Sei

Sei lo specchio dei miei anni

accresciuto dalla sete per la vita.

[Fabio Sommella, 20 febbraio 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Amica mia

Ho voglia di parlar con te

della vita,

amica mia,

della sua inutilità

o del gran dono

che é.

 

Delle distese di mattine

fra le nebbie ancora fredde delle notti

e profumi di cappuccini e vaniglie,

delle notti insonni

a vegliare a una luce

fioca,

dei pomeriggi estivi

in calure senza senso e mare,

delle veglie da bambini

nelle notti di Natale.

 

Vorrei parlarti degli amori

giovanili e andati,

delle ferite,

non delle occasioni perse

ma degli occhi

della compagna di viaggio,

come il poeta sa

“il più bel paesaggio”.

 

Vorrei dirti delle disperazioni

quando – solo –

presso il malchiuso tavolino

in un pomeriggio assurdo

al dopopranzo

tra i fumi del vin rosso

senza capire

imprecavo ininterrottamente a malasorte

e pace non trovavo

se non in disperazione estrema

e in pianto,

cedendo ancor di più a disperazione

e a ira,

devastando me stesso

nel vuoto ancora.

 

Vorrei saperti dir della fiducia

in questa vita,

in questo mattino

fra queste strade

mosse dal traffico

e in questo sole,

che volti di palazzi

illumina,

come una speranza.

 

[Fabio Sommella, 24 gennaio 2020]

 

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Lo stupore della gioia – V03.3

Volti che ti piacciono. Li osservi, anonimi e seri, sconosciuti e compassati: gli occhi, inespressivi; le guance, distese prive d’emozioni, avulse di smorfie di riso o di pianto; le bocche, chiuse in un’assente attesa. Il rombo della metro, la voce, neutra e metallica che avvisa: “Prossima fermata …”.

Eppure ti piacciono, quei volti: non belli, hai deciso, semmai disarmonici, come un prato in periferia. Lamiere, baracche disarticolate tra pali d’elettricità, Scorcio di borgata, in lontananza, marca tempo con luce; poi una marrana scandisce un flusso allegorico. È un Tevere, un Danubio dei poveri; sono redivive improbabili care fresche e dolci acque, in cui nessuna pulzella bagnerebbe la propria beltà. Arquà, Avignone, Fontainebleau: reminiscenze recondite si affollano. E quegli occhi, come non perdersi in quegli occhi, come non perdersi nel più bel paesaggio della mente, in quelli della compagna di viaggio.

Un sobbalzo più brusco, sulla incerta pedana tra i vagoni; la ragazza asiatica tiene in mano il suo videogioco che emette ritmici trilli ostinati, tra le dita che si muovono veloci; la borsa vicina t’invade il fianco; persone in più flussi s’affollano in avanti e poi indietro.

Roma: pensi alla storia di una città trionfante e depressa, tra i volti che ti piacciono.

Eri lì, nell’aula delle medie, alla lezione d’inglese, leggendo dell’english way and style of life. La professoressa leggeva, o tu leggevi: tutti leggevate. Trafalgar Square: guardavi fuori, della vetrata: quelle belle finestre (eran belle?): la piazza sotto, con la rotonda, ti pareva la tua Trafalgar Square, la vostra Trafalgar Square. Il mondo gravitava intorno come quelle auto lungo la rotonda della piazza e in mezzo i giardinetti, che vedevi, che sapevi, che scrutavi pei vetri: alberi, fronde, panchine, ghiaia, sterrato, prato, fili d’erba la gente che si muove; la osservavi, la guardavi: corpi e volti che ti piacciono così come la vita; come la vita doveva essere: serena, misurata, compassata, equilibrata, senza corsa, scientifica, certa, sicura e moderna, poetica e luminosa, il cielo celeste che miravi oltre i vetri, dove piazza e città giravano come Londra.

Poi vi trasferirono: da quello splendido edificio, sul crocevia della piazza, al vecchio collegio, monumento retrostante la chiesa: maestosità, antichi spazi diroccati e semidistrutti.

Attenzione al piano superiore; non passate al centro del pavimento; camminate lungo i bordi, di lato vicino ai muri.

Salivate i quattro scalini della porta minuscola e vi ritrovavate nei corridoi che risuonavano di voci. Avevano messo i turni, alla media. La finestra della classe si affacciava sul campo più interno; mura alte, pure diroccate.

All’ora di Ginnastica o di Applicazioni, tutti nel cortile, a correre e a giocare a palla.

Le squadre!

Una volta il capitano ti ha scelto per primo (avevi fatto un magnifico goal di testa, l’altro giorno.).

E la scuola inglese?

Via.

Scomparsa.

Sparita nel gergo e nel gorgo pasoliniano, tra i fumi di sigarette e le gesta dei ripetenti.

“Professore, potiamo prendere …”

Ti scappò da ridere.

“Che ‘tte ridi, ah quattrò?”

Sapesti anni dopo della sua morte.

Il crollo dell’inglese, la tua Roma, tra i flutti delle marrane: caccia alle bisce e alle rane, con la fionda e i sassi: come quella dell’emigrato Renzo, dai Parioli alle praterie del Tiburtino; negli anni ’80 li avrebbe scandagliati, gli ultimi romani, come degli indiani in una riserva, stretti tra le mura del Verano e quelle dell’università.

La giostra in costruzione, nell’officina sotto casa; ragazzi che sanno la vita, amici diversi e sofferti.

Il lungo terrazzo: spaziare degli occhi, da San Pietro agli Albani: Castello, Marino, il Cavo Monte, Frascati.

Uno scorrer di auto, dopo il goal di Rivera, in attesa di Pele e Giggi Riva.

Dlen dlen, risuona la chitarra sotto le dita delle incerte accordature.

E il tuo braccio diventa chitarra, estensione di mano e di dita.

La lampada sulla scrivania, nella stanza in penombra, disegna la sagoma alla parete di fronte: gigante, nella nebbia e nel sogno, sui fianchi del colle, come il cugino di Cesare, tornato dai mari del sud; attenderà poi sei ore, nella pioggia, invocando la sua ballerina.

Come si può esser felici?

No, non cerco la felicità che non ho.

La provo.

La trovo.

La esperimento, la esperisco, ora e qui, adesso in questo momento e…

Me ne stupisco.

Me ne vergogno.

Come Giorgio, pudico e ramingo, seduto nell’auto, al mattino alle sei, fermo ai margini delle tangenziali del milanese hinterland.

Come si può esser felici?

Silenzioso solitario, mentre auto lontane rombano, egli sa del male del mondo eppur prova gioia, e se ne vergogna, candido come una collegiale che arrossisce al pensier d’un amore adombrato e lì fuori l’universo patisce: lo senti soffrire, arrancare, macchiarsi di sangue, levarsi al dolore, nella sua cognizione, subire il denaro, il lavoro gabella, la crisi, nell’eterne carenze del mondo.

I preti di Fellini, non ritrovano la strada e si perdono nella caccia alla Saraghina, lì, nei meandri tra le rovine della spiaggia, alla sera.

Le dita scorrono, veloci ed eleganti, duttili e armoniose, tra i tasti e le corde: gli accordi si formano e le melodie svaporano suadenti: ti muovi lungo le distese erbose di John Denver, le highway degli America, del wonderful world di Thiele e Armstrong evitando gli scoppi del Vietnam di Robin Williams; ora in quei segnali di vita, colti all’imbrunire nei cortili e attraverso i vetri delle case: rimandano alle celesti meccaniche dei poeti e dei filosofi, come la legge morale; ora è l’aria, densa e madida di sali e di odori di una città di mare, sospesa tra l’ieri e ‘l domani: Genova? Rimini? Napoli? Marsiglia? Rio?.

Ma come può essersi fondato tutto questo, essere sorto anche l’amore, appassionato, per Roma, per le serenate a Maria, per le fontane e i pini di Roma, quando Roma era vessata dai papi o dai romani?

Posso capire il nostalgico canto siderale di Pink Floyd ma, chiedo: come quella perennemente accorata serenata di notturni vicoli romaneschi? Come può esser la poesia, pur nella sofferenza?

La storia è una distesa, pressoché ininterrotta, di eventi luttuosi, dolorosi: morti violente, torture e storture, empi soprusi.

Pensa ai longobardi, o a Carlo Magno.

Oppure ai tiranni ateniesi; o agli spartani.

Si, va bene: Pericle, Augusto, Lorenzo …

Ma pensa ai micenei.

O ancora a Carlo V.

Pover’uomo: dopo il sacco, ancora qualche decennio e poi … il forzato, malinconico, mistico autoesilio spagnolo.

O a Clemente VIII, che al rogo mandò Giordano.

O al colto Urbano VIII, che non avrebbe rifiutato d’altrettanto far a Galileo.

Eppur si muove!

Eppur si muove l’ininterrotta radice della gioia.

Eppure, in questo corso di orrori, il vento soffia ancora, diceva l’altro poeta.

Grazie, meno male.

Pur meravigliandoti che in questo mare, in cui non sai se scoprirai quale sia la stella, ci sia sempre qualcuno che canta, facendo passar la tristezza alla barchetta, traballante e incerta, mal posta, nel mezzo del mare.

E la gioia poi sgorga e ti lascia stupito, in quegli accordi, in quei passaggi, morbidi, sulla tastiera; accompagna la garbata e pudica felicità di Giorgio, ai margini dell’autostrada dell’hinterland di Milano.

La festa da vivere, insieme lungo la passerella di Nino e di Federico, mentre i suoi preti ritornano di là del malchiuso portone e, oltre di esso infine, spicca il giallo dei limoni.

La ragazza asiatica depone il suo videogame; la borsa cessa di tormentare i tuoi fianchi.

Quei volti.

Che belli quei volti, anche inespressivi.

E quegli occhi infossati, anonimi, assenti ma profondi, sui vagoni del mondo.

Che dicono?

Voragini, amarezze, speranze, attese, stupore pel grappolo insperato d’improvvisa gioia rapita, razionalmente impossibile ma ch’eppur si muove viva.

Si muove nel collegio, nelle sue sale vuote, sui pavimenti incerti, lungo i corridoi scrostati; nella piazza lontana, notturna e deserta. Più in là, sparuto, il suono d’un menestrello canta “l’universo e la piazza”; nella Londra perduta e contro la negazione voluta da chi, nel rogo della dannazione, vorrebbe arder la vita.

[Fabio Sommella – 18-01-2014 (2019), estratto da Dal cosmo al caos II Edizione, Amazon, 2019, già 3° classificato tra gli inediti al II Premio Salvatore Quasimodo (2016-2017)]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Dialogo fra amici

  • Non ero io a suonare. La canzone cantava me. E mi perdevo tra le note. Diventavo quei suoni. Il mio cuore era un pentagramma non scritto. Era una partitura di suoni dell’anima. Non avevo orecchie per sentirla né occhi per leggerla. Solo dita per dipingerla. E voce per tesserla. Salendo verso le stelle. Planando verso il mare. Seguendo il flusso delle onde. Lasciandomi trasportare dal vento. Non esisteva più la realtà. Esisteva una sola fantasia. Quella unica lingua che intendono duri e puri di cuore: la Musica. Con i suoi versi, sentieri in cui si snodano le tortuose strade dei sentimenti verso marine selvagge o valli amene, fiorite di girasoli che volgono lo sguardo assente verso il nulla della notte. Non importa il significato: la Musica, con le sue note. Possono essere lunghe come l’attesa che ora sto vivendo. Brevi come quell’istante, che finalmente un giorno arriverà. Questa e solo questa era la Musica. La metafora della vita che fugge, attimo dopo attimo, come un accordo che si sussegue ad una modulazione che sposta d’un pianeta il volo nell’infinito. La distanza tra il primo vagito e l’afflato estremo, misurata dal dolore, corda che sentivo vibrare insieme ad altre tra cuore ed anima, quando ancora avevo un’anima. Lei, fortunata, è già partita. Si gode la solitudine di quella marina selvaggia. Il resto è qua. Muto. Solo. Lo sguardo oltre quel muro – alto – dove c’è solo il suono senza lunghezza del destino. Che attende. Lui sì, lo sa, che cosa.
  • Sai, amico, lo struggimento interiore della persona – per quanto meraviglioso, come nel tuo caso – dovrebbe sempre fare i conti con gli affetti esteriori che è riuscito a provocare, causare, generare, mettere in moto in questo mondo: non è solo l’afflato artistico manifesto che si estrinseca in una performance, per quanto vitale e coinvolgente nella propria totalità; ma è la vita più ampia, nella sua più estesa accezione e quotidianità, che ci dà valore, significato, riscatto, motivo di esserci, senso. Daniela, Simone, Ludovica, Paolo sono le principali emblematiche attestazioni dell’importanza della tua presenza – qui ed ora – come nel passato e, come di cuore mi auguro, anche per un lungo e fecondo futuro. Ma anche i tuoi tanti amici – anche queste righe e parole, “secche e storte come un ramo” – lo sono. Non rammaricarti, amico mio, per una performance in meno: i tuoi concerti e sinfonie sono in te e li rendi a noi noti in altra guisa, altrettanto se non ancor più splendida. Siine orgoglioso. Hanno il garbo e la levità della prima neve, silente ma immensa, avvolgente il paesaggio di mistero e luce, di bagliori e quiete, candido come un coacervo di esistenze, come l’origine dell’universo, come i suoi primi tre secondi. Che l’attesa sia ancora lunga e grata, caro amico. Ad majora.

[Massimo Moraldi, Fabio Sommella – 25 marzo 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

La Vita che eri

 

E andando incontro ai raggi

di questo soleggiato placido mattino

pensar a quanto ho amato

ed amo ognora

la Vita che eri.

 

[Fabio, 15 febbraio 2019]

 

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

É questa luce che


É questa luce che

filtrando dalle imposte e

rimbalzando alle

pareti e arredi ne

vivifica i colori e

comprender ti fa che

vita ancora c’é.

 

[Fabio, 14 febbraio 2019]

 

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Ancora sulle motivazioni e ragioni dello scrivere

 

Voglio trattare qui le motivazioni e le ragioni dello scrivere: riguardi ciò le  poesie, i racconti, i romanzi, la saggistica, sia essa critica letteraria o cinematografica, le composizoni musicali…

Se ho già trattato in forma critica anche questi aspetti nel mio Passaggi molteplici nel romanzo postmoderno: Bianciardi, Calvino, DeLillo, Eco, in particolare nelle pp. 33-40, argomentando su alcune interessanti tesi di autorevoli autori (per i riferimenti di base si veda qui) e in forma di fiction nel mio raccontino dialogico Perché scriviamo, presente su questo stesso sito, mi fa piacere tornare qui ancora in chiave critica per puntualizzare alcuni aspetti.

Vero: c’è troppo rumore. E non sempre – forse quasi mai – la mole di ciò che si scrive va di pari passo con la qualità. Anzi: spesso – specie  nell’alveo dei neoscrittori – la qualità è scarsa; mentre le pretese di riconoscimento sono alte. Spesso non si ha l’umiltà – non abbiamo l’umiltà –  di riconoscere che per pretendere si deve anche sapere; e per sapere si deve studiare, riflettere, elaborare, impegnarsi, affinarsi, esercitarsi… trovare nessi. Nessi transdisciplinari, trasversali, across. Pur mantenendo ovviamente – e ciò è davvero arduo – il senso della realtà.

Ma spesso vogliamo il risultato senza tutto ciò.

Oggi – grazie alle, o per colpa delle, nuove tecnologie e internet – scriviamo tutti; certamente molti; forse in troppi. Ciò a differenza di trenta-quaranta anni fa, quando la possibilità di scrivere, di diffondere i propri scritti, di giungere a una qualche pur marginale editoria, era sicuramente inferiore e limitatissima.

Tuttavia…

Mi sovviene (!?!) un parallelismo fra arte in genere ma più in particolare l’arte dello scrivere – o pretesa tale – e vita. Chi ha nozioni generali di biologia o ha dedicato parte del proprio tempo allo studio di questa, sa bene che la vita – con la sua varietà di forme e adattamenti –  attecchisce nei luoghi più impensati. Certo: la vita si basa sulla presenza di acqua, sulle molecole organiche o chimica del carbonio, generalmente richiede la presenza di ossigeno, ha un metabolismo guidato da enzimi, implica macromolecole quali acidi nucleici e proteine, ecc. ma – in definitiva –  forme di vita attecchiscono, si adattano, si diffondono, si sviluppano, si trasformano anche nei luoghi più inospitali e impervi del nostro pianeta.

E l’arte in generale, probabilmente, non è da meno. Può anch’essa sorprenderci sorgendo e sviluppandosi negli ambiti più inconsueti e inattesi. nelle aree di minor sviluppo e diffusione culturale. O – forse è meglio dire – di differente sviluppo culturale.

Ma, con il sudddetto parallelismo, possiamo spingerci oltre: parallelizzare l’arte – o sempre pretesa tale – e la bellezza. Anche quest’ultima può attecchire e svilupparsi nei luoghi più impensati. Come scriveva il Maestrone Francesco, nel suo Autogrill? “Bella d’una sua bellezza acerba / bionda senza averne aria / così triste come i fiori e l’erba / di scarpata ferroviaria…“.  Fiori ed erba di scarpata ferroviaria: tristi, – perché in luogo di abbandono – eppure di una bellezza estrema.

Il tanto – troppo – rumore che molesta e fa disdegnare gli aristocratici intelletti dovrebbe tener conto della meravigliosa chiosa del felliniano 8 ½. Fellini, Flaiano & Co., cosa fanno pronunciare al protagonista Guido Anslemi, quando egli sta per abbandonare il suo progetto artistico, che ritiene votato al completo fallimento, ma viceversa avverte un’inaspettata gioia che ha attecchito nella sua interiorità germogliare adesso, inondandolo di una meravigliosa quanto sorprendente felicità? “È una festa la vita: viviamola insieme!

Perché scrivere, se lo senti importante, è come bere o respirare.” [Da Perché scriviamo]

Vale anche – e soprattutto – per i denigratori del diffuso e capillare scrivere: sia esso poesia, narrativa, saggistica, musica… 😊

[Fabio Sommella. 15-16 dicembre 2018]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Discordanze e comprensione (verità, rivoluzione e tragico)

Quando parli con tuo figlio – studente di cinema – e scoprite delle discordanze reciproche sull’accezione di ‘postmoderno filmico’ – lui sulla base dei trattati canonici accademici, tu della tua visione trasversale multidisciplinare – e, seppure convenite che esistono molteplici viste e angolazioni (come in ogni ‘opera aperta’), lui ti dice [NdR: sue parole spontanee ma, si sa, i giovani sovente sbagliano nei loro giudizi] “vabbeh, papà, ma alcuni di questi autori e tutor quarantenni non hanno la cultura che hai tu”, capisci allora il perché di alcune (tante?) cose.
Capisci perché il tuo grande amore della vita non ci sia più; il perchè dei tuoi studi giovanili; il perché le tue professioni siano state quelle e non altre; il perché di tante delusioni; il perché di tante amicizie nei decenni; il perché dei tanti amori, antichi e recenti; il perché di tanti esiti.
Capisci perché sei persuaso che la veritá sia sempre rivoluzionaria ma debba sempre fare i conti – quasi sempre perdendo – con le nostre istanze tragiche.

[Roma, 29 novembre 2018]

Te e io per altri giorni – Estate 2015

 

Bene

E poi,
spontaneo e con stupore,
affiora alla coscienza il dire:
“Voglio bene alla vita!”

[13 novembre 2018]

Farewell’s Song – Video con orchestrazione virtuale

Tutto è perfettibile, certo: un’interpretazione attoriale, una performance musicale, una poesia, un romanzo, un testo critico… una musica, un arrangiamento, specie se per orchestra, seppure virtuale (ma la partitura, invero, non muta).

Nel seguente video – immagini di una vita in comune – il mio arrangiamento per orchestra del mio  brano Farewell’s Song (La Canzone dell’Addio).

Per avviare la riproduzione del video, fare clic qui sotto. Buon ascolto!  😊

Per chi fosse interessato – da vicino – alla partitura orchestrale, della soundtrack del video di cui sopra… eccola Farewell’s Song (La Canzone dell’Addio) – Orchestra!!!