Perché scriviamo

Antonio era seduto al computer. Federico entrò nella stanza. «Perché scriviamo?», domandò, dando un’amichevole pacca sulla spalla all’amico.

«Come?», chiese Antonio, distogliendo lo sguardo dal suo programma di videoscrittura.

«Si, mi stavo chiedendo perché mai scriviamo. Quale sia la molla che ci fa scrivere. La causa originaria.» L’amico l’osservava incuriosito. «Del resto era anche il tema che il docente trattava nell’ultima lezione del corso.»

«Interessante. E tu, cosa gli avevi detto?», disse Antonio.

«Nulla. Non ho detto nulla. Troppe persone che parlavano in modo che… mi pareva frammentario. Poi il discorso è scivolato, quasi subito, sulle vendite, sul successo.»

«Il Successo

«Si: proprio il “Successo”. Quello che, diceva Luciano Bianciardi, “è solo il participio passato del verbo succedere”»

«Già, me lo hai detto. Però…»

«Però niente», lo interruppe malamente Federico «Niente. Quello era Bianciardi, oltre cinquanta anni fa. E adesso, poco tempo fa, Giulio Ferroni, che ha detto?»

«Che ha detto?», chiese sornione Antonio, che sentiva dove l’amico volesse andare a parare.

«Ha detto che siamo postumi… e che c’è troppo rumore, troppa attività inutile, troppo chiasso. Romanzi, poesie, saggi… musiche, anche»

«Generi, aree diverse. Tu stesso ripeti che, “ognuna di queste, richiede registri linguistici, formali, molto differenti”.»

«Bravo.»

«Grazie, ma… allora?»

«Allora è tutto… tutto inutile. Dai, lo sai: tutto è già stato detto, scritto, composto, verseggiato, suonato.» Federico parlava mentre Antonio, adesso, lo guardava con un’aria interdetta. «Lo sappiamo bene, no? Dopo Omero, Dante, Shakespeare, Tolstoj… che altro serve scrivere?»

«Dopo Bach, Mozart e Beethoven, che altro serve comporre?»

«Già.»

«Hanno già detto tutto loro?», chiese smunto Antonio.

«Si, proprio così», replicò pronto Federico. «Cosa possiamo fare, noi, se non ripetere stancamente quanto quei grandi hanno già trattato?»

«Già. E allora è meglio che io esca dal programma di videoscrittura sul mio computer. Tanto… a che mi serve scrivere questo nuovo racconto?»

«Ecco, si, molto meglio», terminò Federico, che aveva proprio l’aria di chi volesse mettere una pietra tombale. Così Antonio chiuse il word processor e aprì il web browser. Cominciò a fare dei giri su internet. Federico prese a gironzolare per la stanza. Antonio non si accorse del suo sorriso, stavolta, mefistofelico. Stavano in silenzio.

Dopo qualche minuto Federico si avvicinò nuovamente all’amico. Questi staccò i suoi occhi dalle notizie d’attualità del sito di Repubblica e scrutò l’altro, dal basso in alto: vedeva che rideva. «Ma che c’hai?», domandò.

«Niente, mi fai ridere.»

«Si, questo l’ho capito, ma… perché?»

«Perché ti sei accontentato d’una risposta ovvia. La più banale.»

«Ah. E… quale sarebbe la risposta ovvia?»

«Che siccome tutto è stato detto, scritto, fatto… non vale la pena di scrivere altro

«Vabbeh, perché allora sei d’accordo che vale la pena di scrivere per… per qualche altro motivo?»

«Certo.»

Antonio si grattò la testa. Girò gli occhi per la stanza, spaziando lungo il soffitto. «Per provare a fare soldi?», disse poi.

«No, no… non questo. Equivarrebbe a cercare il successo, nell’accezione del povero Bianciardi.»

«Mi pari scemo, Federi’.»

«Si, forse lo sono. O meglio: non sono scemo, ma utopico

«Ah, ecco… eee… dove starebbe la tua utopia?»

«Nell’imperativo categorico di scrivere

«Imperativo categorico? Ma se hai appena detto di Ferroni…»

«Ma lui – giustamente – parla dal suo punto di vista, di ex docente universitario.»

«E il tuo, invece…», fece Antonio, iniziando ad avvertire una frenesia fastidiosa.

«Il mio invece se ne infischia del successo, se ne infischia delle vendite – tanto son giunto fino a questa età vivendo di altro – e se ne infischia del rumore, che posso fare io – o che può fare chi scrive – secondo Ferroni.»

«E invece di cosa t’importa?»

«M’importa di quello che scriveva James Hillman: “Scriviamo il libro che ci piacerebbe leggere.” E m’interessa quello che tu mi dicevi tempo fa: “Quando rileggo i miei scritti di qualche giorno prima, mi sembrano brutti, mi sembra che suonino male, che non funzionino.”»

«Ah, ecco: adesso vuoi dirmi che a te non è mai capitato?»

«No, no, per tanto tempo mi è capitato. Spessissimo.»

«Meno male: anche tu sei di questa Terra!»

«Si. In quei casi è come se mi nutrissi di un cibo che poi mi fa star male: ma il fatto che quel cibo vada migliorato non esclude la necessità di nutrirmi.»

«Quindi ti serve scrivere?»

«Certo. E, con l’esercizio, lo sto migliorando, quel cibo. Ho capito ad esempio che non posso abbinare la prosa ciceroniana – hai presente quante subordinate? È adatta alla saggistica! – alla narrativa creativa, ai suoi dialoghi: non ci azzeccano

«Registri letterari diversi.»

«Esatto. Oppure che non devo esagerare con il lirismo puro in inserti dialogici o anche descrittivi. Perlomeno non devo eccedere. Meglio se lo impiego nei monologhi interiori.»

«E adesso come va, con le riletture dei tuoi scritti? Ti sembrano ancora brutti? Che suonano male? Che non funzionano?», chiese Antonio.

«È da un po’ che mi capita sempre più… con minor frequenza. Sto imparando a nutrirmi meglio. Ed è questo che mi sembra davvero importante.» Antonio, a queste ultime parole dell’amico, aveva sgranato gli occhi. «Perché», continuò Federico, «non me ne può fregare di meno di vendere tante copie dei miei libri; di piacere obbligatoriamente a un largo pubblico. Però mi interessa che quello che scrivo, dopo un tempo X, quando lo rileggo non mi provochi rigetto, non mi appaia una sequenza di strafalcioni o frasi raffazzonate o impossibili. Bensì mi suoni come qualcosa che funziona e sia convincente, innanzitutto per me. Perché scrivere, se lo senti importante, è come bere o respirare. E questo, come recita quella pubblicità, non ha prezzo. È vita. Non lo baratti con nessuna vendita, con nessuna operazione di marketing, con nessuna persuasione occulta di un grande pubblico, addomesticato o meno.»

«È questa l’utopia?», disse Antonio.

«Si», rispose Federico volgendo lo sguardo verso un punto lontano, all’orizzonte, fuori dalla finestra.

«Qualcuno la chiama purezza. Qualcun altro boria

«A seconda dell’angolazione in cui ci collochiamo», chiosò Federico. L’amico gli strinse la mano. I due si guardarono un momento negli occhi, sorridendosi fraternamente. Poi Federico si voltò. Lentamente uscì dalla stanza mentre Antonio riavviava il suo programma di videoscrittura.

 

[Fabio Sommella, 10-12 giugno 2018, V05]

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