
è sempre lì ad aspettarmi.
Ora non vedo più
né il cielo, né il lago,
né il prato, né il colle,
né sento il profumo
dei castagni e delle fragole:
la musica è finita.
Per concludere, caro Cesare, mi hai fatto un grande regalo a voler condividere il tuo bellissimo racconto, perché mi hai dato emozioni che mi hanno fatto piangere e che hanno fatto bene al mio cuore.
Grazie!
Tua cugina, Rosanna [21 agosto 2022]
Per leggere il testo I luoghi del pensiero di Cesare Fornari, fare clic su I luoghi del pensiero.
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
Quell’albero delle marasche, soglia etica e postuma oltre la Storia
Leggendo la raccolta poetica di Mario Pizzolon intitolata L’albero delle marasche – Il Leggio Libreria Editrice, collana La Nicchia, 2022, Chioggia (VE) – fin dalle prime liriche si avverte una peculiare sensazione, corroborata poi dalla lettura delle successive composizioni. Con il completamento della lettura dell’intera opera, questa sensazione diviene incontrovertibile e certa: la poesia di Mario sgorga, spontanea, dalla consapevolezza di un ben determinato limen, una soglia culturale ma anche geografica, che differenzia qualitativamente e in modo netto la visione del Mondo dell’autore dal comune sentire della quotidianità, del vivere ordinario, dal non porsi domande esistenziali bensì solo ovvie. Il potere evocativo di ciò può ricondurre il lettore attento alle prime proprie letture della giovinezza, quando i versi dei poeti classici ci facevano avvertire una sorta di arcano distacco dal Mondo, sollevandoci dai nostri affanni contingenti.
L’impatto, sulla coscienza del lettore sensibile, della percezione di questa soglia, di cui è intimamente intrisa la poesia di Mario, è davvero particolare. Esso, in maniera decisa, travalica le istanze temporali della contemporaneità, le diverse generazioni e anche la Storia; si va viceversa a collocare in un territorio e in una dimensione dove tutto appare sovratemporale e postumo, dove tutto è già accaduto. Così restano indelebili i pianti, siano questi quelli del vecchietto che sottrae un sacchetto di marasche all’indomani di un ennesimo piccolo-grande scempio ambientale; o quelli del non vedere più nulla, tantomeno morti, dopo l’apocalisse del Vajont, rammentata con scarni e scabri versi che solo la preghiera della chiosa può tentare di lenire.
È quindi in questa dimensione altra, di sospensione emotiva, in questa nowhere land dal sapore al contempo tanto primigenio quanto da giorno del giudizio, che tutti i protagonisti delle liriche e delle istanze poetiche di Mario si sono – in qualche modo e misura, in qualche luogo non meglio identificato – già incontrati. Essi, si avverte, hanno assimilato la consapevolezza del Vivere, della Natura, del Misticismo, delle domande della Scienza.
Nondimeno, leggendo i versi delle quattro sezioni poetiche, spesso al lettore – forse romantico – sembra di percorrere i silenzi dei lunghi viali di molte città delle tre Venezie, di incappare nei volti – al contempo sobri e coriacei, volitivi e caparbi (uno per tutti, quello di Dino Zoff) – dei suoi nativi, nelle loro anime perennemente sospese fra le memorie di una illustre civiltà contadina e le consapevolezze e curiosità di un futuro iper-tecnologizzato.
In un alveo bipolare, il poetare di Pizzolon, dagli originari e intimi nessi con le radici e i fusti delle piante, diviene bit informatico e sinapsi di neuroscienza, disgregando il proprio universo e disgregandosi a sua volta in dimensioni di quanti informazionali, pacchetti digitali, neuromediatori chimici.
Tutto, nella poesia di Mario, è quindi sondato ed esperito secondo una prospettiva etica postuma, anche il dolore odierno che però non diviene mai sterile rimpianto di un passato agognato o migliore ma lucida visione del suo frantumarsi in schegge di necessità. Queste, nel segno di una impersonale saggezza, mite ma ferma, restano a loro volta sovrastate da altre superiori necessità: dalle domande di un eterno procedere in un processo che non è lineare e che non ha termine – sarebbe fin troppo banale e ciò non appartiene a Mario – ma si autoalimenta degli eterni cicli del vivere, certo al di là dell’esistenza privata dei singoli bensì in un’ottica collettiva che tocca tutti noi.
[Fabio Sommella, 25 luglio – 08 agosto 2022]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
Quel sogno grande di noi utopisti, ovvero Sandro Salvioli e gli Stolen Car
Per quelli della mia generazione certi sound sono elucubrativi di sonorità nostalgiche – brutta parola? No, non sempre e non certo in questo caso – e di paesaggi luminosi e profondi del tempo che fu. È quello che mi accade, spesso, ascoltando la band romana degli Stolen Car – una sorta di novella Schola Canthorum, allargabile e modificabile, in cui i componenti vanno e vengono come in una rediviva Accademia Platonica – capitanata da quel puro e fine poeta/musicista che è Sandro – Alex, mi piace anche pensarlo, visto il Suo profondo amore per il rock made in USA, ma non solo – Salvioli.
Nato e cresciuto in quel di San Lorenzo – invero è significativamente più giovane di me, ma sento/avverto con Lui un canale di comunicazione e un connubio beyond the time – Sandro Salvioli conserva e sviluppa altresì ulteriormente quella verve della romanità più genuina contaminata – questa, viceversa, per me una indubbia magnifica espressione – da linfe vitali e culturali più diversificate, ovviamente non ultima quella d’Oltre Oceano. Dylan, Springsteen, Presley ma anche i Beatles e last but not least la Canzone D’autore più togata, sono infatti alcuni dei Suoi capisaldi, alcune delle molteplici anime artistiche che serpeggiano in Lui dando vita e forza alle Sue creazioni, sempre in bilico tra la Strada metropolitana e i viaggi alla Easy Rider (magnifici, Sandro, i Tuoi versi di incipit di quella poesia che io commentai su quel Social “Profumo di famiglia / Di abbracci, di voglia di cambiare il mondo / Di lotte, di aiuti, di felicità”).
Così capita con questo splendido video di questi giorni – girato dal poeta Suo amico Cony Ray – in uno dei tanti locali dell’Urbe in cui Sandro e gli Stolen Car sovente si esibiscono.
Guardate, questo frammento di video! Ascoltate il brano! Il suo testo ma – soprattutto – le sonorità.
Sarete catapultati – grazie al morbido sound, ai sapienti arrangiamenti, al controcanto vocale, al contrappunto del sax nel refrain – nelle atmosfere delle grandi speranze dei ’60-’70. Ciliegina sulla torta è quella coda di batteria in chiusura che suggella il Grande Sogno, la Grande Utopia di questi eterni ragazzi, di noi eterni ragazzi evergreen.
Grazie, Sandro amico nostro, a Te e alla Tua Band, per rinverdire questi sogni di una gloria non fine a sé stessa ma profondamente umana.
[Fabio Sommella, 15 luglio 2022]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)