La stella

Cammino per il dedalo di viuzze vicino casa con il fine di adempiere ad alcune commissioni di fine anno. Non procedo di fretta ma sul marciapiede, proprio dinanzi a me, c’è una coppia di anziani che mi occlude il passo. Procedono ad andatura molto lenta: lui parzialmente arretrato; lei, certamente più vigile e vispa, lo traina quasi per il braccio, tenuto teso verso la moglie avanzata se non di mezzo metro certo per buoni trenta centimetri. Sono entrambi molto coperti, “imbacuccati” per il freddo, anche con cappelli di lana. Riesco, con una certa fatica e lentamente a passare, superandoli a sinistra, chiedendo un sommesso “permesso”. Ma quasi non si accorgono di me e, oltrepassandoli, avverto il canticchiare di lei: riesco così  a cogliere, carpendola involontariamente ma necessariamente, una sua garbata aria musicale, mista a delle splendide romantiche parole che fanno così: “… che brilli lassù …”.

Mi fermo quasi di soppiatto; cioè non mi fermo ma rallento decisamente e deliberatamente. Poi, essendomi già allontanato da loro, per riprendere il contatto con il cantare della signora, mi fermo dinanzi a una vetrina, fingendo di essere interessato al suo interno. Però mi rendo conto che, al di là del vetro, ci sono dei tavoli e delle persone sedute che stanno bevendo o mangiando, e mi sento involontariamente indiscreto: allora riprendo, con passo molto lento, stavolta, il mio incedere. I due, ignari della mia manovra e della mia attenzione a loro, mi stanno di nuovo vicini, sono alle mie spalle e adesso procedo lentamente anch’io. Si: la sua canzone, quella che la signora sta garbatamente cantando con un allegro e gentile falsetto, è un’aria antica che cantava anche mia madre: Stella d’argento. La rammento benissimo e, di colpo, il cuore mi si sgela, scaldandosi al suo interno. Quei due sono divenuti improvvisamente benevole presenze e non son più anonimi viandanti che riempiono le strade natalizie o di fine anno. Ho carpito, in quelle figure solo apparentemente anonime, dei brandelli di vita, di storia, personale, familiare, universale.

Giro l’angolo e procedo, ma non resisto: torno indietro e li osservo ancora. Sono fermi al semaforo, sempre in quella medesima postura: lui, con occhiali scuri e, probabilmente pressoché cieco, col braccio sinistro sotto il destro della moglie, sempre avanzata rispetto al marito di buoni trenta centimetri. Adesso il semaforo è scattato e procedono serenamente. Li guardo, ammirato e con una punta d’invidia, attraversare l’Appia Nuova e perdersi nell’ungarettiano gomitolo di strade, oltre, lungo la via che conduce al parco.

Riprendo il mio cammino, verso le mie commissioni e penso alla “stella”: anche Antonello Venditti, con un’aria melodica certo più moderna ma ugualmente romantica, tanti anni fa si era ispirato a una stella, auspicando che proteggesse “i nostri sogni dalla vita quotidiana”, salvandoli “dall’odio e dal dolore” nonché dal “potere”; e la stella di Venditti l’avevo ritrovata e assimilata a quella del tolstoiano  Pierre Bezuchov.

Alzo gli occhi al cielo: non si vedono le stelle, né comete, né altre; sicuramente a causa dell’illuminazione urbana ma certo anche per le mie difficoltà oculari. Tuttavia – sono certo – una stella – quella stella – dell’anziana signora, che trainava allegramente e teneramente il marito, o di mia madre o di Tolstoj e Pierre Bezuchov o di Venditti – o, la Tua, – brilla lassù, da qualche parte, pure se non riusciamo a vederla, pure se non si fa scorgere

M’incammino di nuovo, con rigenerate solerzia e fiducia, verso le mie commissioni di fine anno!

 

[Fabio, 29 dicembre 2016]

 

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

In sottofondo Stella d’argento (South of the Border1939 , Jimmy KennedyMichael Carr) eseguita alla chitarra classica  (Yamaha CG-TA, 24 gennaio 2022) dall’autore di questo scritto.

Roma e Mario Sista, tra immaginario e passione

Mario Sista, mentre esegue Roma passione mia; grazie a Rosanna Sabatini per la cortese condivisione della sua pagina FB.,

Venire a Roma, da città più o meno lontane, da sempre è un’usanza – un rito, un caso, una necessità – che si perpetua nel tempo e nella Storia. Lo facevano folle immemori nell’antichità, afferendo all’Urbe  da terre limitrofe, poi dalle province dell’Impero. In tempi più recenti lo han fatto molti altri ancora: dal viterbese, mia nonna materna, bambina nel ’10; da Napoli, mio nonno paterno, pochi anni dopo; quindi mio padre, bambino nel ’37; lo ha fatto Fellini, poco prima della Guerra. Poi le immigrazioni dei ’50, mentre le coscienze collettive rinascevano anche sulle onde dello spettacolo popolare, il cui immaginario – mediato da artisti formidabili come ad esempio Rascel o Totò o i Mostri Sacri della Commedia all’Italiana – spiccava il volo in favolose direzioni verticali. Così Roma diventava ulteriormente culla e madre di nuove comunità, di affetti e di fantasie: coloro che afferivano si contaminavano e s’inebriavano, oltre che delle bellezze classiche e barocche canoniche, di quella folclorica di Arrivederci Roma, di quella dei giovanotti di Poveri ma belli, degli scorci della mala dal volto umano dei Soliti ignoti, di quella sacra e profana de La dolce vita.

Di tutti questi – e certamente anche di altri – ingredienti, umori, sapori, humus, si è imbevuto anche il romano d’adozione Mario Sista, originario dell’avellinese, trasferitosi a Roma in epoca che personalmente non so con precisione, però che – nella   mia immaginazione – mi piace pensare sia stata quella dell’immediato dopoguerra, o al massimo nei primi ’50. Mi piace pensarlo entrare nell’Urbe come tanti personaggi della Storia, antica o recente, e lì decidere – avvertendo con certezza – che avrebbe instaurato lì la sua sede, lavorativa e affettiva, cullato fra le braccia e le gambe amorevoli di Mamma Roma, come Lui stesso ha detto in una delle Sue più belle canzoni, Roma passione mia, “seconda mamma” per Lui.

Io ho conosciuto solo negli ultimi due anni, Mario, sapendo che ha avuto una lunga e gloriosa carriera di Alta Sartoria, con committenti certo di pregio e altolocati. Tuttavia son riuscito ad apprezzarlo – credo   profondamente, pur nella brevità del tempo concessoci, proprio per una forma di empatia che Lui sapeva trasmettere – anche sulla scia di tutti gli elementi da me menzionati o lasciati intuire prima: la fantasia, la poesia, la musica, la creatività, l’istrionismo teatrale e molto altro ancora. Mi piace pertanto immaginare che anche Lui abbia respirato la medesima aria, abbia attinto alle medesime fonti, si sia nutrito delle medesime vivande culturali, in modo eguale a quelle modalità dette sopra, in una sorta di ennesimo convivio, pur inconsapevole, della nostra civiltà.

È questo che mi hai lasciato, caro Mario, anche nel breve tempo dei nostri incontri: un pezzo di cuore, fra echi di famiglia, storia e spettacolo; di questo te ne sarò sempre grato!

Fabio

Roma, 19 novembre 2020

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Sarebbe come se (l’utopia, nevvero?)

Vivere vorrei con te

all’indomani affinché

tu più non ti dolessi

e sempre uguale fossi

alla notte di ieri.

Sarebbe come se io e

te viaggiassimo insieme

non su di un aeroplano

ma treno, noi vedendo

il paesaggio mutare

continuativamente,

non con un netto salto

sconvolgente i tuoi ritmi e

a me, sai, inaspettato.

Tu saresti coerente

con quel che hai detto e fatto e’l

residuo perbenismo

non svilirebbe il viaggio

da noi così amato.

Se non più all’età nostra

ci rivoluzioniamo,

neanche condanniamo

noi, nell’utopia fidi

tuttor, nevvero amor?

 

[Fabio Sommella, 26-27 febbraio 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

E poi ti rendi conto

E poi ti rendi conto
che sarà la totalità dei ricordi:
abbracceranno l’esistenza tua e
le espressioni belle
di tutte le persone amate
– vecchie e nuove –
coaguleranno in un coacervo d’emozione.

Il tuo universo imploderà in una luce
e tornerai all’origine.

[Fabio, 23 dicembre 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Le tue mani, poesia di Claudio Marucci

Le tue mani
tutto iniziò li
da quando le ho strette a me
e messe sul mio cuore.

Le tue mani
le accarezzo
mentre ascolto le loro dolci parole.

Le nostre mani intrecciate
così forte
che nulla può dividerle.

Le nostre mani
se anche siamo lontani
non smetteranno mai di cercarsi.

[Claudio Marucci]

La Stanza di Servizio

Sommario

La stanza di servizio. 1

Prologo. 1

La stanza di servizio. 2

Intermezzo. 3

La stanza di servizio (Ripresa) 4

Epilogo. 5

 

 

La stanza di servizio

Prologo

Mi racconta che per lui è normale. È normale, quando s’innamora, divinizzare lei. Adorarla. Farla divenire oggetto di abnegazione, come faceva quel trito e scialbo personaggio del romanzo di Javier Marìas, una futile comparsa maschile di terz’ordine che la protagonista, fra le diverse figure maschili, incontra in una fase di disperazione e che accomiata dopo poco tempo.

Ma lui è tutt’altro che scialbo. È tutt’altro che trito, melensa figura di terz’ordine.

E non solo perché è mio amico.

Lui è Sturm und Drang. Tempesta e Impeto. È un ossianico pre-romantico. È il confidente di Ugo, che canta Alla Sera. È il passeggere di Friedrich, affacciato dalla roccia a picco sul baratro. È Annibale che passa le Alpi nel quadro di Turner: così sgomento e mai appagato verso l’infinità della Natura e del Cosmo.

Lui è un adepto del cenacolo stilnovista; potrebbe sedere con Dante e Guido, recitando Chi è questa che ven, che ogn’om la mira?

Dalla più tenera età è cresciuto in questo modo. Era così nella giovinezza e per tutti gli anni in cui c’è stata sua moglie. Mi dice che è un fatto culturale, ma io ne dubito. Già, perché lui non sa nulla dei fattori biologici, genetici. Ed io, pur sapendolo – ritenendolo? – non glielo ho mai voluto dire. Non gli ho mai voluto rivelare il mio convincimento: quello che fa dipendere questi suoi comportamenti – manie, no? – alla semplice, pura, deterministica biologia.

Perché sono i fattori genetici che determinano queste sue eccentriche manie di innamorarsi, appena stabilisce un legame per lui significativo. Le manie di vedere nella lei di turno una figura da adorare, totemica, da venerare. Da rendere sacra. Tanta letteratura – e musica, anche non banale o commerciale – è piena di questi elementi. Pavese, Petrarca, Leopardi, Tenco. Ma anche il Dante giovane. Personalità alternativamente romantiche e accidiose, pessimiste e profonde, ipersensibili e pesanti, vulnerabili ma immortali.

Ma erano, e sono, i fattori genetici – cromosomi, DNA – a determinare tutto questo, anche in loro. E nel mio amico. Come anche il – ridicolo, per molti – permanere sempre vicino all’oggetto del proprio amore, alla propria lei, per tutta una vita. O per quanto questa dura. Nel bene e nel male. Fino all’estremo momento. Nei secoli fedele, come i carabinieri della barzellette. Come Forrest Gump. Come Pippo.

È così: determinanti biologico-comportamentali. Le basi biologiche comportamento, per noi che le abbiamo studiate, no? Ecco cos’è quel suo amore, tanto divinizzato.

Così come pure – nella maggior parte dei casi – viceversa tanti uomini (ma, all’opposto, anche donne, è?) fuggono e abbandonano la propria lei alle prime avvisaglie di difficoltà, di problemi, di mali, all’approssimarsi della morte.

Io glielo vorrei dire, ma non ho mai avuto il coraggio, perché voglio bene a quel testone del mio amico. Lo conosco da sempre. Mi confida tutto. Di recente, poi, ha iniziato pure a scrivere, tanto che giorni fa mi ha chiesto: “Vuoi leggere il mio racconto?” “Certo”, gli ho risposto.

Così ho iniziato.

La stanza di servizio

Stava tornando indietro. Ma ora sapeva perché gli piacesse quel luogo. Era un misto d’area vacanziera e contadina. Adesso ne stava attraversando il corso; in realtà il viale, lo stradone che divide l’abitato, partendo dalla rotonda sul mare, fino alla strada provinciale. Zeppo di negozietti e ritrovi, sale giochi e ristorantini, un caffè-gelateria faceva bella mostra di sé con l’insegna Caffè del Viale. Così, mentre percorreva quest’ultimo tra la folla dei turisti e della gente del posto, un ragazzino grassoccio – era a torso nudo e scuro come il mogano – su una bicicletta chiedeva delle cose al nonno, che lo seguiva appena dietro. “Ti ho detto, lo facciamo dopo cena”, gli rispondeva quest’ultimo. E quelle due persone – il giovanissimo e l’anziano – in bicicletta gli evocavano qualcosa. Altri momenti. Altre immagini. Altre storie.

Ecco perché, gli piaceva quel luogo.

Allora prese a fantasticare. Immaginò quel ragazzino nella sua casa contadina, tipo quella che lui con i genitori prendevano in affitto a Fiumicino, nei primi ’60.

La loro era una casa plurifamiliare, con stanze da affittare. Con un giardino, ma non di quelli di lusso; con un orto, perimetrale, e con dei chioschi in legno, per unità famigliari. Poi con degli steccati. E un cancello comune cigolante. E sul retro le fontane, una o due di quelle antiche vasche per lavare il bucato, che se le aprivi facevano scrosciare una valanga di acqua, fresca e limpida.

Il ragazzino adesso stava lì, nella sua casa del ’60, insieme a lui. E insieme ai suoi amici di allora: Pietro, Anna, Franca. E insieme a suo fratello. Più in là c’erano i suoi genitori. E c’era suo nonno. Nonno Angelo.

Reminiscenze. E fantasie.

Quel ragazzino grassoccio in bici, senza maglia e abbronzatissimo, parlava col nonno ma anche con lui e con suo nonno Angelo. Era l’ultima estate di suo nonno.

Ecco perché gli piaceva quel luogo.

E adesso gli mancava, certo, nonno Angelo; ma nei decenni ci si era abituato, no? E adesso gli mancavano anche suo padre; e Aurora. Perché solo una manciata di anni fa – cinque? Sette? – erano lì, in quei luoghi; tanto che adesso, come già due anni fa, il figlio ci era voluto tornare.

Ma due anni fa, tutto sommato ancora a caldo, quelle mancanze – il padre e Aurora – erano ancora vere e proprie mancanze. Assenze incolmabili.

Ora, altri due anni dopo, erano divenuti anch’essi ricordi. Sì: reminiscenze, come quelle dei ’60. E suo nonno era quasi divenuto coetaneo con suo padre e Aurora.

Incredibile.

Adesso ne avvertiva la mancanza non nell’assenza a caldo, ma nel ricordo.

Adesso che Carla – come gli era cara, questa donna, incontrata da poco – cominciava a colmargli la vita, la vita che gli rimaneva.

Intermezzo

Mi raccontava di quella donna – Carla – che frequentava da appena un mese. Io lo invitavo a non correre ma lui – Sturm und Drang com’è (lo conosco troppo bene) – partiva con le sue fantasie. Come quando mi aveva detto di quella sera in auto.

Lei, sulla scia di frasi di lui – gran chiacchierone, é? – gli aveva carezzato il volto, sorridendogli con tenerezza. Poi si erano abbracciati e baciati. Mi diceva che non era la prima volta e che allora, poco dopo, lui aveva preso a carezzarle il seno. Così le aveva scostato la camicetta e tutto il resto, con le labbra baciandole i bei capezzoli. Quindi, ancora desideroso, aveva preso a carezzarle le gambe: mi diceva che erano splendide, sotto a quella gonna corta che aveva ammirato altre volte. Pertanto indugiò con le dita, procedendo verso il delicato indumento intimo che carezzò con brama e stupore sacro. Mi disse che le aveva chiesto aiuto per scostarlo senza esser brusco e che lei aveva silenziosamente acconsentito. A quel punto, mi disse ancora lui, gli si aprivano le porte del paradiso: cercando d’esser garbato, con un dito prese a far capolino in quel misterioso pertugio che avvertiva meravigliosamente umido della rugiada del mattino o del liquido dell’acquasantiera dell’infanzia. Dopo un po’, forse goffamente, si era però interrotto per baciare, egli stesso, il proprio dito intriso di quel bene della Natura. Mi disse che lei aveva sorriso, tenera e ammirata.

Quando il mio amico mi aveva raccontato tutto ciò, lo osservavo come in estasi. Io gli avevo detto che stare di nuovo con una donna produce quest’effetto ma lui mi aveva risposto seccato: “Non é semplicemente stare con una donna, ma stare con quella specifica donna, a cui, seppure la conosco solo da un mese, mi sono legato e affezionato per quanto ci siamo scambiati e abbiamo condiviso. Penso ai suoi racconti, alle sue emozioni, ai suoi dolori, ai suoi affetti, al suo riso, alle sue espressioni. Con un’altra non sarebbe stata la stessa cosa.”

Che belle parole, penso, anche se so che é un po’ fanfarone, il mio amico sempre sognatore e romantico.

La stanza di servizio (Ripresa)

Ma non dipendeva, tutto, solo da Carla: lui adesso aveva acquisito anche la coscienza della sua nuova malattia.

Il valore di quel parametro di laboratorio, che lo scorso anno era già oltre soglia; e adesso si era ulteriormente innalzato.

Quanto tempo gli restava? A lui, che due o tre anni fa avrebbe voluto morire appresso a sua moglie Aurora. E ora desiderava di nuovo vivere. Come gli aveva detto suo padre, fino ai novanta; per superarlo, a suo padre, che era giunto quasi a ottantanove, superando a sua volta suo nonno paterno che era giunto agli ottantotto.

“Vide le luci in mezzo al mare, pensò alle notti là, in America; ma eran solo le lampare e la bianca scia d’un elica”, gli suggeriva adesso – da quanti giorni? Da quando aveva avuto i risultati di quel parametro – l’amico Lucio. Le sue notti in America erano i decenni trascorsi. Quanti? Tanti, ormai, lo sapeva. Erano come tante stanze, in cui era passato, attraversandole – come nella sigla di Esplorando, quella trasmissione di tanti anni fa di Mino D’Amato –. E lui, d’accordo con Lucio, vedeva davvero la sua vita come la scia d’un elica. Del resto come già era stato, allora, per sua moglie; quando – insieme, perché lui era nei secoli fedele – avevano capito che ormai non c’era più niente da fare. Quando avevano compreso che Aurora non era più nelle stanze della vita ma ormai relegata in una stanza di servizio. Pur se tutti i medici, chirurghi e oncologi – financo gli infermieri e i terapisti del dolore, con tutta la loro medicina allopatica – si prodigavano dicendo di fare i massimi sforzi per guarirla. Mentre lui lo sapeva che sua moglie era in una stanza di servizio. Da cui non sarebbe più uscita.

Così adesso lui.

Dirlo a Carla?

Come?

Come dirle che sarebbe stato meglio si fosse trovato un altro amico, un altro compagno, un uomo magari meno affettuoso – certo – ma sano, che sarebbe potuto stare con lei i prossimi trent’anni, un uomo più longevo che non sarebbe stato costretto ad abbandonarla – suo malgrado – entro qualche tempo.

Ma “due occhi che ti guardano, così vicini e veri”, come quelli di Carla, “ti fan scordare le parole e confondono i pensieri”. Già perché, quando stavano vicini, anche gli occhi verdi e il visetto di lei lo emozionavano come se, lui, avesse trent’anni di meno.

Stava tornando indietro; percorreva quel viale di quel luogo che gli piaceva tanto. Gli piaceva quel misto di vacanziero e contadino.

Il viale in cui era cresciuto; divenuto ora una stanza di servizio.

Stava tornando indietro per entrare dallo specialista.

Doveva conoscere il proprio stato di salute.

Secondo la medicina.

La medicina allopatica.

Epilogo

Ma tutto questo è stato qualche tempo fa, quando il mio amico mi ha chiesto di leggere il suo racconto, che io – personalmente, confesso – non ho capito. È criptico. Scrive in modo criptico, il mio amico, nevvero? E poi, che storia è? Non è scientifica. Non ha un impianto classico, con strutture chiare e sicure, che si ripetono e supportano la narrazione. Quest’ultima deve essere supportata come fanno i blocchi di pietra che tengono su un anfiteatro. È vagamente romantica. Inutilmente romantica. Pure nostalgica, mi pare. Insomma, abbastanza ridicola. Cosa narra? Ci son tante cose. Troppe.

Ma neanche questo gli ho detto, al mio povero amico. Avrei voluto, per provare a capire, insieme, ma non ho fatto in tempo. Perché, la storia che ci ha narrato, non è mica di fiction. Non è inventata. No! E lui, una volta andato per davvero da quello specialista, da noi non è più tornato. Ovvero: è entrato lì dentro – in quella stanza di servizio – per essere ricoverato. Poi operato, dato che anche quel parametro di cui parlava nel racconto era vero. E il suo valore era elevato. Tanto.

Così si è – come dire? – davvero accomiatato, per sempre, da noi. Non so se da solo; cioè se quella donna – Carla? – gli sia stata vicina. Possiamo dubitarne?

Ma lui sarà stato comunque sereno, perché – in quel suo ostinato romanticismo – in questi ultimi anni mi aveva anche detto sempre che si sarebbe voluto ricongiungere alla moglie, alla sua Aurora.

Illuso, il mio povero amico. E questo non glielo avrei potuto dire.

Non sapeva che siamo il mezzo con cui i cromosomi e il DNA fanno – simulano di fare – cultura e poesia, talvolta anche arte, fingendo di cercare dei significati superiori, che travalicano la mera esistenza. E talvolta, grazie allo sviluppo dei lobi prefrontali e alle loro connessioni con i nuclei subcorticali e al sistema limbico, fanno finta – addirittura – che siamo in grado d’innamorarci. Restando fedeli. Per tutta una vita.

Roba da ridere.

Infatti gli altri famigliari mi han detto che, mentre chiudeva gli occhi, stesse sorridendo.

FINE

[Fabio Sommella, agosto 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

 

Coscienza

Questa labile coscienza
– che non so se
qualche forma d’anima rifletta –
mi porta a dire ognor
– nel mio pensier –
ti amo!

[Fabio, 21 maggio 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

C’era una volta il mio West – V02

Qui sotto, c’è l’arrangiamento alla chitarra acustica amplificata MATON EBG808TE di un gran tema filmico – C’era una volta il West, per cui porgo un sentito ringraziamento all’autore, il Maestro Ennio Morricone -. L’ho preso come soundtrack dell’onda dei miei affetti, montati all’interno di un video.  Il tutto, naturalmente, senza alcun fine di lucro ma – serve dirlo? – solo per amore.

 

[Fabio, 16 maggio 2019]

Quando l’amore trasforma

Un gustoso, garbato, umoristico e assennato ritratto di una trasformazione: quella pertinente all’«uomo che non deve chiedere mai». Tutto scritto in una intrigante prima persona, se le vicende iniziali del protagonista nascono, salgono crescendo fino a risultare – volutamente – ossessive e financo stucchevoli, quelle successive interrompono al momento giusto le prime per dare spazio a un riemergente senso di umanità e tenerezza, a un’arguzia e a un’autoironica introspezione che allargano l’orizzonte e la scena liberandoli da quella claustrofobia che stringevano nell’asfissia il lettore nei primi capitoli. L’eco del racconto filmico Quando eravamo repressi, 1992, di Pino Quartullo sovviene inevitabile al lettore che ha amato quel tipo di agrodolce ironia sulle ferite auto-inferte ai sentimenti. Complimenti a Sam Stoner – che certamente non ha bisogno di quelli di chi scrive queste righe – per una splendida prova d’autore, sempre in bilico fra buongusto e ricerca dell’effetto dissacrante di un certo tipo di costume, diversa da quella pure magistrale di “Elvis Rosso Sangue”, nella quale però gli eccessi splatter e le tinte forti erano – anche qui, volutamente – estremi fino al parossismo. Pur sfondando una porta aperta, piace ribadire che Sam Stoner è indubbiamente equipaggiato delle necessarie doti narrative e stilistiche tanto per i noir e thriller che per gli arguti e brillanti ritratti psico-culturali di genere. Da leggere, irritandosi nelle prime pagine, intenerendosi nelle ultime. 😊

Vetrina:  https://www.amazon.it/Lamore-questo-bastardo-Sam-Stoner-ebook/dp/B00RGYDX8Y

Posted anche su FB al link https://www.facebook.com/PierreBezuchov0 in data 04APR2019

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

L’amore come psicopatologia secondo il professor Desmond Avenarius

Come sospeso tra una dimensione espressamente scientifica e una, viceversa, manifestamente umoristica – riecheggiante, sul primo versante, il Musicofilia di Oliver Sacks mentre, sul secondo, (qualcuno lo ricorderà?) il Carugati di Gino Bramieri (!?!) – Amore e altre psicopatologie (Desmond Avenarius, editore Graphofeel, 2018) si presenta come una simpatica prova d’autore di genere narrativo-saggistico-comico-grottesco. L’epigrafe di premessa, ripresa da Arthur Schopenhauer e riferita all’amore inappagato per Laura da parte di Francesco Petrarca, già annuncia l’impianto eminentemente biologistico-naturalistico che sorregge l’intera opera, a discapito di qualsiasi possibile sovrastruttura astratta e metafisica.

La prima e più voluminosa parte si articola in una serrata sequela di fantasiosi e gustosi casi clinici. Tema: la psicopatologia dell’amore. Ma in tutto il libro, all’interno di una folta galleria di annotazioni aneddotiche, se ne riconoscono e memorizzano alcune davvero esilaranti: il Giannino alias Lupo e la Pina alias Cappuccetto Rosso; l’acquisita maturità sessuale d’un protagonista in concomitanza della storica Italia-Germania 4 a 3 del ‘70; il “Sesso con piacere” della tribù amazzonica degli Zanduka (?!?!), per molti versi riecheggiante da una parte il “Sesso senza amore” di un’altra tribù, quella televisiva di Dandini/Guzzanti di qualche anno fa, dall’altra il Bunga Bunga di un premier, pure di qualche anno fa.

È in questo modo che prendono corpo una serie di storie, vicende, immagini dense e ricche di colore, iperboliche, paradossali, anche surreali. La galleria umana, spesso goliardicamente estrema, non escludente pur lontani echi boccacciani-boccacceschi del filone commedia filmica italiana ’60-‘70, talvolta volutamente financo mandrillesca, non oltrepassa mai i limiti del buon gusto. Il lettore risponde al simpatico strizzar d’occhio degli autori e viene sapientemente condotto fra tragiche disavventure di traumi affettivo-amorosi e galanti avventure sentimentali. Tutti gli avvenimenti iniziali degenerano inevitabilmente in dolori dell’anima; ma, proprio grazie al professor Desmond Avenarius, tutto viene sempre risolto, puntualmente. Altrimenti non ci sarebbe necessità del suo intervento, analogamente a quanto avviene nella fiction Don Matteo, in cui è richiesta la redenzione, altrimenti non ci sarebbe necessità del sagace ed evergreen sacerdote. Pertanto, anche qui, avviene sempre la guarigione dei pazienti, tanto di quelli cronicizzati, quanto di quelli vittime delle fasi acute della psicopatologia denominata Amore.

Le mirabolanti vicissitudini, ovviamente, vogliono essere e sono l’autentico punto di attrazione del libro in cui. all’interno di una dimensione narrativa affabulatorio-fantapsicologica, si concede largo spazio all’ironia e alla satira dei costumi umani. Ma l’epicentro e fil rouge, il punto di inevitabile arrivo, è il meta-magico-scientistico elettroerototropion. Quest’ultimo strumento centrale, sorta di black box (della sua costituzione ne viene fornita una sommaria descrizione in Appendice), dati degli elementi in ingresso (la psiche del paziente), è in grado di discernere e chiarire le cause dei dolori dell’anima, generando di volta in volta in uscita delle risposte diagnostico-terapeutiche. Queste sono inequivocabili, fondantisi sulla scienza dell’erototropiologia umana applicata, disciplina appunto fondata dal professor Desmond Avenarius di Trockenerhugell. Il lettore medio, erroneamente, potrebbe ritenere questa disciplina in qualche misura imparentata con la tropologia, ma certo in merito il prof. Desmond Avenarius sarà in disaccordo.

Nell’Appendice, infine, sono ricostituite, con indubbia verosimiglianza parascientifica, le basi teoriche che fanno da supporto alle dottrine del professor Avenarius: attraversando canoni e criteri di psicologia dell’inconscio, modelli antropologici ed etologici, criteri estetici di narratologia con finalità “biblioterapeutiche”, il lettore viene guidato a esplorare i capisaldi della erototropiologia. In particolare, toccando l’area della biblioterapia, viene adombrata l’ampia questione pertinente tanto alle modalità di fruizione delle storie raccontate quanto, ancor più importante, allo scrivere storie. È qui che, con un furore alla Savonarola, il professor Desmond Avenarius – o chi per lui – si scaglia e prende posizione in merito al proibire alcune storie, almeno in certe modalità (“libri che secondo me dovrebbero essere condannati alle fiamme senza pensarci un attimo”).

In ogni caso la fascinazione è assicurata, perché i capisaldi dell’erototropiologia umana applicata, partoriti dalla feconda mente dell’illustre neuroscienziato, al di là della dimensione finzionale saggistico-narrativa, divengono mete ideali e approcci di vita, richiamando – ancora una volta, perché no? – una rediviva Età dell’Oro (vagheggiata quasi sessanta anni fa anche da Luciano Bianciardi in chiusura della sua Vita agra), il desiderio di ritornare a uno stato di natura virginale che – superfluo dirlo – è perduto alle nostre latitudini e nella nostra civiltà. Luogo comune? Forse. Ma il lettore chiude il libro persuaso di trovarsi di fronte a un nuovo dominio di conoscenze sulla natura e psiche umana in cui la buona narrativa e narratologia assurgono a fondamenti. Chissà se l’erototropiologia sia il connubio di biblioterapia e musicoterapia medesime? In ogni caso non si può fare a meno di tessere simpaticamente le lodi del professor Desmond Avenarius e dei suoi fedeli collaboratori Dario Amadei ed Elena Sbaraglia.

[Fabio Sommella, 27 marzo 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)