La Stanza di Servizio

Sommario

La stanza di servizio. 1

Prologo. 1

La stanza di servizio. 2

Intermezzo. 3

La stanza di servizio (Ripresa) 4

Epilogo. 5

 

 

La stanza di servizio

Prologo

Mi racconta che per lui è normale. È normale, quando s’innamora, divinizzare lei. Adorarla. Farla divenire oggetto di abnegazione, come faceva quel trito e scialbo personaggio del romanzo di Javier Marìas, una futile comparsa maschile di terz’ordine che la protagonista, fra le diverse figure maschili, incontra in una fase di disperazione e che accomiata dopo poco tempo.

Ma lui è tutt’altro che scialbo. È tutt’altro che trito, melensa figura di terz’ordine.

E non solo perché è mio amico.

Lui è Sturm und Drang. Tempesta e Impeto. È un ossianico pre-romantico. È il confidente di Ugo, che canta Alla Sera. È il passeggere di Friedrich, affacciato dalla roccia a picco sul baratro. È Annibale che passa le Alpi nel quadro di Turner: così sgomento e mai appagato verso l’infinità della Natura e del Cosmo.

Lui è un adepto del cenacolo stilnovista; potrebbe sedere con Dante e Guido, recitando Chi è questa che ven, che ogn’om la mira?

Dalla più tenera età è cresciuto in questo modo. Era così nella giovinezza e per tutti gli anni in cui c’è stata sua moglie. Mi dice che è un fatto culturale, ma io ne dubito. Già, perché lui non sa nulla dei fattori biologici, genetici. Ed io, pur sapendolo – ritenendolo? – non glielo ho mai voluto dire. Non gli ho mai voluto rivelare il mio convincimento: quello che fa dipendere questi suoi comportamenti – manie, no? – alla semplice, pura, deterministica biologia.

Perché sono i fattori genetici che determinano queste sue eccentriche manie di innamorarsi, appena stabilisce un legame per lui significativo. Le manie di vedere nella lei di turno una figura da adorare, totemica, da venerare. Da rendere sacra. Tanta letteratura – e musica, anche non banale o commerciale – è piena di questi elementi. Pavese, Petrarca, Leopardi, Tenco. Ma anche il Dante giovane. Personalità alternativamente romantiche e accidiose, pessimiste e profonde, ipersensibili e pesanti, vulnerabili ma immortali.

Ma erano, e sono, i fattori genetici – cromosomi, DNA – a determinare tutto questo, anche in loro. E nel mio amico. Come anche il – ridicolo, per molti – permanere sempre vicino all’oggetto del proprio amore, alla propria lei, per tutta una vita. O per quanto questa dura. Nel bene e nel male. Fino all’estremo momento. Nei secoli fedele, come i carabinieri della barzellette. Come Forrest Gump. Come Pippo.

È così: determinanti biologico-comportamentali. Le basi biologiche comportamento, per noi che le abbiamo studiate, no? Ecco cos’è quel suo amore, tanto divinizzato.

Così come pure – nella maggior parte dei casi – viceversa tanti uomini (ma, all’opposto, anche donne, è?) fuggono e abbandonano la propria lei alle prime avvisaglie di difficoltà, di problemi, di mali, all’approssimarsi della morte.

Io glielo vorrei dire, ma non ho mai avuto il coraggio, perché voglio bene a quel testone del mio amico. Lo conosco da sempre. Mi confida tutto. Di recente, poi, ha iniziato pure a scrivere, tanto che giorni fa mi ha chiesto: “Vuoi leggere il mio racconto?” “Certo”, gli ho risposto.

Così ho iniziato.

La stanza di servizio

Stava tornando indietro. Ma ora sapeva perché gli piacesse quel luogo. Era un misto d’area vacanziera e contadina. Adesso ne stava attraversando il corso; in realtà il viale, lo stradone che divide l’abitato, partendo dalla rotonda sul mare, fino alla strada provinciale. Zeppo di negozietti e ritrovi, sale giochi e ristorantini, un caffè-gelateria faceva bella mostra di sé con l’insegna Caffè del Viale. Così, mentre percorreva quest’ultimo tra la folla dei turisti e della gente del posto, un ragazzino grassoccio – era a torso nudo e scuro come il mogano – su una bicicletta chiedeva delle cose al nonno, che lo seguiva appena dietro. “Ti ho detto, lo facciamo dopo cena”, gli rispondeva quest’ultimo. E quelle due persone – il giovanissimo e l’anziano – in bicicletta gli evocavano qualcosa. Altri momenti. Altre immagini. Altre storie.

Ecco perché, gli piaceva quel luogo.

Allora prese a fantasticare. Immaginò quel ragazzino nella sua casa contadina, tipo quella che lui con i genitori prendevano in affitto a Fiumicino, nei primi ’60.

La loro era una casa plurifamiliare, con stanze da affittare. Con un giardino, ma non di quelli di lusso; con un orto, perimetrale, e con dei chioschi in legno, per unità famigliari. Poi con degli steccati. E un cancello comune cigolante. E sul retro le fontane, una o due di quelle antiche vasche per lavare il bucato, che se le aprivi facevano scrosciare una valanga di acqua, fresca e limpida.

Il ragazzino adesso stava lì, nella sua casa del ’60, insieme a lui. E insieme ai suoi amici di allora: Pietro, Anna, Franca. E insieme a suo fratello. Più in là c’erano i suoi genitori. E c’era suo nonno. Nonno Angelo.

Reminiscenze. E fantasie.

Quel ragazzino grassoccio in bici, senza maglia e abbronzatissimo, parlava col nonno ma anche con lui e con suo nonno Angelo. Era l’ultima estate di suo nonno.

Ecco perché gli piaceva quel luogo.

E adesso gli mancava, certo, nonno Angelo; ma nei decenni ci si era abituato, no? E adesso gli mancavano anche suo padre; e Aurora. Perché solo una manciata di anni fa – cinque? Sette? – erano lì, in quei luoghi; tanto che adesso, come già due anni fa, il figlio ci era voluto tornare.

Ma due anni fa, tutto sommato ancora a caldo, quelle mancanze – il padre e Aurora – erano ancora vere e proprie mancanze. Assenze incolmabili.

Ora, altri due anni dopo, erano divenuti anch’essi ricordi. Sì: reminiscenze, come quelle dei ’60. E suo nonno era quasi divenuto coetaneo con suo padre e Aurora.

Incredibile.

Adesso ne avvertiva la mancanza non nell’assenza a caldo, ma nel ricordo.

Adesso che Carla – come gli era cara, questa donna, incontrata da poco – cominciava a colmargli la vita, la vita che gli rimaneva.

Intermezzo

Mi raccontava di quella donna – Carla – che frequentava da appena un mese. Io lo invitavo a non correre ma lui – Sturm und Drang com’è (lo conosco troppo bene) – partiva con le sue fantasie. Come quando mi aveva detto di quella sera in auto.

Lei, sulla scia di frasi di lui – gran chiacchierone, é? – gli aveva carezzato il volto, sorridendogli con tenerezza. Poi si erano abbracciati e baciati. Mi diceva che non era la prima volta e che allora, poco dopo, lui aveva preso a carezzarle il seno. Così le aveva scostato la camicetta e tutto il resto, con le labbra baciandole i bei capezzoli. Quindi, ancora desideroso, aveva preso a carezzarle le gambe: mi diceva che erano splendide, sotto a quella gonna corta che aveva ammirato altre volte. Pertanto indugiò con le dita, procedendo verso il delicato indumento intimo che carezzò con brama e stupore sacro. Mi disse che le aveva chiesto aiuto per scostarlo senza esser brusco e che lei aveva silenziosamente acconsentito. A quel punto, mi disse ancora lui, gli si aprivano le porte del paradiso: cercando d’esser garbato, con un dito prese a far capolino in quel misterioso pertugio che avvertiva meravigliosamente umido della rugiada del mattino o del liquido dell’acquasantiera dell’infanzia. Dopo un po’, forse goffamente, si era però interrotto per baciare, egli stesso, il proprio dito intriso di quel bene della Natura. Mi disse che lei aveva sorriso, tenera e ammirata.

Quando il mio amico mi aveva raccontato tutto ciò, lo osservavo come in estasi. Io gli avevo detto che stare di nuovo con una donna produce quest’effetto ma lui mi aveva risposto seccato: “Non é semplicemente stare con una donna, ma stare con quella specifica donna, a cui, seppure la conosco solo da un mese, mi sono legato e affezionato per quanto ci siamo scambiati e abbiamo condiviso. Penso ai suoi racconti, alle sue emozioni, ai suoi dolori, ai suoi affetti, al suo riso, alle sue espressioni. Con un’altra non sarebbe stata la stessa cosa.”

Che belle parole, penso, anche se so che é un po’ fanfarone, il mio amico sempre sognatore e romantico.

La stanza di servizio (Ripresa)

Ma non dipendeva, tutto, solo da Carla: lui adesso aveva acquisito anche la coscienza della sua nuova malattia.

Il valore di quel parametro di laboratorio, che lo scorso anno era già oltre soglia; e adesso si era ulteriormente innalzato.

Quanto tempo gli restava? A lui, che due o tre anni fa avrebbe voluto morire appresso a sua moglie Aurora. E ora desiderava di nuovo vivere. Come gli aveva detto suo padre, fino ai novanta; per superarlo, a suo padre, che era giunto quasi a ottantanove, superando a sua volta suo nonno paterno che era giunto agli ottantotto.

“Vide le luci in mezzo al mare, pensò alle notti là, in America; ma eran solo le lampare e la bianca scia d’un elica”, gli suggeriva adesso – da quanti giorni? Da quando aveva avuto i risultati di quel parametro – l’amico Lucio. Le sue notti in America erano i decenni trascorsi. Quanti? Tanti, ormai, lo sapeva. Erano come tante stanze, in cui era passato, attraversandole – come nella sigla di Esplorando, quella trasmissione di tanti anni fa di Mino D’Amato –. E lui, d’accordo con Lucio, vedeva davvero la sua vita come la scia d’un elica. Del resto come già era stato, allora, per sua moglie; quando – insieme, perché lui era nei secoli fedele – avevano capito che ormai non c’era più niente da fare. Quando avevano compreso che Aurora non era più nelle stanze della vita ma ormai relegata in una stanza di servizio. Pur se tutti i medici, chirurghi e oncologi – financo gli infermieri e i terapisti del dolore, con tutta la loro medicina allopatica – si prodigavano dicendo di fare i massimi sforzi per guarirla. Mentre lui lo sapeva che sua moglie era in una stanza di servizio. Da cui non sarebbe più uscita.

Così adesso lui.

Dirlo a Carla?

Come?

Come dirle che sarebbe stato meglio si fosse trovato un altro amico, un altro compagno, un uomo magari meno affettuoso – certo – ma sano, che sarebbe potuto stare con lei i prossimi trent’anni, un uomo più longevo che non sarebbe stato costretto ad abbandonarla – suo malgrado – entro qualche tempo.

Ma “due occhi che ti guardano, così vicini e veri”, come quelli di Carla, “ti fan scordare le parole e confondono i pensieri”. Già perché, quando stavano vicini, anche gli occhi verdi e il visetto di lei lo emozionavano come se, lui, avesse trent’anni di meno.

Stava tornando indietro; percorreva quel viale di quel luogo che gli piaceva tanto. Gli piaceva quel misto di vacanziero e contadino.

Il viale in cui era cresciuto; divenuto ora una stanza di servizio.

Stava tornando indietro per entrare dallo specialista.

Doveva conoscere il proprio stato di salute.

Secondo la medicina.

La medicina allopatica.

Epilogo

Ma tutto questo è stato qualche tempo fa, quando il mio amico mi ha chiesto di leggere il suo racconto, che io – personalmente, confesso – non ho capito. È criptico. Scrive in modo criptico, il mio amico, nevvero? E poi, che storia è? Non è scientifica. Non ha un impianto classico, con strutture chiare e sicure, che si ripetono e supportano la narrazione. Quest’ultima deve essere supportata come fanno i blocchi di pietra che tengono su un anfiteatro. È vagamente romantica. Inutilmente romantica. Pure nostalgica, mi pare. Insomma, abbastanza ridicola. Cosa narra? Ci son tante cose. Troppe.

Ma neanche questo gli ho detto, al mio povero amico. Avrei voluto, per provare a capire, insieme, ma non ho fatto in tempo. Perché, la storia che ci ha narrato, non è mica di fiction. Non è inventata. No! E lui, una volta andato per davvero da quello specialista, da noi non è più tornato. Ovvero: è entrato lì dentro – in quella stanza di servizio – per essere ricoverato. Poi operato, dato che anche quel parametro di cui parlava nel racconto era vero. E il suo valore era elevato. Tanto.

Così si è – come dire? – davvero accomiatato, per sempre, da noi. Non so se da solo; cioè se quella donna – Carla? – gli sia stata vicina. Possiamo dubitarne?

Ma lui sarà stato comunque sereno, perché – in quel suo ostinato romanticismo – in questi ultimi anni mi aveva anche detto sempre che si sarebbe voluto ricongiungere alla moglie, alla sua Aurora.

Illuso, il mio povero amico. E questo non glielo avrei potuto dire.

Non sapeva che siamo il mezzo con cui i cromosomi e il DNA fanno – simulano di fare – cultura e poesia, talvolta anche arte, fingendo di cercare dei significati superiori, che travalicano la mera esistenza. E talvolta, grazie allo sviluppo dei lobi prefrontali e alle loro connessioni con i nuclei subcorticali e al sistema limbico, fanno finta – addirittura – che siamo in grado d’innamorarci. Restando fedeli. Per tutta una vita.

Roba da ridere.

Infatti gli altri famigliari mi han detto che, mentre chiudeva gli occhi, stesse sorridendo.

FINE

[Fabio Sommella, agosto 2019]

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