La giocosa sperimentazione drammaturgica e giornalistica di una Nuova Romantica, ovvero Patrizia Palombi

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Molti di noi amano sperimentare, nella propria vita, nuove possibilità e percorsi, spesso al confine e in bilico tra ciò che si svolge per professione – il proprio lavoro , con cui ci si guadagna da vivere e con il quale, spesso, tante persone si identificano al punto quasi di far coincidere con esso la propria esistenza – e ciò che si svolge all’interno di altre attività non necessariamente professionali, nel senso che non sono ciò che ci permette di risolvere le problematiche economiche, ma neanche (miseramente, dal mio punto di vista) hobbistiche, termine (hobby) che, personalmente, mi ha sempre suscitato noia e nausea (come se la vita fosse solo una netta distinzione tra lavoro e hobby piuttosto che un continuum di attività, spesso per fortuna anche creative, tali da arricchire la personalità tutta e influenzare positivamente anche la tradizionale sfera lavorativa.)

La sperimentazione può abbracciare àmbiti più o meno ampi, ma è senz’altro promotrice di effetti benefici sulla vita tutta della persona che la intraprende.  Tutto ciò è, a mio avviso, anche valido per Patrizia Palombi.

Conosco Patrizia da poco più di cinque anni. Romana, proveniente come molti di noi da una famiglia di estrazione sociale semplice e popolare, è cresciuta in un clima educativo rigoroso dove il liceo classico ha lasciato impronte umanistiche rilevanti, completate in seguito con una laurea triennale in teologia. Nondimeno, Patrizia è anche moglie e madre nonché energica professionista di un prestigioso ente pubblico economico a base associativa.

Tuttavia, nella vita, Patrizia non si rassegna a svolgere le proprie attività, di pensiero e di azione, unicamente nell’ambito professionale ma avverte, certo da anni, necessità di sperimentare sé stessa in altri molteplici settori. Così, la Nostra, da quando la conosco non ha mai smesso di fare altro.

Cosa?

Chi la conosce abbastanza bene conosce pure di sicuro il suo pseudonimo di Scrittora, ovvero di scrittore al femminile, termine vezzoso con cui Patrizia vorrebbe fondamentalmente prendersi gioco – da, qui, la giocosità del titolo – delle tante ovvietà dei canoni, come il definirsi – lei, che anche scrive narrativa – scrittrice.  È questo un primo principio di provocatrice originalità che semmai fa il paio con la denominazione, della sua piccola/grande comunità culturale che aderisce amorevolmente attorno a lei, di Nuovi Romantici. Quest’ultimo è il termine che di recente ha dato anche il nome a una collana editoriale da lei diretta, insieme all’amica e collega Grazia Di Stefano, all’interno di una piccola casa editrice: The New Romantics.

Ce ne sarebbe già abbastanza per dire “Wow!”. Ma, ovviamente, non finisce qui.

Non finisce qui in quanto Patrizia ama saggiare le altrui attitudini, artistiche e culturali nel senso più lato del temine, per definirne i profili, cercando di mostrarne le peculiarità, anche all’interno di palinsesti radio-televisivi-internet: infatti collabora, settimanalmente da anni, con testate giornalistico-radiofoniche, procacciando talvolta nuovi talenti o anche semplicemente mettendo in luce passioni e affinità, sempre nell’ottica dei Nuovi Romantici.

Ma non sono poche anche le sue sperimentazioni nella drammaturgia, pur piccola, e nel teatro, in collaborazione spesso con professionisti del settore con i quali – e qui sta, nella mia opinione, la rilevanza del suo approccio – vige un perenne interscambio di linfa vitale, di umori culturali e sentimenti umani. In questo scenario, a mia memoria mi sento di citare Dante e le donne tra passato e presente, rappresentato a Roma e in altri centri del Lazio, un primo essenziale cortometraggio estratto da un suo racconto, nonché le pur piccole pièce tenute al teatro Academy di Roma e, di recente, alla Biblioteca del Parco della Pineta Sacchetti a Roma.

In tutti questi àmbiti, Patrizia Palombi diviene sperimentatrice di un’anima collettiva che – probabilmente in un modo che deve ancora trovare la piena forza e disciplina per conformare la primordiale materia caotica in un cosmo compiutamente ordinato –  scandaglia i temi che si agitano nel suo campo d’azione e di conoscenza, siano questi le famiglie allargate originatesi da sorprendenti genitori emigrati in terra d’Africa o forme d’intolleranza razziale o donne mai cresciute che hanno subìto violenze psicologiche o ancora donne viceversa bullizzate in età giovanili.

Si affiancano, alle pièce, l’organizzazione di eventi culturali, siano questi sfilate di moda multietnica o i classici reading poetici o la conduzione di presentazioni di libri. Tutti sono, in modo medesimo, una perfetta amalgama dei vari elementi messi in scena, amalgama tale da rammentare – a me – l’approccio di un grande e compianto giornalista RAI, quel Gianni Minà che sapeva condire le proprie conduzioni di spettacoli in base a una miscellanea di umanità e cultura, di empatia e profondità, di sensibilità e spettacolarità.

Così è Patrizia Palombi, giocosa sperimentatrice drammaturgica e giornalistica di un Nuovo Romanticismo.

[Fabio Sommella, 09 marzo 2024]

Medley musicale in sottofondo: ROMANTICA, di Renato Rascel, e GIOCHI D’ACQUA, di Fabio Sommella, quest’ultima nelle DUE VERSIONI, la prima STRUMENTALE (piccola orchestra), la seconda in un estratto per CHITARRA E VOCI (Fabio Sommella e Rosanna Sabatini). Tutti gli arrangiamenti orchestrali e l’esecuzione alla chitarra sono del proprietario di questo sito.

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Ricordando Federico e Otto e ½

Trent’anni fa di oggi ci lasciava Federico Fellini, uno dei massimi registi della storia del cinema mondiale. Mi fa piacere commemorarlo con questo estratto dal mio libro Analisi semantica di quattro film (LULU, 2015, II edizione; I edizione Boopen del 2008), estratto relativo al regista e in particolare al suo massimo capolavoro Otto e ½.

Buona lettura.

[Fabio Sommella, 31 ottobre 2023]

1        Film 1: analisi[1] di Otto e ½ (1963) di Federico Fellini

Otto e ½ rappresenta in assoluto uno dei migliori film della cinematografia italiana e mondiale. Anche gli americani, che brillano per orgoglio nazionale cinematografico, circa dieci anni fa lo collocavano tra i primi dieci film della storia del cinema (al primo posto, forse sotto la spinta di un eccessivo spirito nazionale, mettevano Citizen Kane, da noi meglio conosciuto come Quarto potere, di Orson Welles). Ma non è per questo, certo, che lo abbiamo preso in considerazione nell’attuale contesto; vediamone meglio i motivi.

1.1       Filmografia felliniana

Riteniamo che, dopo questo film, il regista Federico Fellini avrebbe anche potuto smettere di fare cinema; ci sembra infatti che la totalità delle sue tematiche sia sostanzialmente già espressa,  in forma massima e compiuta, in questo film che, a nostro avviso, è la vetta dell’espressione artistica  felliniana. Ovvero: se non fosse stato per la pura e “semplice” necessità, culturale/biologica, di continuare a “fare film”, l’autore avrebbe anche potuto interrompere la sua attività in quanto siamo del parere che la sua missione, la “missione del suo inconscio”, si fosse già completamente compiuta con Otto e ½.

Dopo Otto e ½, l’autore supera tutte le inibizioni e le remore che lo ostacolano ad esprimersi liberamente e, ci sembra, rompe gli argini che contenevano gli elementi istintuali  e la fantasia della sua anima; ma, dopo Otto e ½, quasi pedissequamente, ripete, in forme senz’altro artisticamente minori, i contenuti di questo film.

Otto e ½ rappresenta il culmine ed il coagularsi di tutte le tematiche dell’autore le quali (come Kant in filosofia rappresenta il confluire di tutte le tendenze del settecento ed il dipartirsi di quelle dell’ottocento) si manifesteranno sostanzialmente, pur in forme artistiche differenti e comunque con risultati indubbiamente diversi, in tutta la sua successiva cinematografia.

La sua filmografia può riassumersi in 3 blocchi:

  • prima,
  • dopo
  • e ovviamente proprio nel mezzo, scolpito come effige di verità solenne su una lapide, Otto e ½.

Esaminiamo in rapida sequenza, assegnando loro dei verosimili e sintetici motti, i maggiori film del grande regista.

1.1.1      Prima

  • Lo sceicco bianco: sogno e disillusione delle luci del varietà.
  • I vitelloni: il realismo riminese trasfigurato dalla memoria;
  • La strada: crudezza, fantasia ed elemento magico;
  • Il bidone e Cabiria: miseria e riscatto morale;
  • La dolce vita: decadenza, anelito e impossibilità di una redenzione e, ancora, esercizio calligrafico e affresco introspettivo della città, sognata e vissuta.

1.1.2      Otto e ½

  • Il sogno e la realtà; la proiezione dell’anima.

1.1.3      Dopo

  • Satyricon: ancora la città, decadente e opulenta, l’umanità alla deriva, il suicidio dell’uomo giusto;
  • Roma: la città non più sognata ma ormai nota, comunque amata e odiata;
  • Amarcord: ancora la Rimini della giovinezza;
  • I clowns: ancora la fantasia del circo, con gli echi della polverosa strada e del carosello di Otto e ½;
  • Casanova: il barocchismo calligrafico per la descrizione di un eterno vitellone (a cui le donne restano sconosciute?);
  • La città delle donne: la ripresa dell’esplorazione del continente e del mistero femminili, nonché del sogno dell’harem;
  • E la nave va: l’incontro di opposti elementi psichici, la coscienza occidentale e l’esoterismo zingaresco;
  • Prova d’orchestra: la metafora e la riflessione sul conflitto di elementi (solo sociali?) opposti;
  • Ginger e Fred: ancora il mondo canuto, sbiadito e nostalgico dell’avanspettacolo, comunque parente del circo, ormai velato di patetismo davanti alla volgarità odierna e al potere della TV (almeno negli anni in cui Fellini concepì e diresse il suo film);
  • La voce della luna: il ritorno e l’accentuarsi del sogno, della saggezza trovata nella follia.

Come non osservare una simmetria, di tematiche ed ispirazioni, il cui asse è proprio rappresentato dal film di cui vogliamo analizzare i significati?

Scendiamo pertanto maggiormente nello specifico filmico.

1.2       Otto e ½ – La storia e i significati

È il racconto della presa di coscienza circa la dignità dell’esistenza e del dramma umano. Tale consapevolezza è raggiunta attraverso un penoso, lento e balbettante iter, simbolizzato prima da esperienze e atteggiamenti di fuga, infine dalla coraggiosa e ispirata decisione, da parte di un regista cinematografico in crisi di valori morali, di realizzare un film.

Guido Anselmi, 43 anni, è  un regista cinematografico di successo. Si trova in crisi, di valori e di significati, crisi somatizzata in uno stato di affaticamento fisico che lo porta in uno stabilimento termale della Toscana. Questo sarà il palcoscenico per le sue memorie, sogni, flussi di coscienza, fantasie, desideri, speranze.

Attorno a questo film, che egli deve a breve realizzare, attorno alla coscienza e all’inconscio di Guido, ruota un universo di personaggi, cinematografici e privati, ritratti con amore nelle loro nevrosi e nella loro insignificanza, come è insignificante, ai suoi occhi, (di Guido Anselmi) la sua vita, il suo film, la produzione e tutti gli altri aspetti e motivi reali ed esteriori.

Guido rievoca la sua infanzia, fondata su una rigida educazione cattolica. Tornano alla mente le immagini dei genitori, pregne di un antico decoro piccolo borghese. Vive la sua vita, scoordinata, in rapporti contrastanti e conflittuali: distratto, e lievemente turpe, quello con l’amante Carla, donna grossolana e commovente nel suo candore infantile; intenso, e destinato a non evolvere, quello con la colta ed elegante moglie Luisa, trasfigurata nell’immagine materna; anelato, e frutto della junghiana proiezione dell’anima, quello con la donna ideale, “la ragazza della sorgente”, “giovane e antica”; e poi tutte le donne sognate, desiderate ed amate, dalla madre alle nutrici dell’infanzia, dalla Saraghina alle attrici sul viale del tramonto, candidate per qualche ruolo nel suo film.

Oltre a questo peregrinare, della coscienza e della memoria, Guido è sottoposto alle pressioni del mondo pratico, del cinema: il produttore, gli aiuti e i costumisti, la critica.

Davanti a questa folla, che lo soverchia e lo opprime, Guido, a tratti, manifesta la sua incapacità di agire, paralizzato come è dalla paura, dalle ansie, dall’incapacità di scegliere. Alla lunga trova rifugio nella menzogna, nella fuga dalla realtà (Elogio della fuga, avrebbe detto circa venti anni dopo il biologo Henry Laborìt, alle cui teorie si sarebbe ispirato il regista francese Alain Resnais per il film Mon oncle d’Amerique) attuata verso tutti e verso le proprie responsabilità.

Guido trascina in tal modo la sua esistenza e, solo attraverso contrarietà, giunge al giorno di inizio delle riprese.

Proprio nel momento in cui Guido sta per mollare tutto, abbandonare il set-palcoscenico, facendo smantellare il set, ecco che, “mediata” dalla figura del clown Maurice (simbolo di impensate ma potenti risorse interiori), riemergono,   improvvise e misteriose, le energie positive e le fiducie, la felicità, la forza, la comprensione umana di se stesso e delle persone che costituiscono il suo universo: il film si farà!

“È una festa la vita: viviamola insieme!” proferisce finalmente Guido, al culmine di una profonda e vibrante riflessione d’amore, di una commovente  comprensione, senz’altro di natura “olistica“, verso tutta la folla di personaggi che ruota e si agita affannosa attorno a lui e che, prendendo in prestito il concetto dal fondatore della Psicologia Sociale  (Kurt Lewin), appartengono al suo “campo cognitivo”.

Il film “si farà”, pertanto: si inizia a girare e tutti, i personaggi, prendono parte ad un fantasmagorico carosello finale piroettando, attorno a Guido, sull’onda delle note, mai troppo rimpiante ed elogiate, de La Passerella, del maestro Nino Rota.

1.3       Per un’ulteriore analisi filmica: i Personaggi e la loro Simbologia

Per una possibile ulteriore analisi filmica, si propone una tabella riassuntiva delle associazioni individuate tra i personaggi e la “simbologia” riscontrata, in base alla lettura appena effettuata.

Tabella 1: Film 1 – Personaggi e Simbologia

Personaggio Simbologia
Guido, il regista la coscienza “debole”
La madre ed il padre le origini
Il produttore, Conocchia, Agostini, Nello Meniconi la realtà esterna
Il critico cinematografico la razionalità
Il cardinale la saggezza anelata
Il collegio dell’infanzia la censura, il “superego”
La Saraghina il mistero
Le nutrici ricordate il legame con la madre
Carla, l’amante la regressione
Luisa, la moglie la responsabilità
Rossella, l’amica di Luisa “il grillo parlante”; la coscienza “forte”
Maurice, il clown le risorse interiori
Claudia, “la ragazza della fonte” l’anima

[1] Prima redazione: 4 aprile 1993; revisione: 2007-2008.

[Fabio Sommella, estratto da Analisi semantica di quattro film, I edizione Boopen, 2008; II edizione LULU 2015]

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Gente per bene e gente per male, ovvero le magnifiche variazioni ritmiche di Lucio e Giulio forzate da una melodia variabile e irregolare

Per chi ha confidenza con la teoria musicale sa che, nella gran parte delle canzoni popolari (ma non solo), il tempo ritmico più comune è il 4/4, vale a dire che ciascuna misura è costituita da quattro tempi, o movimenti, che misurano ognuno 1/4, ovvero una semiminima. Strutture ritmiche molto diffuse sono ovviamente i tempi di 3/4 (tempo di “valzer”) o i tempi di 2/4 (tempo di “marcia) o, anche, i tempi composti di 12/8, 9/8 o 6/8, derivanti dai tre precedenti grazie a una piccola procedura (sostanzialmente di “frazionamento”) che però non stiamo qui a spiegare e per i quali si rimanda qui.

Fatto sta che, generalmente, a prescindere dal tempo ritmico prescelto dal compositore, il medesimo tempo – ad esempio il 4/4 – si mantiene costante per tutta la durata del brano, canzone o pezzo strumentale che sia.

Esistono delle eccezioni (forse molteplici). Ad esempio il Maestro Ennio Morricone nella partitura del tema centrale di C’era una volta il West, film di Sergio Leone, impiega inizialmente un tempo di 12/8 che tuttavia, in una misura specifica (la 9), viene trasformato in 15/8, ciò di certo in dipendenza dell’espressività melodico-ritmica che il compositore voleva conferire a una certa frase musicale.

Esempio di variazione ritmica, tempo della misura 9, nella partitura di C’era una volta il West di Ennio Morricone.

Un caso molto particolare – a mio avviso magnifico – di variazione ritmica è quella che adottò  Lucio Battisti per il suo brano Gente per bene e gente per male, presente nell’album Il mio canto, libero (1972).

Premesso che di questo brano non ho trovato partiture su internet, all’ascolto  risulta evidente come, da un impianto ritmico tradizionale, appunto di 4/4, alcune misure siano state modificate in 5/4 e, anche, in 6/4; ciò al fine di permettere frasi melodiche più lunghe di quanto consentito dalla struttura ritmica di 4/4.

Specifico che quello che segue non è un vero e proprio arrangiamento orchestrale (questo, semmai, sarà effettuato in futuro) bensì essenzialmente uno studio della partitura ritmico-melodica, legata alla struttura armonica sottostante, di Gente per bene gente per male.

Presento pertanto un paio di mie trascrizioni, più o meno approfondite, di questo brano, entrambe eseguite sulla base dell’ascolto del brano di Lucio. Oltre al pentagramma del tempo, che riporta come ausilio anche le sigle degli accordi, ho inserito il pentagramma della voce maschile, della voce femminile e dell’accompagnamento, armonico-ritmico,, di chitarra.

La struttura generale del brano la si può scaricare qui: Struttura armonica e ritmica di Gente per bene e gente per male

La prima trascrizione – ma, per quelli di palato più fine, consiglio di andare direttamente alla seconda trascrizione poco più avanti di qui, certo più approfondita e interessante – è solo musicale, ovvero priva della riga delle parole. La partitura da me trascritta è qui di seguito: Gente per bene e gente per male – trascrizione 1. L’audio MP3 è ascoltabile qui sotto:

Ecco, invece, la seconda trascrizione, come ho detto sopra “più approfondita e interessante”, un quasi arrangiamento, seppure strumentalmente essenziale : la partitura da me trascritta è Gente per bene e gente per male – trascrizione 2, L’audio MP3 è il seguente

A latere, va detto che la tonalità originale d’impianto del brano in SIM è stata da me trasposta in DOM, naturalmente mantenendo la coerenza delle successive variazioni armoniche.

Infine, ecco una sequenza di immagini (riprese da internet senza alcun fine di lucro), calzanti con lo spirito di questo brano di Battisti-Mogol, montate – insieme al testo della canzone – sulla musica da me riprodotta:

Cosa aggiungere? Che questo brano, come dico nel titolo di questo articolo, è davvero un bell’esempio delle magnifiche variazioni ritmiche – di Lucio Battisti e Giulio Rapetti Mogol, probabilmente coadiuvati allora (1972) da Gian Piero Reverberi – forzate da una melodia variabile e irregolare, dove il testo appunto metricamente irregolare vuole esprimere significati la cui forma, di volta in volta , non ricade in rigidi confini prestabiliti. La bellezza della musica è anche in questo: stravolgere le ovvietà!

Buona visione dei file allegati e buon ascolto.

[Fabio Sommella, 9-10 ottobre 2023]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Ricordando quel delicato artista che fu Francesco Nuti

Ieri, 12 giugno 2023, è venuto a mancare Francesco Nuti. Io sono stato un estimatore della sua arte, in particolare del suo film  Tutta colpa del paradiso. Come ho avuto già modo di commentare sui Social, considero questo film un autentico capolavoro di poesia e simbolismi che, di sbagliato, ha solo il titolo e la locandina, i quali traggono in inganno rispetto alla bellezza, garbo e delicatezza dell’opera.

Mi fa piacere quindi pubblicare, qui di seguito, qualche contributo su Francesco e la sua arte.

Il primo è un estratto dal mio libro Il cambio della guardia che, nello scenario dell’evoluzione della Commedia all’Italiana, tratta proprio la mia lettura di Tutta colpa del paradiso.

Il secondo è un bell’intervento, dettagliato e accorato, dell’antropologa e mediatrice culturale Adriana Migliucci all’interno della sua pagina Facebook, intervento che ha stimolato ulteriormente il mio interesse per Francesco e che, pertanto, mi permetto di divulgare a mia volta (spero Adriana non se ne abbia a male ma, conoscendola, penserei davvero di no!) Questo bel contributo è corredato anche di un ulteriore scambio fra me e Adriana.

Non mi resta, quindi, che augurare buona lettura a coloro che vorranno incontrare queste nostre analisi e testimonianze e, rivolgendomi a Francesco con la medesima delicatezza che ha contraddistinto la sua arte, dire “So Long, Francesco: che la terra ti sia lieve!”

Fabio Sommella scrive di Tutta colpa del paradiso

In precedenza si è già accennato a questo film del 1985. Esso reca la firma, oltre che dello stesso Francesco Nuti e di un giovane Giovanni Veronesi, anche di Vincenzo Cerami[1], già autore circa un decennio prima del famoso Un borghese piccolo piccolo, portato sullo schermo da Sordi e Monicelli. Sulla scorta di un sapiente soggetto e di una robusta sceneggiatura, questo film brilla tanto per la coerenza narrativa quanto per il sapiente impiego dei plurimi elementi sottostanti, tutti elementi ruotanti attorno al tema del viaggio alla ricerca di un figlio. Questo itinerario ha però origine da un claustrofobico incipit nel carcere e, attraverso alterne e anche molto ironiche vicende, conduce fino all’allegorica conclusione in vetta al Gran Paradiso. In tutto ciò si ritiene che l’apporto di Cerami sia fondamentale proprio in relazione all’affermazione dei plurimi elementi che, tutti insieme, vanno a costituire l’ampio e articolato preambolo del film.

Ma vediamoli con il dovuto ordine, questi elementi  plurimi!

L’inizio è nel citato carcere, assieme al, da principio, minaccioso compagno (un detenuto incarcerato per un feroce omicidio) di cella del protagonista Romeo Casamonica, interpretato dal medesimo Francesco Nuti (certamente nel suo periodo artistico più smagliante).

Giunge poi il commiato tra i due. Esso sarà di estrema amicizia, con il dono del poster di Fausto Coppi da parte di Romeo all’altro; quest’ultimo ricambierà con l’armonica a bocca, elemento in seguito simbolicamente pregno di vibrati e vibranti significati.

Segue una casa, antica abitazione (di cinque anni prima) non più ritrovata da Romeo: al suo posto ci sono palazzoni[2]. «Qui son passati gli americani», dirà a Romeo uno stravagante stralunato amico netturbino, incontrato nel quartiere, una landa suburbana che rimanda all’aspro e anonimo sapore d’un dormitorio pubblico.

Romeo, alla disperata ricerca di suo figlio Lorenzo  – da recuperare a dispetto di un suo presunto-simbolico crimine di rapina a mano armata[3] – che praticamente non aveva conosciuto, dovrà recuperare i suoi pochi oggetti personali. A tal fine scenderà in una sorta di post-moderni inferi, vale a dire i profondi sotterranei-scantinati dei suddetti palazzoni del quartiere dormitorio. Egli, come un novello Dante il cui tragitto è però capovolto, sarà provvisoriamente accompagnato da una donna-nana, anche lei sorta di Beatrice capovolta. Ma questa non giungerà alla meta con lui, poiché anch’essa teme quelle sordide profondità dove, infine, una schiera di loschi punk  apparentemente lo minacceranno, per poi in realtà lasciargli spazio e recuperare le sue poche e perdute cose, i propri affetti personali.

Ciò fatto e adempiuto, Romeo si recherà presso l’assistente sociale, una dura quanto convincentissima Laura Betti – ormai da tempo “orfana” di Pier Paolo Pasolini – la quale gli negherà la conoscenza del luogo adottivo dove vive adesso suo figlio Lorenzo. Ma ciò è poco male: Romeo è stato in prigione ed è ormai avvezzo alle durezze della vita. Così nottetempo, si introduce negli uffici dell’assistente sociale e, consultando i primi pur rudimentali personal computer, svelerà a sé stesso che il suo Lorenzo è stato adottato da una onesta e ligia famiglia che risiede in Val D’Aosta, sulle amene vette del Gran Paradiso.

Fin qui il preambolo/prologo del racconto, da cui il vero nucleo del film prende poi piede e si sviluppa secondo una forte e poetica quanto umoristica vena, lasciando spazio a plurimi significati, secondo la più nobile e matura Contemporaneità o Postmodernità, nonché naturalmente secondo una romantica vicenda amorosa. Questa avverrà quando Romeo/Nuti raggiungerà il rifugio del Gran Paradiso. Qui egli conoscerà l’affascinante Celeste, impersonata da Ornella Muti, madre adottiva di Lorenzo mentre Alessandro, impersonato da Roberto Alpi, padre adottivo del ragazzo, è un brillante ricercatore in etologia. La nuova famiglia risiede e vive, temporaneamente, sulle vette del Gran Paradiso in quanto il brillante etologo ricerca il “famigerato” stambecco bianco, rarissimo esemplare di una specie animale di cui ne nasce uno ogni cinquecento anni. Esso, lo stambecco bianco, proprio a causa di questa sua anomala e stravagante sembianza, viene bandito fin dalla nascita dal gruppo della sua specie.

La simbologia filmica, ben si comprende, è potente: l‘interscambio e il connubio, immediato, fra il protagonista Romeo e lo stambecco bianco saranno sempre più spinti in avanti e marcati fin quasi a confondersi e sovrapporsi con il prosieguo del racconto. Questo sarà naturalmente inframmezzato da tante gustose annotazioni, tra cui il ripetuto tormento del protagonista da parte di fastidiosi insetti volatili.

Il connubio Romeo/stambecco bianco si avrà poi al termine del racconto, dopo che Romeo, ormai persuaso della sua scelta, avrà rinunciato a “riprendersi” il figlio. Ciò avverrà dopo l’unica e irripetibile notte d’amore con Celeste, notte d’amore di “trasgressione” delle regole approvate dalla comunità, “trasgressione” che in base a un’antica leggenda locale è concessa solo per quella notte dell’anno, festa di fine estate. Sarà questo un episodio connotato dalle vibranti note dell’armonica a bocca di Romeo. Dopo tutto ciò, Romeo lascerà il figlio Lorenzo, sereno e inconsapevole, nella sua – per il ragazzo unica e originaria – magnifica famiglia adottiva.

In definitiva Romeo avrà stabilito con Lorenzo  “solo”  un’intensa e sincera amicizia. Successivamente a evocativi ed eroici echi – inerenti a memorie sportive circa Fausto Coppi, memorie dal sapore epico ed atavico riecheggianti certamente l’infanzia di Nuti stesso – solo Romeo, a dispetto di qualsiasi scientifica ricerca etologica, avvisterà lo stambecco bianco.

I due, Romeo e lo stambecco bianco, comunicheranno all’interno di una splendida sequenza alternata di empatiche inquadrature, laddove i due “volti” – dell’umano e del caprino – si confonderanno in un’unicità di sovrapposizioni ed espressioni: ciò a significare che, in realtà, la natura e l’amore per la vita non hanno confini o separazione nell’umano o nell’animale ma sono, più probabilmente, un eterno e scambievole gioco universale, una eterna ghirlanda brillante, come per altri versi si potrebbe leggere l’importante testo di Douglas Hofstadter[4]. È  questo scambievole gioco universale – paradisiaco –  che si deve saper cogliere con l’anima piuttosto che con la pura e sola razionalità.

L’apporto di questo film di Nuti, insieme a Cerami e a  Veronesi, al cambio della guardia, avvenuto nel grembo della “leggera” Commedia all’Italiana degli anni ’80, appare notevole e non si può trascurare. Emblematico trionfo della Contemporaneità postmoderna sarà infatti la sequenza di chiusura. Qui Romeo, avvistato lo stambecco bianco e avvenuto il connubio con lui, ormai definitivamente avviatosi sulla via del ritorno, la via di discesa dal Paradiso, si è appena staccato dal figlio e dai suoi genitori adottivi, lasciandoli tutti insieme, senza personali remore bensì serenamente,  alla loro vita indipendente e autonoma. È adesso che Romeo, per l’ennesima volta, viene aggredito dai fastidiosi insetti volatili che lo hanno già tormentato. Romeo – e qui si coglie tutta la genialità del meta-linguaggio di Nuti, Cerami e Veronesi – schiaccerà il fastidioso insetto volatile ma lo coglierà non in uno spazio intra-diegetico bensì extra-diegetico, vale a dire proprio sull’obiettivo della camera, da cui, noi spettatori, lo stiamo scrutando; ciò a meta-significare – in una superba coda extra-diegetica – che gli insetti, che hanno tormentato il protagonista in precedenti sequenze, eravamo noi stessi, noi spettatori che non eravamo in grado di approvare l‘operato esistenziale, così altruista e generoso,  del personaggio Romeo. È così che, concedendogli ampio e grande omaggio, il meta-linguaggio e l’extra-diegesi supportano la Contemporaneità postmoderna.

[1] Il quale ritroveremo anche in alcuni dei migliori frutti filmici di Roberto Benigni.

[2] Come, per altri versi nella realtà, nella più antica (vent’anni prima) celentaniana canzone Il ragazzo della via Gluck

[3] Crimine tutto sommato analogo ai simbolici delitti compiuti dal surreale Michele Apicella di Nanni Moretti in Bianca.

[4] Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, 1979.

[Fabio Sommella, Il cambio della guardia, pp. 145-150, Caosfera Editore, Vicenza 2017; Amazon 2019]

Adriana Migliucci scrive di Francesco Nuti

Tra i vari bellissimi strani lavori che ho fatto in ambito audiovisivo c’è stato anche quello di trascrivere al pc un po’ dell’autobiografia di Francesco Nuti mentre lui stesso me la raccontava/dettava andando indietro con i ricordi e dialogando al telefono con il fratello Giovanni. Era il 2005, una delle tante mattine in cui ero lì con lui, era proprio il giorno in cui faceva 50 anni e mi ricordo che gli portai delle pastarelle. Non credevo a me stessa, non poteva essere che ero proprio io lì davanti al mio idolo da adolescente con quella sua fossetta irresistibile sul mento e quegli occhi che non saprei definire, e lui che mi dettava alti e bassi della sua intensa vita fino a quell’anno prima di quella drammatica caduta in casa che gli ha cambiato la vita. Alti e bassi della sua vita, altissimi e bassissimi, tra film, amori, struggente affetto paterno e cose molto pesanti che mi dettava raccontando con una voce triste e tenera e che per me era davvero duro battere sulla tastiera e rileggerglielo quando mi chiedeva di tornarci su per correggere qualcosa o aggiungere altro.
Dei cinema in cui ho visto – e molto spesso rivisto – quasi tutti dei suoi film mi sa che purtroppo non c’è ne è rimasto nessuno aperto, di quella ragazza che ero stata nel buio di quelle sale con il suo volto a tutto schermo sicuramente mi porto dentro qualcosa, di quelle mattine con la sua vita tra le mie dita mi rimane una traccia indelebile di profonda sfaccettata umanità. Grazie alla vita che mi ha fatto sognare e ridere con i suoi film e che me l’ha fatto incontrare così intensamente!

 

Fabio Sommella –> Adriana Migliucci

Se tu non ci fossi, si avrebbe il dovere d’inventarti!!! 😅 Scherzi a parte, il ricordo di cui ci partecipi, ma soprattutto l’espressione dei tuoi stati d’animo a quell’esperienza, sono di una levità e sacralità umane molto rare davvero. Io, oltre ai film (in primis quel Paradiso, pure rarissimo come poeticità e simbolismo), credo di aver percepito Francesco in alcune interviste, sui giornali e in TV, nel corso degli aneddoti ufficiali in cui, come anche nelle sue migliori opere, emergeva il “non detto”, i silenzi, il “sottratto”. Uno degli elementi della sua poetica era l’oscurità, il notturno, espressione di un profondo senso di solitudine che s’incarnava nella cella d’un carcere o, all’opposto, nelle vette del Gran Paradiso, dove uno stambecco bianco – “Ne nasce uno ogni 500 anni’ – fa scorribande notturne, e infine si manifesta e si specchia in lui – due sguardi isomorfi che rispecchiano più profonde similitudini – a dispetto di ogni etologo e ricercatore di professione.

È la storia di un ragazzetto che nelle province toscane giocava al calcio, segnando molto, ma che poi fu offuscato da uno di un paese vicino, tal Paolo Rossi 🤣.
Storie di amore per la vita: sarebbe bello parlarne.
PS: ma il tuo dattiloscritto della biografia di Francesco, ha avuto un seguito? È stato pubblicato?

 

Adriana Migliucci –> Fabio Sommella 

Grazie di cuore per le tue parole su di me e concordo pienamente con quanto scrivi della sua arte e umanità. Tutta colpa del paradiso credo che sia un capolavoro assoluto e so che c’è quel film dietro alla scelta del nome di molti quarantenni-trentenni di oggi che si chiamano Lorenzo!

Quando ebbe l’incidente del 2006, ovviamente il suo progetto dell’auto biografia si bloccò e io non l’ho più potuto incontrare perdendo anche i contatti con chi me l’aveva fatto conoscere, ma sono molto contenta di aver scoperto proprio in questi due giorni che poi l’aveva ripreso scrivendola in fiorentino, pubblicata con Rizzoli ed è stata portata anche a teatro con le musiche del fratello. https://www.rizzolilibri.it/libri/sono-un-bravo-ragazzo/
Sono un bravo ragazzo - Rizzoli Libri
RIZZOLILIBRI.IT
Sono un bravo ragazzo – Rizzoli Libri

[Adriana Migliucci, Tra i vari bellissimi strani lavori che ho… – Adriana Migliucci | Facebook]

 

[A cura di Fabio Sommella, 13 giugno 2023]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Il luogo della libertà, ovvero il palcoscenico dei De Filippo

Eduardo Scarpetta con Luisa De Filippo e i loro figli Eduardo, Titina e Peppino.
Qui rido io, film del 2021 di Mario Martone, è un’intensa e acuta parabola umana e artistica (magnifica l’ambientazione, splendide la fotografia e le riprese, serrato e avvincente il ritmo narrativo scandito anche dal susseguirsi delle struggenti canzoni del repertorio storico partenopeo) della vita, pubblica e privata, del commediografo napoletano Eduardo Scsrpetta. Tuttavia il film – che si avvale di formidabili attori tra cui, ovviamente, brilla per istrionismo Tony Servillo nel ruolo del protagonista, padre-padrone d’una atipica famiglia allargata d’inizio secolo – è soprattutto un omaggio alle origini e alle emblematiche premesse, ancora umane e artistiche, di Eduardo De Filippo e dei suoi sorella e fratello Titina e Peppino. È la sottesa, implicita, dialettica fra i due Eduardo – Scarpetta senior e De Filippo – che fa vibrare le corde emotive e intellettuali di tutta la vicenda. L’analisi dei caratteri e gli intrecci esistenziali sono resi magistralmente da Martone ma l’acme di tutto il racconto filmico sta nel drammatico ausilio che il giovane Eduardo dà all’ancora piccolo Peppino quando quest’ultimo, disperato, vuole fuggire verso una non meglio anelata libertà. In quel frangente Eduardo blocca il fratellino indicandogli il palcoscenico e dicendogli: “Vuoi la libertà; è lì sopra, la nostra libertà!” In questa maniera Martone – riecheggiando nobili precedenti figure cinematografiche, che vanno dal padre di Fanny e Alexander di Bergman (che nel suo teatro trovava un luogo certo e riparatore rispetto alla convulsa vita quotidiana) al pianista sull’oceano di Baricco/Tornatore (che rifuggiva l’aperto mondo in luogo dello spazio conchiuso eppur in qualche modo infinito della tastiera del suo pianoforte) – lascia che la vicenda, pur intrigante di una comunque ordinaria saga famigliare d’inizio secolo, si apra alla leggenda, toccando le vette dell’elegia e del sublime. Il “vecchio”, incarnato in Scarpetta, ancora vincolato e ben saldo alle maschere se non di Pulcinella certo a quelle della sua creatura Felice Sciosciammocca, subordinato alle egide culturali dannunziane e crociane di cui, pur in modo diverso, era succube, lascia il posto e prelude al “nuovo”, incarnato nel giovanissimo Eduardo (di cui conosciamo la futura non subordinazione al pur grandissimo Pirandello). In quell’acme, attimo d’intenso soccorso dialogico fra i giovanissimi Eduardo e Peppino, Martone annuncia il futuro e restituisce, a noi spettatori, la profondità ma anche il sapore agro-dolce di quella che sarà parte della grande storia teatrale e dello spettacolo italiano, ma non solo, del ‘900.
[Fabio Sommella, 22 maggio 2023]

 

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Pretese barriere linguistiche vs contaminazioni culturali

Davvero perplesso, financo offeso, rifletto.

Ormai da tanto tempo – decenni? – non faccio distinzione “nazionale” tra la musica di Puccini e quella di Mozart, la canzone di De André o di Paul Simon, fra il cinema di Fellini o di Bergman, l’attorialità di Totò o di Chaplin… amandoli io tutti, indistintamente, come opere d’arte e produzioni del genio umano, dei figli di questo pianeta.

Viceversa penso, vedo, sento, avverto, percepisco… come, nella coscienza comune e pubblica, il dictat (!?) di quel tal attuale ministro di questo governo pesi al punto da impedire a tanti, pena millantate multe, di pronunciare – in maniera, ad esser generosi, davvero ridicola – termini anglofoni o d’altra lingua “non nazionale”, in nome di non so quale preteso desueto purismo linguistico e culturale, dimenticando – il ministro, il governo, nonché coloro che li hanno votati – che l’interculturalità (leggasi  L’instaurazione e il mantenimento di rapporti culturali come forme di dialogo, di confronto e di reciproco scambio di conoscenze tra paesi o istituzioni o movimenti diversi.) è insita nella vita e nel Mondo Futuro, al di là delle ridicole pretese barriere politiche, specie per chi ha formazione transdisciplinare, lavora con i computer, ha lavorato nell’IT, naviga su internet e studiando, anche l’antropologia culturale, si è sollevato dagli infimi provincialismi di cui è intrisa la loro mente.

Signor ministro, ha mai sentito parlare di Melting Pot?

Una risata vi seppellirà 🤣 

A riguardo, oltre alla simpatica locandina qui sotto (ma gli esempi sono naturalmente molteplici), si veda anche qui e qui.

#ApriteviAlleContaminazioniCulturali
#ApertiAlleContaminazioniCulturali
[Fabio Sommella, 21 maggio 2023]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Tra Attualità ed Eredità (Culturali): parallelismi nelle Memorie e Coscienze Collettive

In qualità di abbonato, io, a Repubblica Online, leggo la Prima Pagina, in NewsLetter, di Maurizio Molinari e – come da sempre mi accade fin da quando, allora poco più d’un ragazzino, leggevo il Messaggero che mio padre, alla sera, portava a casa – avverto un inevitabile capogiro di fronte alla varietà e all’imponenza, spesso funesta, delle notizie dell’attualità provenienti dal Mondo: “la svolta sull’invio dei carri armati per l’Ucraina”, con “il via libera definitivo della Camera italiana al decreto Ucraina” che “proroga al 31 dicembre 2023 la cessione da parte di Roma di materiali militari a Kiev”; “Il Bollettino degli scienziati atomici” secondo cui la “fine del mondo” è ora “ad appena 90 secondi dalla simbolica mezzanotte che indica il traguardo dei tempi”; la conferma dello “sciopero dei benzinai” per cui gli “impianti di rifornimento carburanti rimarranno per lo più chiusi – compresi i self service – per 48 ore consecutive”; la notizia che nei “giorni caldi della giustizia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella difende la magistratura finita nel mirino del ministro Carlo Nordio”; le “Acque agitate a Roma in Fratelli d’Italia“, per cui la “premier e leader commissaria la federazione cittadina scontrandosi con il suo vecchio mentore”; “la fenomenologia di Salvatore Baiardo”; il racconto de “l’Agnelli americano”, laddove – sottolinea il giornalista – “a vent’anni dalla sua morte, il ricordo di ‘Gianni’ – qui a New York nessuno lo chiama l’Avvocato – sia sempre vivo, affettuoso, nostalgico”; “le candidature per gli Oscar 2023” che “premiano il cinema delle grandi storie.”

Insomma: di fronte all’ampiezza e alla numerosità delle informazioni che ci sovrastano, la mente – il cervello? – non può che vacillare.

Sarà forse per questo che la mia mente, nella congerie di tali e tante notizie, imbocca una strada a latere, quasi in disparte, rifugiandosi – sorta di novello o perenne Elogio della Fuga di Henri Laborit – in una dimensione sovratemporale, di difesa.

Infatti il ventennale della morte di Giovanni Agnelli – il ricordo di ‘Gianni’, citato nella suddetta Prima Pagina – lascia affiorare nella mia memoria la dichiarazione in TV di un intervistato, presso il Lingotto di Torino, all’indomani del decesso dell’Avvocato; proprio in quell’occasione, qualcuno aveva sentenziato: “È morto l’ultimo Principe del Rinascimento!” Oggi non ritrovo la dichiarazione precisa ma solo qualcosa di similare, tra cui quanto riportato qui.

Altrove, viceversa e precisamente qui, trovo una decisa critica, indicata come erronea e fallace, a questa immagine “rinascimentale”, sorta di simbolico e contemporaneo AntiRinascimento.

Ma non è questo il punto, perché – stavolta senz’altro a ragione – mi viene subito in mente la dichiarazione di Nino Manfredi all’indomani della morte di Totò: “È morta l’ultima delle grandi maschere della commedia dell’arte”.

E allora penso a come e a quanto, il nostro comune sentire di persone della Modernità, o Post-Modernità, sia legato e agganciato strettamente – in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole, cullandone amorevolmente i criteri e i dettami comparativi – alle memorie storico-culturali: nei casi di Agnelli e Totò rispettivamente il Rinascimento, vero o presunto tale, e la Commedia dell’Arte, probabilmente più aderente alla comparazione proposta; ciò laddove le eredità, culturali, di queste fasi storiche, sebbene lontane e ultrasecolari, pur subliminalmente si dipanano nel tempo, continuandosi, perpetuandosi e giungendo fino alle nostre coscienze.

E infatti penso a quando personalmente, alcuni anni fa, ho ipotizzato un intimo – pur sotterraneo – nesso fra la rappresentazione della donna nella lirica due-trecentesca da una parte e, dall’altra, la rappresentazione della medesima in certa raffinata canzone d’autore.

Se gli esempi del parallelismo, vigente tra forme dell’attualità e forme artistico-culturali storiche, potrebbero essere ulteriori (ma ci fermiamo qui e le tralasciamo, almeno per ora 😊), va altresì rimarcato un semplice fatto: le nostre Coscienze Collettive, di moderni e/o post-moderni uomini del XX e del XXI, sono incontrovertibilmente e  intimamente connesse alle nostre Memorie Collettive Culturali, le prime facendo uso continuo, consapevole o meno, delle seconde.

E questo – a dispetto di ogni capogiro e vacillar della mente di fronte alla varietà e all’imponenza delle notizie dal Mondo, spesso funeste e ignobili – mi fa star inspiegabilmente bene, in qualche modo e misura lenendo il cruccio, il dolore, la paura; relativizzandoli, forse!

[Fabio Sommella, 25 gennaio 2023]

 

BOROTALCO, ovvero l’elogio della finzione

La canzone popolare, come del resto anche il cinema e tutta l’arte in genere, nelle varie epoche è termometro e specchio della società e dei suoi umori. Nei ’70-’80 del XX secolo Renato Zero cantava “Meglio fingersi acrobati che sentirsi dei nani”, con ciò in qualche modo significando che, spesso, si poteva vivere solo nell’immaginazione, nella bugia candida come quella dei bambini, fingendosi appunto acrobati piuttosto che, crudamente, avvertirsi nella propria coscienza di nani inadatti alla realtà soverchiante.

Un analogo modo di avvertire era presente, quaranta (!) anni fa, anche in Borotalco, senza dubbio uno dei migliori film, diretti e interpretati da Carlo Verdone, che proprio allora faceva il suo ingresso nelle sale cinematografiche italiane.  Rivedendolo oggi, esso mantiene la freschezza e la leggerezza di quelle nuvole di lieve polvere profumata in grado di accarezzare e tonificare la nostra pelle.

Se di questo film ne ho parlato all’interno del mio libro Il cambio della guardia (già Caosfera 2018, poi Amazon 2019) – lì nell’ottica evolutiva della Commedia all’Italiana Classica che, negli anni ’70-’80, cede sempre più il posto a quella che, nel medesimo libro, ho viceversa definito Commedia della Contemporaneità o anche della Postmodernità -, osservandolo oggi da ulteriori angolazioni e punti di vista, senza dubbio emerge qualche altro aspetto degno di analisi semantica, nonché qualche altro richiamo e nesso con altre opere filmiche. Mi fa pertanto piacere illustrare, tutto ciò, qui di seguito.

Nel 1982 Carlo Verdone, reduce nei due anni precedenti da due prime prove autoriali, nonché attoriali “plurime” (per i numerosi ruoli da lui interpretati), con Borotalco si focalizza sul primo lungometraggio compiuto attorno a un unico personaggio interpretato. Da un punto di vista di potenziali nessi storici e filiazioni tematiche se il padre, o addirittura il nonno, di questo film è Il signor Max, 1937, di Mario Camerini, in cui si possono rintracciare evidenze d’ispirazione, il figlio o il nipote acquisito, pur con minori o meno probabili influenze culturali ma certo con analogie tematiche, potrebbe essere Birdman, 2014, di Alejandro González Iñárritu.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di focalizzare, appunto, anche i già citati altri aspetti degni di analisi di significato.

Borotalco, soggetto e sceneggiatura dello stesso Carlo Verdone e di Enrico Oldoini, può di fatto essere inquadrato come il racconto filmico di una geniale e appassionante tragica escalation, alla quale di tanto in tanto il protagonista cerca vanamente di mettere un freno, verso l’incontenibile finale, catarsi ed espiazione temporanea.  Parlando di catarsi viene naturale pensare a possibili colpe o limiti; se colpe o limiti, per i protagonisti del film, in qualche modo sussistono (come anche per tutti i protagonisti dei due precedenti film verdoniani, sorta di novelli verghiani Vinti), questi certo non sono propri dei personaggi, ovvero non appartengono ai singoli (nel caso specifico al protagonista Sergio Benvenuti/Carlo Verdone) bensì sono certamente transgenerazionali, sociali, interculturali, antropologici, sovratemporali. Il film, pertanto, tra le altre cose, forse a margine, è anche il racconto di come i protagonisti riescono a scrollarsi di dosso questi inconsapevoli limiti e colpe dalle istanze ataviche della loro natura umana.

 

Ma per adempiere a tutto ciò gli autori – Verdone e Oldoini – imbastiscono un filo centrale della vicenda sapientemente corroborato dall’impiego di antitetici archetipi maschili, o più semplicemente maschere, a cui nello specifico Mario Brega e Angelo Infanti conferiscono i loro peculiari volti e le loro indiscusse umanità: son questi due personaggi – il burbero, sanguigno e infine violento Augusto/Mario Brega e il sornione ed etereo nonché “contafrottole” Manuel Fantoni/Cuticchia Cesare/Angelo Infanti –  ad assumere il ruolo di autentici catalizzatori di tutta la vicenda, tali da preannunciare – sapendo leggerlo – le criticità del racconto, scandendone i tempi e facendolo decollare verso il sogno e l’immaginario, poi facendolo quasi approdare alla meta agognata, infine facendolo atterrare di nuovo nell’ignavia e nella delusione nonché nel dramma collettivo.

È solo nell’epilogo che i due protagonisti – Sergio Benvenuti/Carlo Verdone e Nadia Vandelli/Eleonora Giorgi – acquisiranno la coscienza che gli è propria: l’immaginazione al potere, se non nell’ottica sessantottina certo alla guida  delle loro esistenze, altrimenti labili e limitate, nelle altezze affettive come nelle capacità di fronteggiare la quotidianità.

Il binomio dei personaggi di Augusto/Brega e Manuel Fantoni/Infanti costituisce, quindi, l’asse portante del film, il fulcro attorno a cui ruota tutto il racconto, tale da essere supportato da questi due  opposti archetipi del maschile, modelli condizionanti e ispiranti la debole identità del protagonista Sergio Benvenuti/Carlo Verdone.

Vediamo meglio tutto ciò.

Nell’ottica di quanto appena affermato, possiamo dire che Borotalco, malgrado la leggerezza che gli è propria, è film “al maschile”. Ciò in quanto sono questi due personaggi – da una parte il padre/suocero, Augusto, realista tradizionalista nonché violento e, dall’altra, il maschio bugiardo “contafrottole” tenebroso e vissuto Manuel Fantoni – due modelli del maschile, due canoni antitetici, due polarità estreme che “lavorano” e “incombono” sulla debole coscienza del protagonista maschile Sergio Benvenuti/Verdone.

Va da sé che, in quanto modellizzazioni e archetipi, Augusto e Manuel Fantoni agiscono reciprocamente da lontano, ovvero non si incontrano e non interagiscono mai tra loro nell’ambito dell’intera vicenda, come una sorta di forze immanenti, o viceversa di spiriti trascendenti, comunque di energie opposte o maestri buoni e cattivi – diavolo e angelo – che ispirano e muovono la debole coscienza del protagonista principale, Sergio Benvenuti.

In tal senso il rapporto fra i due personaggi maschili Augusto/Brega e Manuel Fantoni/Infanti è, come ho già scritto ampiamente nel mio lavoro già citato, analogo a quello del binomio femminile tra Luciana/Sandrelli ed Elide/Ralli nel C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, film questo viceversa definibile al femminile, di soli otto anni precedente. Qui, infatti, l’asse portante del film – che fa muovere l’intero macchinario drammaturgico e con esso le vicende dei tre amici ex-partigiani – è proprio questo binomio tra le due protagoniste femminili, che è la modellizzazione delle antitetiche identità archetipiche femminili, pur in continua trasformazione nell’arco di tutta la vicenda. Anche in questo caso i due archetipi non s’incontrano mai in tutta la narrazione.

Ma, tornando a Borotalco, esso pertanto è film al maschile, laddove i modelli sono elementi d’ispirazione e/o attrazione – archetipi, appunto – per il protagonista e che, in quanto tali, non sono mai tenuti a interagire e tantomeno confliggere direttamente fra loro, semmai soltanto per opera del – e attraverso il – protagonista. Come già detto, in Borotalco la catarsi, che precede l’epilogo, è tale da far cessare l’escalation e far infine approdare i due protagonisti Sergio/Nadia, ovvero Verdone/Giorgi, nella loro piena coscienza della finzione, stavolta finalmente in modo autonomo e per libera scelta. La dimensione fantasiosa è la dimensione immaginativa/creativa che si concretizza come l’unica in cui poter vivere, a dispetto delle loro realtà esistenziali, viceversa tarpanti e opprimenti per entrambi.

Se volessimo scendere ulteriormente nel dettagliò dei due modelli maschili, potremmo senz’altro notare che il negozio, attività commerciale ben avviata del suocero Augusto/Brega è modello opposto allo studio del finto architetto – “L’abito fa il monaco” – del tenebroso Manuel Fantoni/Infanti; essi sono da una parte la sostanza, dura e con i piedi in terra, dall’altra l’apparenza, con la testa in aria e fra le nuvole. In tal senso ribadiamo che Borotalco è anche epigono de Il signor Max e anticipatore di Birdman,

L’epilogo di Borotalco è emblematico: nella estrema periferia di una metropoli  deserta e spersonalizzante, caratterizzata da sterminati blocchi di cemento, opprimenti e tutti uguali, da scale e scalinate ritratte e contorte che si avviluppano su loro stesse, l’unica via di fuga è immaginare altre fantasiose originali irreali dimensioni personali, tornando alla finzione e, di lì (“E baciami, stupido!”), finalmente al bacio fra Sergio e Nadia.

Sembra così che anche Carlo Verdone, insieme al coautore Enrico Oldoini, abbia fatto validissima lezione dell’insegnamento contenuto in quel popolare canto di Renato Zero. che invitava a fingersi acrobati piuttosto che sentirsi dei nani.

A latere, per gli addetti ai lavori, va infine rimarcato come questo film di Carlo Verdone sia, tra le altre cose, una magnifica esemplificazione didattica del montaggio alternato: ciò avviene almeno in due momenti, precisamente nella sequenza iniziale e in una delle sequenze finali.

Nella sequenza iniziale, i due protagonisti, Sergio Benvenuti/Carlo Verdone e Nadia Vandelli/Eleonora Giorgi, sono mostrati, per contrasto di personalità e destino professionale, mentre si pettinano al mattino: lui che perde i capelli, lei con una chioma fluente.

Ancora, in una delle sequenze finali, i due protagonisti – Sergio e Nadia – sono sull’altare per sposarsi: la prima inquadratura è per Sergio, che guarda sorridente a destra dello schermo, e la seconda è per Nadia, che guarda pure sorridente alla sinistra dello schermo. Lo spettatore, in base ai criteri del “tradizionale e intuitivo” montaggio analitico – in primis il raccordo di sguardo – sarebbe – e di fatto è – portato a ritenere che, i due, si stiano sposando fra di loro. Ma poi le inquadrature più ampie, ancora alternate, successive rivelano che, Sergio e Nadia, si stanno sposando ciascuno con altri personaggi (i loro precedenti fidanzati.) È questo un ulteriore esempio di montaggio alternato realizzato con questi criteri proprio per ingannare, pur momentaneamente, lo spettatore circa gli esiti della vicenda narrata, salvo le altre citate sorprese finali che caratterizzano la forza e la bellezza di questo film.

[Fabio Sommella, 01 ottobre 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

I pirandelliani vecchi e giovani, tra romanzo e sceneggiato TV

In occasione del decesso di Irene Papas, avvenuto pochi giorni fa, la memoria mi è corsa automaticamente all’interprete dell’Ulisse televisivo, l’attore già jugoslavo Bekim Fehmiu. Ho iniziato quindi a esaminare alcune interpretazioni italiane di quest’ultimo: dalla celeberrima Odissea, della seconda metà dei ’60, alla commovente Ultima neve di primavera, dei primi ’70, fino a scoprire – è del 1979 – la trasposizione televisiva de I vecchi e i giovani, il famoso romanzo di Luigi Pirandello pubblicato in vari momenti e modalità attorno al 1910 (1909-1913).

Ho pertanto deciso di vedere, in una maratona TV di un’unica serata, le cinque puntate della trasposizione televisiva de I vecchi e i giovani, dopo aver acquistato su internet il cofanetto in due DVD.

Avevo letto il romanzo – di cui rammento condensasse sostanzialmente tutte le argomentazioni specificamente politiche del grande scrittore e commediografo siciliano (essendo le altre sue opere, seppure di valore universale, rivolte a un contesto decisamente più privato ed esistenziale) – in epoca giovanile, nei primi anni ’70, rimanendo allora fortemente colpito dalle vicende – per citare, qui, solo  i protagonisti verso i quali allora avevo avvertito un qualche feeling e maggiore empatia – di Roberto Auriti, di Aurelio Costa, di Lando Laurentano e di Mauro Mortara. Sono infatti questi i personaggi che, pur nelle loro parziali contraddizioni, mi apparivano – e, confermo, mi appaiono tuttora – decisamente i più nobili di tutta la saga; addirittura rammento che il personaggio del Mortara, l’anziano patriota che in sé serbava indelebili i segni e le connotazioni del garibaldino risorgimentale, lo citai nel tema dell’esame di diploma superiore.

I vecchi e i giovani è romanzo – nonché sceneggiato, pur se, dal romanzo, “liberamente tratto” – sociale fondato sulle antitesi di personalità, di carattere, di temperamento, di orientamenti esistenziali e politici – in una espressione sulle antitesi delle peculiarità e dei fattori umani – per molti versi analogo a molte altre opere letterarie, una per tutte il Guerra e Pace tolstoiano. In quanto tale, all’interno di una sontuosa galleria di tipologie umane, I vecchi e i giovani è vicenda emblematica che suggella gli eterni universali del Male e del Bene della Storia laddove, amaramente e anche verghianamente (tanto Pirandello è debitore al grande corregionale autore dei I Malavoglia e di Mastro Don Gesualdo), il primo trionfa sul secondo, lasciando annegare nei gorghi più disparati – di dimenticanza o morte o esilio – coloro che tentano di cambiare la rotta del proprio annunciato destino, proprio come in un novello Ciclo dei Vinti, ovvero all’interno di una rappresentazione pirandelliana che, nel 1909, ancora possiedeva fisionomie naturalistico-veristiche e che, nell’universo pirandelliano, solo successivamente assumerà i profili e consoliderà il dramma dell’uomo borghese.

La riduzione televisiva, densa di ellissi narrative, è produzione italo-francese del “tardo” periodo RAI, 1979, laddove il periodo d’oro degli sceneggiati RAI abbraccia tutti gli anni ’60, estendendosi a ritroso nella seconda metà ’50 e in avanti nella primissima metà ’70. Per la regia di Marco Leto, si avvale di uno stuolo di prestigiosi attori e bellissime attrici tra cui Stephanie Beacham, il felliniano Alan Cuny (La dolce vita), il leoniano Gabriele Ferzetti (C’era una volta il West), il grandissimo attore di teatro Glauco Mauri, reduce dal ruolo del padre nel morettiano Ecce bombo, il pur futuro morettiano Remo Remotti (Bianca et al.), lo scoliano Stefano Satta Flores (indimenticabile Nicola Palumbo di C’eravamo tanto amati) e il già citato Ulisse/Bekim Fehmiu.  Questa realizzazione televisiva mostra, qua e là, l’emergere degli elementi pirandelliani canonici: l’apparenza, la mutevolezza del volto, ecc., quasi a voler confermare il ruolo della poetica pirandelliana tradizionale anche in un ampio racconto pertinente il sociale e il politico. Tuttavia l’ampia rappresentazione, più che le tragedie storico-sociali, in modo coerente evidenzia il fallimento, diremmo a largo raggio, delle più genuine aspirazioni umane: l’utopistico socialismo di Roberto Auriti, il filantropismo imprenditoriale di Aurelio Costa, la desiderata coerenza dello spirito rivoluzionario di Lando Laurentano (figlio di principi collusi con il clero più reazionario), il nostalgico e riguardoso anelito risorgimentale di Mauro Mortara. Tutte queste sono connotazioni, autoriali ma anche culturali, destinate a deflagrare proprio come già avveniva nel suddetto verghiano Ciclo dei Vinti.

Sono proprio quei vecchi – i retrivi Flaminio Salvo e Ippolito Laurentano, il pur “illuminato” Cosmo Laurentano – e quei giovani – Lando e Aurelio, Dianella e Nicoletta, nonché l’ambiguo e mellifluo Ignazio Capolino, splendidamente reso da Stefano Satta Flores – a incarnare le sempiterne dialettiche dello spirito umano sospeso fra ieri e oggi, fra ignavia e coraggio, fra ricchezza e miseria, sopra lo sfondo delle lotte operaie e contadine di fine XIX secolo, fra Palermo e Roma, fra scandali di banche romane e rivolte di pezzenti nelle solfatare siciliane.

Non so dire bene quanto, il pur bel lavoro di trasposizione televisiva di Marco Leto, renda in effetti giustizia al romanzo di Pirandello (non rammento alla perfezione quest’ultimo che, spero, prima o poi, rileggerò), tuttavia decisamente questo sceneggiato, ancora oggi, dopo oltre quaranta anni, avvince e lascia pensare, nonché diverte come, spesso, avvincevano, lasciavano pensare e divertivano gli sceneggiati della Grande Stagione RAI.

[Fabio Sommella, 26 settembre 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Argomentando attorno a I luoghi del pensiero di Cesare Fornari

Coloro che leggono le pagine di questo sito/blog di certo sanno che capita sovente d’imbatterci in scritti che, oltre a esser generosi, posseggono una forza interiore che emoziona; è il caso anche del testo I luoghi del pensiero di Cesare Fornari che, unitamente a Rosanna Sabatini, oggi presentiamo qui nelle seguenti Parte 1 e Parte 2.

[Fabio Sommella, 21 agosto 2022]

 

Per leggere il testo completo de I luoghi del pensiero, autore Cesare Fornari, si può fare clic qui, su I luoghi del pensiero.

Parte 1: Quei rituali contadini nella memoria, ovvero “I luoghi del pensiero” cari a Cesare Fornari [di Fabio Sommella]

Chi è Cesare Fornari, autore de II luoghi del pensiero?

Come alcuni di noi, Cesare è una persona poliedrica ed eclettica; volendo brevemente sintetizzare, senza dubbi possiamo affermare: ingegnere, ex-insegnante di scuola superiore (matematica e sicurezza sono state le sue principali aree di lavoro), agronomo, ciclista, fisarmonicista, ballerino… e certo la lista potrebbe proseguire. Pertanto, per ulteriori dettagli, rimando il lettore al sito di Cesare Fornari e alla sua pagina FaceBook.

Ma, oltre a tutto ciò, Cesare è un generoso e schietto amico che ho avuto occasione di conoscere questi ultimi anni nell’area reatina del comune di Petrella Salto, precisamente a Borgo San Pietro. Questa località, come lo stesso Cesare sostiene nell’incipit – a mio avviso straordinario – del suo scritto, è una “piccola e povera zona del reatino” che, “da bambino, mi appariva immensa, praticamente il mondo per me era tutto lì; di Rieti avevo sentito parlare appena, forse qualche volta c’ero anche stato e mi era parso un luogo misterioso, strano, al limite del surreale. Roma e la luna, poi, erano per me la stessa cosa.

Il “praticamente il mondo per me era tutto lì” ha un evidente valore simbolico che trascende la singola individualità del caso specifico e riecheggia nobili precedenti; ad esempio: rammento che il grande scrittore e artista Vincenzo Cerami, mai troppo compianto, in un’intervista sul Messaggero ebbe a dire che, quando negli anni ’50 ai tempi delle scuole medie in quel di Ciampino (area metropolitana fra Roma e i Castelli Romani) lui, immigrato con la famiglia da una limitrofa regione attigua al Lazio, conobbe un docente di Lettere che si chiamava Pier Paolo Pasolini, fu allora che comprese che il Mondo aveva una Storia. E allora ci si chiede: quale significativa analogia con le memorie del nostro amico Cesare?

Ma tornando a I luoghi del pensiero, va osservato che un incipit così superbo potrebbe essere giustamente il preambolo di un lungo e fecondo racconto alla maniera di Cesare Pavese. Viceversa Cesare Fornari, almeno per il momento, si accontenta di ripercorrere alcune pregnanti fasi della sua infanzia attraversando una gustosa galleria di immagini, sequenze, suoni, odori, cerimoniali, come per esempio quando afferma “per me salire su un albero o camminare per terra era la stessa cosa“. Questi pittoreschi e caleidoscopici amarcord recano in loro l’inequivocabile sapore agrodolce – talvolta financo efferato – di una vita vissuta con occhi di bimbo perennemente curiosi.

Pertanto, invitandovi a leggere anche l’altrettanto vibrante intervento di Rosanna Sabatini qui di seguito nella Parte 2, incito il lettore a entrare ne I luoghi del pensiero di Cesare Fornari, immergendosi negli intensi ricordi di un animo sensibile, nobile e candido di quando Roma era percepita come la Luna e i romani come degli avventori talvolta invasori, teatranti plateali e patetici, nelle memorie dell’amico Cesare permeate dai rituali contadini scandenti i ritmi delle stagioni, sullo sfondo di una natura al contempo innocente e crudele,  memorie e rituali che – come accade per le genuine testimonianze accorate – acquisiscono la connotazione dell’universalità.

[Fabio Sommella, 21 agosto 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Per leggere il testo completo de I luoghi del pensiero, autore Cesare Fornari, fare clic su I luoghi del pensiero.

Parte 2: Chi è Cesare, mio cugino (Memories) [di Rosanna Sabatini]

Chi è Cesare? Mio cugino.

Un cugino speciale per la sua poliedricità ed eclettismo, come ha scritto Fabio Sommella; aggiungo: una specie di “folletto benevolo” che piacerebbe a ciascuno di noi incontrare nei boschi e comunque fuori dai centri abitati, di quei folletti di cui si parla nelle fiabe.

Che cosa abbiamo in comune oltre alle nostre madri, Gina e Iole, figlie di due fratelli? Molto più di quanto immaginassi, prima di leggere il suo scritto.

Intanto, a entrambi piace guardare il mondo che ci circonda “con gli occhi di un bambino” e Cesare ne dà ampia dimostrazione nel suo racconto. Poi, anche se sono nata a Roma, sento che non ho mai rinnegato le mie radici che affondano nel Cicolano, un lembo di terra dove gli antichi abitanti erano popoli fieri e combattivi che non si sono mai arresi ai romani e sono stati da loro sterminati.

E dei “romani” pure parla il racconto di Cesare, di quelli che sono stati costretti ad allontanarsi dal paese per motivi di lavoro dopo la costruzione della diga che ha dato origine al Lago del Salto.  Quei figli del Cicolano esuli tornavano periodicamente per “invadere” il paese – Borgo San Pietro – e spesso rinnegavano le loro origini, ostentando una certa superiorità economica e sociale rispetto ai “paesani”.

E ancora parla di suo nonno Cesare, lo zio di mia madre, che ricordo, quando alla fontana del paese andava con l’asino a raccogliere l’acqua insieme alla moglie Loreta e anche per i racconti di mia mamma bambina, quando, ad esempio, la salvò da una vipera che si era introdotta in casa.

Nel racconto di Cesare – che parla del nonno – ho rivisto mio nonno, Remigio, che come lui era uno stagnino ambulante che, però, andava in bicicletta di paese in paese e che svolgeva lo stesso tipo di vita di suo fratello, quando non lavorava.

Inoltre, quando Cesare scrive: “Spesso l’attendevo sulla porta e appena riconoscevo, da lontano, la sua inconfondibile figura correvo per andargli incontro con la speranza che mi avesse portato qualcosa, speranza che non andava mai delusa. Nelle sue tasche c’era puntualmente qualche mela o pera o, secondo la stagione, qualche nocciola, delle noci, delle fragole, delle fave ecc…”, ho rivisto il mio nonno paterno, Antonio, che lasciava per me sempre qualche grappolo d’uva appeso alle piante dopo la vendemmia.

Teneri e dolci ricordi che condivido con mio cugino. Così come condivido pure le tradizioni della tavola delle feste che mia madre seguiva a Roma come zia Loreta e zia Iole.

Infine, anch’io aspettavo con ansia le vacanze agostane per stare un po’ con Cesare, Carlo e Nadia. Spesso andavamo in un grande prato ai piedi di un castagneto poco fuori del paese – che oggi è stato trasformato in un rimessaggio per camper e roulotte – e passavamo mattinate indimenticabili a giocare. A quelle mattinate ho dedicato una delle mie poesie del libro Dal cuore e dall’anima (poesie del cassetto) – From heart and soul (poems of the drawer) della Casa Editrice Kimerik:

Musica

Musica soave,
capace di portare i miei pensieri
su ali d’argento… lontano!
I miei occhi guardano l’azzurro del cielo
e le acque di un lago,
scintillante ai raggi del sole.
Il cancello è aperto, come sempre,
quel cancello che chiudeva
l’accesso a quel prato,
Eden nei miei sogni di bambina.
E quel colle, degradante sul prato,
coperto di profumati castagni,
ricco di fragole e mirtilli,
di siepi di more e di arbusti,
è sempre lì ad aspettarmi.
Ora non vedo più
né il cielo, né il lago,
né il prato, né il colle,
né sento il profumo
dei castagni e delle fragole:
la musica è finita.

Per concludere, caro Cesare, mi hai fatto un grande regalo a voler condividere il tuo bellissimo racconto, perché mi hai dato emozioni che mi hanno fatto piangere e che hanno fatto bene al mio cuore.

Grazie!

Tua cugina, Rosanna [21 agosto 2022]

 

Per leggere il testo I luoghi del pensiero di Cesare Fornari, fare clic su I luoghi del pensiero.

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)