Il bisturi che ci salva? (Per grazia ricevuta, 1971, di Nino Manfredi)

Delia Boccardo, Lionel Stander e Nino Manfredi, in uno dei momenti più intensi e corali del film.

Mezzo secolo è trascorso dalla prima prova registica di Nino Manfredi in un lungometraggio: Per grazia ricevuta (1971). Qualcuno sottolinea che – seppur film superbo e riuscitissimo da molti punti di vista (interpretativo, fotografico, narrativo, espressivo ed emozionale) – si avverte quanto, nel caso specifico, il regista sia un grande attore che ama essere in scena continuativamente; cosa, forse, neanche del tutto vera, anche a guardare soltanto le lunghe fasi dell’incipit.

A prescindere da ciò, rivedendolo oggi, il film appare sempre godibilissimo, forse anche più di allora: un magnifico e accorato apologo sul rapporto dialettico tra fede e dubbio, laddove i due termini antitetici si trasformano, spesso, rispettivamente in credenza bigotta e laicismo, in fanatismo – fino ad assumere le connotazioni dell’idolatria – e puro materialismo. Per compiere ciò gli autori – Manfredi è anche soggettista (quanti echi, pur imprecisati, dei suoi territori d’infanzia?) nonché sceneggiatore insieme a Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Luigi Magni – si servono della storia di Benedetto Parisi (Nino Manfredi), un personaggio sufficientemente anonimo, per certi versi molto vicino agli inetti della stagione del grande romanzo ottocentesco e d’inizio Novecento. Inoltre se l’elemento della fede, della credenza bigotta, dell’idolatria, predomina nella prima parte del film che s’incentra sull’infanzia e sulla giovinezza del protagonista, l’elemento del  dubbio, insieme alle istanze del laicismo e del materialismo, predominano nella seconda, la fase della maturità di Benedetto Parisi; tutto ciò, fatto salvo gli eventi che caratterizzano la geniale fine, aperta e inconclusa quanto basta per annunciare anticipatamente – per alcuni versi – i canoni del racconto postmoderno, pur infarcito ancora di elementi della Commedia Classica.

A latere ci si chiede se – questo soggetto, questa trama con questa sceneggiatura – non abbiano ispirato, in seguito, anche altri autori; non ultimo, in anni recenti (2015), Edoardo Falcone per il suo Se Dio vuole.

Ciò fissato, si può affermare che la chiave del film risiede in due sentenze, anche  queste antitetiche, pronunciate da due personaggi diversi, rispettivamente il priore dell’abbazia (Mario Scaccia) e lo stesso Benedetto Parisi (Nino Manfredi): «Dio è pace e serenità, non tormento!», sentenzia il priore all’ennesima evidenza di quanto, il pur giovane ma adulto Benedetto, dopo la sua infanzia orfana e traumatica (allevato da una disamorata e distratta tutrice), sia effettivamente inadatto alla vita monastica; «Non è morto: all’ultimo momento ha deciso di andare all’altro mondo pure lui!», sentenzia viceversa Benedetto medesimo, in corrispondenza del grave lutto che tocca la sua “famiglia adottiva”.

Lo stile narrativo è asciutto ed essenziale, sobrio e privo di fronzoli, pur cedendo come già detto a sporadici inserti di Commedia: quando il distratto Benedetto finisce per scottarsi bevendo un bicchiere d’acqua bollente fatta sgorgare dal rubinetto, la sua smorfia è  equivocata dalla compagna come acuto dolore affettivo; ciò, in palese contrasto con il lutto che tutti gli altri personaggi stanno vivendo, suona grottesco e non può non suscitare l’ilarità dello spettatore. Ma, del resto, elementi di Commedia erano presenti financo nel Neorealismo di Roma città aperta, come attesta la famosa padellata che il prete Aldo Fabrizi infligge sul posteriore d’un suo collaboratore.

Il racconto di Per grazia ricevuta impiega innumerevoli flashback che ricostruiscono tutte le tappe essenziali dell’esistenza del protagonista, intervallandole sapientemente al proprio drammatico oggi. Questo, fin dall’incipit, ci catapulta e ci inchioda ai momenti, penosi, d’un intervento neurochirurgico cerebrale. I volti, del tenebroso chirurgo (Fausto Tozzi, attore valente prematuramente scomparso, nonché nello stesso anno regista dell’ambizioso e pregevole Trastevere), della compagna di Benedetto – una Delia Boccardo eburnea e tacita come una Madonna fiorentina del Quattrocento – e  della torva “suocera” Paola Borboni, uniti a quelli di tutti gli altri (fra cui spiccano Mariangela Melato, Enzo Cannavale e Tano Cimarosa), conferiscono i ritmi e le solennità d’un dramma umano – ma anche collettivo – sempre in bilico tra possibile e verosimile, tra desiderio ed evitamento, tra intuito e disillusione.

La locandina del film, raffigurante il protagonista Benedetto Parisi con Sant’Eusebio.

Si sono lasciati per ultimi i riferimenti al volutamente orripilante Sant’Eusebio (indubbio deus ex machina della prima parte) e il sontuoso e gigantesco farmacista (Lionel Stander) vero dominatore e punto cardine  della seconda parte ma, per contrasto, anche di tutto lo spirito del film.

Manfredi e collaboratori sono bravi a condurci attraverso questo caleidoscopico viaggio che  inizia con le bizze di  monelli di paese, stretti come seminaristi felliniani fra le angustie d’un clero egemone e quasi sempre bieco. Uno di loro, almeno, diverrà adulto titubante allo sbaraglio in un mondo per il quale si avvertirà inadatto, spaesato, curioso di sciogliere quell’enigma del dopo, in bilico su una lama di rasoio; sarà questo il bisturi del chirurgo che lo salverà?

[Fabio Sommella, 16-17 luglio 2021]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Il chirurgo, interpretato da Fausto Tozzi.

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Ricordando Enrico Vaime

A scorrere i suoi “titoli”, televisivi e teatrali, colgo alcune pietre miliari nella memoria: due Canzonissime “epocali” – per gusto, equilibrio, verve e mix di personaggi dello spettacolo – quali quelle di fine ’60 con Chiari-Mina-Panelli e Dorelli-Kessler-Vianello; la “piccola” commedia di varietà con Bramieri sui “bancari che hanno un’anima”, in quei due tempi differiti di un’avventura con una donna fatale (Paola Tedesco) che permette al protagonista di riesaminare e recuperare la propria esperienza di una vita scialba e melensa in favore di una rivitalizzazione del rapporto coniugale (Valeria Valeri); quell’Italian Restaurant, arguto e brillante, di una vivacissima coppia istrionica di amici, dove Adriano Pappalardo – reduce dall’amicizia con uno dei due Grandi Lucio – non sfigura  affatto a fianco di Proietti, consueto grandissimo mattatore, anzi costituendo una spalla di lusso.

Il nesso con Marcello Marchesi è immediato e d’uopo; pertanto – tutto ciò, e molto altro – é come un telaio di fili di memoria e coscienza che si dipana e s’intesse nel tempo, dipartendosi dal Marc’Aurelio umoristico – legando a ciò, in qualche modo, anche Fellini e Scola – congiungendo i ’50 e i ’60, attraversando gli anni di piombo, i riflussi, i crolli di muri, le mani pulite e le discese in campo, giungendo fino a quest’epoca, coatta e claustrofobica, con un sorriso garbato, ironico e dissacrante verso la vita e i suoi drammi.

Goodbye, Enrico, silenzioso amico del retroscena delle nostre vite! 😊

[Fabio Sommella, 29 marzo 2021]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Un cinema perfetto senz’anima: ovvero Mank di David Fincher – Dicembre 2020

Grande opera filmica calligrafica, in stile.  Sontuoso preannuncio di ciò, da subito, appare la sequenza iniziale: una magnifica panoramica orizzontale d’un corteo di auto che si muove da destra a sinistra; ciò quasi a confermare, se ce ne fosse necessità, che lo spettatore sta per esser  catapultato nel cinema classico hollywoodiano, pur rivisitato ottanta o novant’anni dopo, e pertanto tutti i principi del montaggio canonico saranno ritrovati di seguito.

Il protagonista – Herman  J. Manckiewicz, rappresentato come al solito  ottimamente da Gary Oldman  – si cala molto bene in questo tessuto e in queste impalcature. Egli si muove in modo monolitico per tutta la vicenda, tanto nel portamento che nel parlare, malgrado gli eccessi e i perenni alti e bassi esistenziali. È, questo personaggio reso  invecchiato fin da giovane non solo nelle fattezze ma anche nella voce e nell’eloquio, sempre alla ricerca del motto e della provocazione. All’interno di due alternati scorci temporali – anni ’30 e anni ’40 – si  confronta in maniera vana ed esasperata con un cinema a sua volta ora vecchio (Thalberg, Mayer) e ora nuovo (Welles, il fratello Joseph L.); tuttavia non riesce mai a schierarsi, a prendere una vera e propria parte, ad assumere una reale posizione. Non è un rivoluzionario – bella la vicenda concernente Upton Sinclair, che il protagonista in qualche modo e misura condivide – ma  più semplicemente uno stolido ribelle, un Mister No che rifiuta il sistema sempre in maniera eclatante, affogando il proprio scontento egocentrico anarchismo, privo di autentiche valenze sociopolitiche,  nel naufragio alcolico.

David Fincher – riprendendo  un progetto sceneggiato dal padre Jack – si  conferma abile costruttore di suggestive sequenze filmiche che scorrono in un alveo di grande e indubbia classe ma prive di qualsiasi empatia ed emozione, viceversa ricche di algida impersonalità. Un mondo convulso e incerto, ovviamente, la Hollywood e l’America dei ’30 e ’40, ma il sontuoso apparato produttivo e scenico, pur al servizio di una grande prova d’autore, sono esercizio di stile. Ottimo per gli esteti del cinema, per i cultori dei film verità che scandagliano, scindono, deturpano chirurgicamente senza tuttavia far vibrare mai. Film per puristi, che ha scopo di stupire e fare sfoggio di sé stesso, come – pur  se diversi e fatte le debite differenze – lo furono già  Seven e L’amore bugiardo; ovvero: senza toccare corda alcuna dello spettatore fuor dell’effetto raffinato, senza mostrare e trovare mai un’anima autenticamente genuina; del resto come il protagonista di questo film.

Una volontà? Forse, probabilmente dei sistemi produttivi attuali dominanti che avvertono il polso del pubblico, da catapultare nei meandri – pur scevri di apparenti nostalgie – della  storia del cinema occidentale per mostrargli presunte verità nascoste.

Un pregio del nuovo cinema? Dubitiamo. Al di là della bravura degli attori, della stazza appunto monolitica realizzata da Gary Oldman, della macchina produttiva sfarzosa, crediamo che – a  meno di scelte direzionali sociopolitiche deliberate – anche il cinema, per quanto formalmente perfetto, si dovrebbe far carico delle istanze post-postmoderne,  ovvero dell’auspicato   NeoModernismo, che necessita di altre più autentiche espressioni, artistiche e critiche; se non altro di maggior genuinità, specie in un clima culturale – purtroppo  o per fortuna – tuttora sempre più globalizzato.

[Fabio Sommella, 5-11 dicembre 2020]

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Roma e Mario Sista, tra immaginario e passione

Mario Sista, mentre esegue Roma passione mia; grazie a Rosanna Sabatini per la cortese condivisione della sua pagina FB.,

Venire a Roma, da città più o meno lontane, da sempre è un’usanza – un rito, un caso, una necessità – che si perpetua nel tempo e nella Storia. Lo facevano folle immemori nell’antichità, afferendo all’Urbe  da terre limitrofe, poi dalle province dell’Impero. In tempi più recenti lo han fatto molti altri ancora: dal viterbese, mia nonna materna, bambina nel ’10; da Napoli, mio nonno paterno, pochi anni dopo; quindi mio padre, bambino nel ’37; lo ha fatto Fellini, poco prima della Guerra. Poi le immigrazioni dei ’50, mentre le coscienze collettive rinascevano anche sulle onde dello spettacolo popolare, il cui immaginario – mediato da artisti formidabili come ad esempio Rascel o Totò o i Mostri Sacri della Commedia all’Italiana – spiccava il volo in favolose direzioni verticali. Così Roma diventava ulteriormente culla e madre di nuove comunità, di affetti e di fantasie: coloro che afferivano si contaminavano e s’inebriavano, oltre che delle bellezze classiche e barocche canoniche, di quella folclorica di Arrivederci Roma, di quella dei giovanotti di Poveri ma belli, degli scorci della mala dal volto umano dei Soliti ignoti, di quella sacra e profana de La dolce vita.

Di tutti questi – e certamente anche di altri – ingredienti, umori, sapori, humus, si è imbevuto anche il romano d’adozione Mario Sista, originario dell’avellinese, trasferitosi a Roma in epoca che personalmente non so con precisione, però che – nella   mia immaginazione – mi piace pensare sia stata quella dell’immediato dopoguerra, o al massimo nei primi ’50. Mi piace pensarlo entrare nell’Urbe come tanti personaggi della Storia, antica o recente, e lì decidere – avvertendo con certezza – che avrebbe instaurato lì la sua sede, lavorativa e affettiva, cullato fra le braccia e le gambe amorevoli di Mamma Roma, come Lui stesso ha detto in una delle Sue più belle canzoni, Roma passione mia, “seconda mamma” per Lui.

Io ho conosciuto solo negli ultimi due anni, Mario, sapendo che ha avuto una lunga e gloriosa carriera di Alta Sartoria, con committenti certo di pregio e altolocati. Tuttavia son riuscito ad apprezzarlo – credo   profondamente, pur nella brevità del tempo concessoci, proprio per una forma di empatia che Lui sapeva trasmettere – anche sulla scia di tutti gli elementi da me menzionati o lasciati intuire prima: la fantasia, la poesia, la musica, la creatività, l’istrionismo teatrale e molto altro ancora. Mi piace pertanto immaginare che anche Lui abbia respirato la medesima aria, abbia attinto alle medesime fonti, si sia nutrito delle medesime vivande culturali, in modo eguale a quelle modalità dette sopra, in una sorta di ennesimo convivio, pur inconsapevole, della nostra civiltà.

È questo che mi hai lasciato, caro Mario, anche nel breve tempo dei nostri incontri: un pezzo di cuore, fra echi di famiglia, storia e spettacolo; di questo te ne sarò sempre grato!

Fabio

Roma, 19 novembre 2020

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Ricordando Gigi, ma anche Soldatino, King e D’Artagnan: professione … vincenti!

Forse uno dei modi migliori per ricordare Gigi Proietti è rileggere una splendida lirica che, lui, compose a quattro mani con Roberto Lerici: Questo amore.

Altro modo – degno? Indegno? – è quest’altra lirica, in vernacolo romanesco (e chiedo scusa ai puristi), da me composta qualche giorno dopo la sua scomparsa.

Non so se, con il tempo, si aggiungeranno altri contributi. Tuttavia propongo, qui di seguito, anche un estratto del mio Il cambio della guardia in cui, fra gli altri, parlo dell’arcinoto film di Steno del 1976 Febbre da cavallo. Si tratta di una tarda Commedia all’Italiana – a mio avviso vero e proprio “canto del cigno” del genere propriamente detto (in quanto, la successiva produzione, acquisterà sempre più i caratteri della Commedia della Contemporaneità) – nel quale il grande e amatissimo attore scomparso ieri  – decisamente uno dei più grandi di sempre – sfoggia parte delle sue massime doti di istrione e mattatore, in una parola Mandrake.

Che la terra gli sia lieve, così come è stata la sua indubbia arte nella vita.  ❤️ [Fabio Sommella, Roma, 3 novembre 2020]

Febbre da cavallo, titolo di Steno del 1976, estremo baluardo di irriducibili goliardici giovanotti fuori del tempo e delle cognizioni sociali, pur nel suo relativamente tardivo riconoscimento e apprezzamento di valore artistico eternamente giovanilistico beyond the time, cinematograficamente segna la linea di demarcazione tra un’epoca prima e un’epoca dopo del narrare filmico italiano pertinente al genere Commedia.

Effettuando qualche paragone, consapevolmente e volontariamente molto azzardati, ci si sente un po’ come di fronte ad alcune tappe storiche, pietre miliari di passaggio della società; esempio: prima e dopo il 1789 e la rivoluzione francese; prima e dopo il 1815 ed il congresso di Vienna; prima e dopo il ’68; …

Per pudore, ovviamente, ci fermiamo!

Scherzi a parte, e tornando al nostro più circoscritto e ridotto contesto cultural-artistico, si vuole, stavolta seriamente, sottolineare come, all’interno del genere Commedia, il citato titolo Febbre da cavallo contrassegni comunque il finire di un genere e di uno stile, popolare ma espressivo nonché di caratterizzazione degli ambienti e dei personaggi, consolidandone ed emblematizzandone altresì le prerogative e le caratteristiche, coagulandone gli elementi migliori della commedia cinematografica  italiana, quella contrassegnata da indubbie maschere. Al contempo si cede il passo a una forma di commedia differente, che si sviluppa sui filoni  che in precedenza abbiamo riferito, ciò avvenendo sia in termini di nuovi autori emergenti che di stile, narrazione, personaggi, ambientazione.

Quello che era, o riteniamo sia stato, il coacervo di elementi che il cosiddetto “Neorealismo Rosa” – di Emmer (vedansi i film con Franco Interlenghi e Lucia Bosè), Comencini (i Pane, Amore …), Risi (i Poveri ma Belli) e Monicelli (Soliti ignoti) – altrove detto Commedia all’italiana, formatosi autonomamente, creatosi per esigenze di disimpegno sulle “ceneri” del vero Neorealismo; tutto questo, sosteniamo,  raggiunge il proprio canto del cigno con questo film di Steno. Ciò trova la sua naturale causa in tutto quell’insieme di motivi ed elementi citati – di cui negli episodi cinematografici italiani paralleli degli anni ’50,  ’60 e prima metà ’70 – sintomatici in termini di costume e della sua evoluzione.

Riteniamo che, per le filiazioni che stiamo con fatica ma, si spera, con piacere seguendo e descrivendo, Febbre da cavallo verso la Commedia all’Italiana svolga il ruolo che (stavolta, probabilmente, la metafora sarà più accettabile, anche se i metri di paragone saranno pure abbastanza arditi), Otto e mezzo svolge nella Cinematografia di Fellini o che, a posteriori, Fanny & Alexander svolge nella Cinematografia di Ingmar Bergman[1].

Lo sappiamo: come volevasi dimostrare, abbiamo volutamente esagerato!

Esaminiamo, pur se arcinoto (quanti Fan Club di Febbre da cavallo sono sorti nei decenni?), il canovaccio del film; esso  ci permetterà di individuare anche tutta una serie di elementi archetipici della Commedia all’Italiana, in continuità coi precedenti film e padri.

Ci sono tre giovanotti romani, (ed ecco lì, il I archetipo che ritorna: la romanità, cultura e terra di mezzo, nonché capitale, del Bel Paese), simpaticamente chiamati/denominati Er Mandrake, Er Pomata e, unico privo di nickname, Felice. Tutti e tre sono senza particolare arte né parte, se si esclude la bella presenza e prestanza di uno di loro (ecco il II archetipo, il fusto), ovvero il Proietti/Mandrake. Squattrinati quanto basta (III archetipo: poveri) e senza voglia di lavorare (IV archetipo, tra poveri/belli e soliti ignoti), sufficientemente truffaldini (V archetipo, si vedano  I soliti ignoti, ecc.) in nome della loro incontenibile passione per le corse dei cavalli (I autentico nuovo, finora inconsueto, elemento inserito nel soggetto e nella sceneggiatura), vera e autentica febbre, i tre disperati amici sono disposti a sacrificare ogni residua dignità umana (VI archetipo, la disponibilità a scendere ai più bassi livelli di compromesso etico-sociale e con la propria dignità) per sperare di vincere qualche somma di denaro, salvo che, quando scommettono, perdono sempre.

Si potrebbe non proseguire alla ricerca di ulteriori elementi archetipici, ritenendo noi di averne ormai a sufficienza (ma il lettore potrebbe esercitarsi a rintracciarne altri) e, fissati questi ingredienti di base, si vede tuttavia come se ne aggiungano immediatamente altri, in parte definibili accessori, in parte decisamente funzionali all’intreccio filmico, tali da contribuire a colorare sapientemente il racconto e, date le premesse, a supportarne gli ulteriori sviluppi; vediamoli con ordine.

C’è una bella ragazza, interpretata da Catherine Spaak, proprietaria di un bar, sito nelle immediate adiacenze di Piazza Venezia, e donna del giovanotto di bella presenza. Il rapporto tra i due è tale che, quando il giovanotto perde alle corse dei cavalli, egli alla sera non sia più in grado di adempiere ai suoi oneri ed onori di amante latino; qui, come è evidente, già innestandosi alcune gag, apparentemente di grana grossa ma viceversa simpaticamente rese sempre entro i limiti del buon gusto, non trascurabili e che, nel corpo del film, saranno colte puntualmente.

C’è poi un finto avvocato truffatore, l’Avvocato De Marchis, degnissimamente reso da Mario Carotenuto, monumento dei caratteristi e comprimari della commedia all’italiana, già fratello di Memmo Carotenuto, il Cosimo de I soliti ignoti. Questo finto avvocato De Marchi è  proprietario di un cavallo brocco, “Soldatino”, destinato a perdere tutte le corse dei cavalli.

Non manca poi una nonna, quella del Pomata/Montesano, ovviamente disposta alle farse e alle sceneggiate pur di difendere il nipote, salvandolo dalle persecuzioni dei creditori e dei rivendicanti diritti per le incorse truffe.

Inoltre è presente una sorella del Pomata, nubile e certamente destinata a rimanere tale poiché, già particolarmente non avvenente, presenta inoltre perenni problemi di alitosi, tali da esser soprannominata “Ghibli, il vento che uccide!”[2].

Ci sono poi: un macellaio laziale, denominato Manzotin, vituperata vittima delle beffe dei tre; un vero avvocato, proprietario di una scuderia di cavalli di razza (il compianto e bravo caratterista Gigi Ballista); una giovane modella, di dubbia moralità, disponibile alla frode; un grande fantino francese, Jean Louis Rossinì, la cui professionalità viene carpita dall’avvenenza di quest’ultima e … dulcis in fundo … c’è un apparentemente rigoroso e assolutamente intransigente giudice (il grande Adolfo Celi) che, redivivo dalle zingarate fiorentine,  viceversa si rivela un aficionado delle corse dei cavalli; e lì, quindi, il gioco è fatto, chiudendosi il cerchio in modo tale da dare spazio all’inevitabile simpaticissimo lieto finale dove tutti saranno disposti a dare il via a rinnovate avventure, tanto amorose quanto goliardiche, di quella che, a questo punto, potrebbe denominarsi la “compagnia del cavallo”.

Il tutto è infatti completato da uno stuolo di validi comprimari nei panni di  verosimili giocatori di corse o bulli di quartiere. Tra essi, come si potrebbe dimenticare Er Ventresca, perenne creditore de Er Pomata, o l’anonimo scommettitore interpretato da Luciano Bonanni. Quest’ultimo, valente caratterista – che, tra l’altro, negli anni ’70-’80 lavorerà tanto con  Ettore Scola che con Carlo Verdone – dà il proprio volto e la propria inconfondibile verve a uno dei principali personaggi del sottobosco delle irrecuperabili fisionome umane che, ostinatamente, si agitano attorno al mondo delle scommesse e delle corse. Saranno queste tipologie di personaggi che faranno da coreografia all’arringa del Mandrake/Proietti in una delle ultime sequenze nel tribunale, come in una sorta di carosello felliniano. Er Mandrake, in una davvero istrionica e memorabile rappresentazione di autodifesa legale (superfluo sottolineare da grande attore), reciterà la propria arringa in favore di quel variegato e pressoché psichiatricamente tarato universo umano costituito dagli scommettitori delle corse di cavalli.

Come noto, il clou del film si focalizza sul tentativo truffaldino di far vincere – ovviamente con una sequenza di molteplici inganni, sorprese, raggiri e colpi di scena a catena, secondo i canoni della più tradizionale commedia degli equivoci (o, appunto, Commedia dell’Arte!) – una famigerata corsa tris di trotto a tre brocchi – rispettivamente Soldatino, King e D’Artagnan – e riscuotere l’ingente vincita.

Ciò faticosamente riassunto, vista la ricchezza di elementi e situazioni che si son voluti mettere in evidenza – elementi che, analogamente a sistemi solari di una galassia, popolano il panorama narrativo della sceneggiatura del film – come non riosservare e ulteriormente sottolineare la misura e il modo con cui, in questo certamente tuttora divertente film, vengano inglobati tutti i citati archetipi della Commedia all’Italiana, cioè  tutti quegli elementi da noi riscontrati e messi in evidenza a proposito degli altri film[3]?

Come non notare quanto il processo di filiazione –  da noi annunciato e che sorregge, filologicamente, buona parte di tutto il presente discorso fin qui svolto – raggiunga il suo acme proprio con questo film? Inizialmente pressoché ignorato, tanto dalla critica quanto dal pubblico, quest’ultimo lo riscoprirà solo anni dopo, in tal modo elevandolo a sorta di cult  comico dell’immaginario collettivo proprio in quanto nostalgica ed esilarante fiaba d’altri tempi, di impossibile attualizzazione nel contemporaneo costume.

Il suddetto processo di filiazione – sotto le sempre più incipienti pressioni della pure da noi indicata notturna, brumosa, torbida, cinica Commedia Drammatica, nonché dell’attualità politica – si arresterà per morire,  oppure per trasformarsi – definitivamente, da questo momento in poi – in qualcosa di nuovo e diverso. Ciò in quanto le fasi storiche e sociali risulteranno adesso irreversibilmente cambiate e per gli autori non sarà più possibile fare la medesima Commedia all’Italiana, a meno di una mancanza di genuinità artistico-intellettuale: il ’68 e gli anni di piombo non sono trascorsi invano e, di qui a breve, altri eventi drammatici, il ‘77, e tragici, Via Fani e Via Caetani, saranno all’attenzione della cronaca.  Risulterà cosi cambiato il pubblico, non solo cinematografico: alle canzoni beat e di disimpegno, degli anni ’60, seguiranno le canzoni d’autore degli anni ’70, anche la musica, sia popolare che colta, divenendo fortemente politicizzata. Un cantante come Demetrio Stratos, che negli anni ’60 era il leader del gruppo beat de I Ribelli, negli anni ’70 fonderà il gruppo progressive degli Area, per poi allontanarsene nel ’78, l’anno prima di morire.

Negli anni ’70, il disimpegno e la “nostalgia” per le figure vagamente romantiche del folclore e della Roma “sparita”, zingara e picaresca dei rioni e dei quartieri, sono figure che ormai si avvertono obsolete, se non addirittura sgradite, anche  per il largo pubblico, tanto più per l’”intellighenzia” (o “intellighentia”) nazionale.

Come già detto, lo stesso Febbre da cavallo non sarà apprezzato subito, non sarà goduto come espressione genuina di uno spettacolo di comicità  e costume burlesco italiano imparentato con illustri tradizioni e predecessori; non essendo satirico, dissacrante o mordace verso le contingenti forme di potere, non essendo politico, all’inizio passerà quasi del tutto inosservato, comunque non apprezzato. Trascorreranno anni, dai dieci ai quindici, prima che, sul finire degli ‘80, venga riscoperto e rivalutato, certamente sulla scia di quel periodo politico-sociale definito Riflusso. Questa riscoperta, analoga a tanti eventi simili della storia della letteratura (ma qui si preferisce non rischiare di incorrere in paragoni arditi), sarà caratterizzata da assenza di preconcetti culturali, politici  e ideologici, guardando il film per quello che è e voleva essere: un buon esempio ben architettato di giocosa e gioiosa commedia degli equivoci, genuinamente comica, esilarante e, perché no, nostalgica di una determinata fase storica italiana, sul cui stampo era costruita,  quella centrata sulla ricostruzione e sulla speranza, da cui indirettamente e filologicamente discendeva.

Ma è un filone al tramonto e, pertanto, definitivamente concluso con la seconda metà degli anni ’70. Non è casuale – come già per  I soliti ignoti vent’anni dopo del 1986 – che anche il sequel di Febbre da cavallo – il Febbre da cavallo 2 – La mandrakata, del 2002, di Carlo Vanzina – malgrado ancora  presentasse insieme Proietti e Montesano, risulterà comunque troppo sopra le righe, non all’altezza dello stile di papà Steno, deludente tanto in termini di pubblico che di altro. La misura, per queste filiazioni, sarà colma e il tentativo effettivamente fuori tempo, malgrado il cult del primo Febbre da cavallo e il simpatico fiorire dei fan club.

[1] Nell’opinione della critica quest’ultimo titolo rappresenta una sorta di summa delle tematiche trattate nella cinematografia del maestro svedese.

[2] In altre edizioni, del medesimo film, la stessa battuta è riportata nei termini di “Tornado, il vento che uccide!”. Ciò la dice lunga sulle differenze, reali e non dipendenti da errori di chi ricorda, che a volte possono essere indicate da differenti spettatori che, in momenti o luoghi diversi, hanno visionato lo stesso film. Questi spettatori, in funzione delle differenze di registrazione e di distribuzione, possono avere differenti ricordi in merito a battute o episodi del film, proprio in quanto sono state distribuite differenti versioni/registrazioni dello stesso film.

[3] Per comodità del lettore, rimandando comunque a quanto detto nel Capitolo 1, si riportano i riferimenti dei film in questione che, oltre a quelli citati relativamente a Totò, sono specificamente: il cinema di Luciano Emmer con la sua triade del 1950-52; la saga di Pane Amore e… di Comencini e Risi; la saga di Poveri ma belli di Risi; I soliti ignoti di Monicelli, Operazione San Gennaro di Risi; Amici miei di Monicelli.

[Fabio Sommella, Il cambio della guardia,  II edizione (2019) cartacea e ebook, Amazon, 2019, pp. 55-60]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Da Borgo San Pietro a Poggio Bustone sulle tracce di Lucio – di R.Sabatini-F.Sommella

Appunti di viaggio… e altro (di Rosanna)

Oggi mi sono svegliata “alle 7 e 40”; sarei partita “presto presto” anche se non c’era il “traffico lento”, perché non era un’ora “di punta” ma, a Borgo San Pietro di Petrella Salto, mancava l’acqua e, dopo le proteste con la Soc. APS, ho dovuto aspettare ancora qualche ora, per recarmi a Poggio Bustone insieme a Fabio.

Da anni aspettavo di provare “emozioni” e di “seguire con gli occhi” aironi, magari non “sopra il fiume” ma sui laghetti ai piedi del paese; ho soltanto parlato “del più e del meno con un pescatore” per una mezzora e così non ho sentito “che dentro qualcosa muore”.

Sono salita a fari accesi verso il paese e ho guidato piano, perché non conoscevo la strada e non volevo “vedere se poi è tanto difficile morire”. È meglio guidare a 30 km/h come indicato in tutti i cartelli che dalla Via Ternana portano al paese (tralascio di scrivere il numero delle auto che mi hanno comunque sorpassato).

A Poggio non ho coperto “una piantina verde sperando possa nascere un giorno una rosa rossa”: le mie meravigliose piante di rose, nei miei Giardini di “Tutto l’Anno” in quel di Borgo San Pietro ( piante che non ho comprato per “una lira”), stanno morendo per ordinanza comunale (divieto di utilizzare acqua per giardinaggio et similia).

Non ho preso a pugni “un uomo solo perché è stato un po’ scortese”, ma le mie rose lo farebbero volentieri e gli direbbero: “Capire tu non puoi”, tu chiamali se vuoi…

Arrivati a Via Roma, abbiamo cercato il numero 40 (non per giocarlo a lotto); la leggenda vuole che sia stata la casa di Lucio; tuttavia una simpatica parente del cantautore ci ha indicato una diversa abitazione e il balcone dove lui era solito suonare la chitarra.

Dopo le foto dal belvedere, ci siamo recati a piedi verso il cimitero e i vicini “Giardini di marzo”.

Per arrivare alla statua di Lucio, siamo passati attraverso un’area che non aveva un aspetto ben curato come del resto anche le aiuole; ho guardato la statua e mi è parso che Lucio fosse triste per la trascuratezza circostante; in estate i giardini non “si vestono di nuovi colori” però una maggior cura non guasterebbe.

Mentre stavo nei giardini, dentro la mia testa ho sentito un “mix” di musica e parole: emozioni! L’ultimo brano cantava così: “A te che sei il mio presente, a te nella mia mente e come uccelli leggeri fuggon tutti i miei pensieri, per lasciar solo posto al tuo viso che, come un sole rosso acceso, arde per me”.

Risalendo dai Giardini di Marzo al centro storico, siamo giunti al ristorante La locanda francescana, sede anche del Fans-Club di Lucio Battisti a Poggio Bustone, dove abbiamo gustato un abbondante e genuino pasto servito con garbo e celerità.

All’uscita dal ristorante, abbiamo percorso le stradine del centro storico godendo dei suggestivi scorci panoramici tra una casa e l’altra, come testimoniano le foto.

Mentre camminavo mi chiedevo se Lucio avesse mai poggiato i suoi piedi, dove li stavamo poggiando noi; osservando il panorama, ho pensato che era ciò che lui aveva visto dal suo balcone e che si ritrova in molti testi di Mogol; perché, se è vero che le musiche nascono prima, è pur vero che – in genere – chi scrive le parole di una canzone si confronta con il compositore circa chi o che cosa l’abbia ispirato.

E poi… di nuovo “sì, viaggiare, evitando le buche più dure”, verso Borgo San Pietro di Petrella Salto.

Arrivati a Rieti ci siamo persi e una gazzella dei carabinieri – grazie ai due cortesi addetti dell’Arma – ci hanno fatto strada fino al Campo Sperimentale… ma questa è un’altra storia!

[Rosanna Sabatini, 20 Agosto 2020]

… ed elucubrazioni (di Fabio)

E già, perché pensavo che “Oggi è stata gran festa in paese”, ma… “Che ne sai , tu, di un campo di grano?”

Sai che “la stalla con i buoi” mi han donato “per cielo gli occhi tuoi”.

Quindi ho scoperto che “oltre il monte c’è un gran ponte” “dove i frutti son di tutti”. Mi sono poi addormentato e ho sognato “un cimitero di campagna” in cui poter “riposare un poco”, forse “due o trecento anni”.

Al risveglio mi son reso conto che “i giardini di marzo si vestono di nuovi colori”. Cedendo però a una “sensazione di leggera follia” ho seguito una “gallina”: quella, “spaventata in mezzo all’aia, fra le vigne e i cavolfiori mi sfuggiva gaia”.

Già avevo cancellato “col coraggio quella supplica dagli occhi” e allora mi son messo a correre lungo “distese azzurre”, “verdi terre”, “discese ardite”, “risalite“, finalmente sentendomi “umanamente uomo”.

Così ho compreso che “ad ognuno la sua parte: saper vivere un’arte”.

[Fabio Sommella, 20 agosto 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Quel carillon della coscienza… (bis)

Il precedente, approfondito, articolo – musicale, critico, analitico – dello splendido brano (quale? Si veda il link seguente) è del 16 giugno 2019 in https://www.fabiosommella.it/wp/quel-carillon-della-coscienza-che-sapre-e-suona-nella-mente/

In data 11 giugno 2020, con chitarra acustica Furk Indigo unplugged, tonalità SOL maggiore e LA maggiore, è stato replicato quanto segue:

Grazie, di nuovo, agli autori del brano.

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

NoiGoliardi, NoiGoliardici, NoiLiceali – 01

Con questo – brevissimo – articolo/raccontino desidero dare il via a categorie di hashtag come quelle riportate nel titolo e meglio indicate qui sotto. Credo che, tali orientamenti, sarebbero coerenti con lo spirito – ovviamente non con la loro grandezza, che è incommensurabile e tutt’altra cosa rispetto al poco che io sono – di un Federico Fellini (!?!) o di un Mario Monicelli (!?!) o di un Luciano De Crescenzo (!?!)
Insomma: con questo articolo voglio presentare una sorta di zingarate, giochi di parole, calembour, boutade di eterni ragazzi che, mi auguro, abbiano un seguito, tantoda parte di chi legge, quanto da parte mia.
Tuttavia, bando alle ciance e… mi si ascolti, prego.
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Parlando con il figlio a tavola, facendo riferimento a una sua – ormai conclusa –  pregressa frequentazione femminile, diceva : “Allora, quella signora di Trastevere…”
“Si chiamava Gertrude”, interloquì il figlio.
“No,” prontamente lo corresse lui, “quella non era di Roma ma della Lombardia…”
“Già, vero: si chiamava Rita”, disse il figlio, con l’aria di chi sa quel che dice.
“No, in effetti Rita…”, corresse a sua volta lui, “… never covered!”, con l’aria di voler concludere all’inglese.
E il figlio lo corresse – in modo arguto, sempre all’inglese – affermando: “never covered, yet!!!”
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Ahahahahaha
[Fabio, 30 gennaio 2020]
#NoiGoliardi #NoiGoliardici #NoiLiceali

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Il Genio non ha regole accademiche (il caso di Lucio da Poggio Bustone)

Amo tutta la canzone d’autore, italiana e non solo, ma in particolare quella della Grande Stagione che va da inizio ’70 alla metà degli ’80. Amo le voci e gli stili dei maggiori cantautori. Tuttavia, talvolta, ascoltando per ore e ore le canzoni e le musiche di uno solo di loro – inevitabilmente – subentra comunque, in qualche misura, un senso di stanchezza; come se la voce e lo stile di quel pur grande autore – che magari davvero amo moltissimo – si riproponesse pressochè costante e invariata nel tempo, provocando una qualche forma di assuefazione all’ascolto. In questi casi, passo allora ad ascoltare altro autore o altro genere di musica. Ciò mi accade anche con alcuni dei grandi gruppi rock internazionali di quegli anni.

Però non mi accade, devo dire, con la musica di Lucio Battisti.

Ieri infatti, mentre lavoravo ad alcuni documenti, con gli auricolari ho ascoltato per ore e ore – in pratica dal mattino alla sera – le canzoni del nativo di Poggio Bustone, canzoni e composizioni strumentali selezionate casualmente dai motori del web. Non credo sia dipeso da un fortuito  mix randomico delle selezioni; più verosimilmente ritengo dipenda dall’ampia gamma di registri stilistici e arrangiamenti musicali di Lucio. Fatto sta che, in quelle tante ore di ascolto, non ho mai avvertito – pur minimamente – un qualche senso di stanchezza uditiva bensì una continua curiosità di ascolto. Come se, Lucio Battisti, abbia saputo esplorare l’intero universo musicale possibile, variandolo e diversificandolo sapientemente nel corso della sua carriera e produzione, musicale e poetica, dandogli molteplici forme, toni, colori, conferendogli modalità e sonorità che non provocano assuefazione, non inducono ad alcuna forma di stanchezza uditiva o cerebrale… Splendido!

Allora mi sono ricordato di quando – ero appena adolescente – in TV, noi ragazzetti di allora, già ammaliati dalle canzoni e dalle atmosfere di Mogol e Battisti, vedemmo Lucio intervenire in una trasmissione serale in diretta. Era un luglio dei primissimi ’70. La sua apparizione in TV non era per cantare bensì per dirigere un’orchestra (“A luglio si reca a Campione d’Italia per dirigere un’orchestra di 25 elementi nell’esecuzione di 7 agosto di pomeriggio[”, da https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Battisti e anche  https://www.luciobattisti.info/?page_id=1276).

In quella sera d’estate di un inizio ’70, nella TV in bianco e nero di allora, io e mio fratello, emozionati, aspettavamo che Lucio cantasse uno dei suoi brani tradizionali. Invece lui, senza proferir alcuna parola, salì su un palco dinanzi a un’orchestra e a un pubblico. Quindi solo con gesti – che ci apparivano magistrali e misteriosi – lo vedemmo dirigere quegli orchestrali. Si trattava di un brano esclusivamente strumentale: 7 agosto di pomeriggio. Era contenuto nell’album Amore e non amore. Per la musica pop o beat di allora era un brano decisamente d’avanguardia, dissonante… si provi a riascoltarlo anche oggi. Tutto ciò era abbastanza inconsueto, forse per lui ma senza dubbio per noi, che rimanemmo infatti delusi.

Al termine dell’esecuzione, Lucio con rinnovati e sempre essenziali gesti di ringraziamento, continunando a non proferir parola alcuna, si accomiatò da tutti, defilandosi in un nuovo sorprendente e irreprensibile distacco.

Che solennità!

Che mistero!

Che fascino!

Ma, anche, che delusione, per noi fan, ragazzetti di allora.

Solo a distanza di anni ho compreso come, da una parte l’orgoglio artistico di Lucio e dall’altra anche il gioco delle commistioni e contaminazioni culturali dell’epoca, propendessero e facessero sì che si potesse attuare un rituale che definisco totemico-misterico di quella portata e tipologia! 😊

L’arte creativa – polimorfa e, per certi versi, eterea – di Lucio, unita alle disposizioni attitudinali della cultura del tempo, rompeva profondamente – fino a lacerarle, facendole a brandelli – le regole cristallizzate dei conservatori, i loro dogmi e precetti; ne era al di sopra; era oltre; sublimava e travalicava i criteri e le attese della tradizione, li confondeva, li superava. Generava un nuovo alveo in cui la poesia e l’immaginazione dell’autore sovrastavano e subordinavano qualsiasi  possibile e predefinito criterio di scuola o accademia musicale.

L’artista creatore, l’artista a tutto tondo, diveniva divinità – di lì a pochi anni Edoardo Bennato avrebbe incensato/dissacrato sulla figura del Cantautore – a cui tutto era concesso, anche dirigere un’orchestra; e Lucio Battisti, novello demiurgo e deus ex machina, incarnava a pieno questo ruolo e questa figura. In tal modo anticipava in un sol colpo le tendenze della sua – ma non solo – evoluzione  musicale dei vent’anni successivi.

Il Genio non ha età, non ha tempo, non ha luogo, non ha regole accademiche da rispettare ed erompe – anche platealmente – contro e oltre i criteri dei dogmi, degli ordini e delle prescrizioni.

Ci manchi, Lucio: ci manchi! Grazie per averci donato i tuoi ritmi, le tue musiche, le tue intensità compositive, le tue rabbie, le tue voci strozzate, la tua espressività.

Ad Majora!

[Fabio Sommella, 28 gennaio 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)