Malgrado il rumore, pensiamo, parliamo e scriviamo

L’arte di tacere, scritto nella Francia del secolo XVIII dall’Abate Dinouart, manifesta la retorica d’un ecclesiastico nel corso del Secolo dei Lumi; proprio lui che, per insegnare a tacere (dice), scrive su tutto: cerca di mantenere le staticità sociali a sfavore dei cambiamenti e delle dinamiche, si direbbe a favore dell’Ascription piuttosto che dell’Achievement (eterne dialettiche?).

Dinouart mostra il rimpianto della tradizione e della religione, demandando le scelte fondamentali a quest’ultima e ai principi del suo secolo.

Un novello Savonarola? Un ante-litteram miliziano del fuoco del Ray Bradbury di Fahrenheit 451? Conservatore come Il Gattopardo? No: Dinouart, seppure qualche briciolo di verità sul cattivo scrivere sa anche indicarla, è completamente reazionario e può essere inquadrato soltanto nel suo contesto storico-sociale come oppositore dell’Illuminismo.

Vero: oggi – e, in proporzione, certamente anche al tempo di Dinouart – c’è tanto rumore; lo ha scritto di recente anche Giulio Ferroni nel suo Dopo la fine. Ma la sua (di Dinouart) è una soluzione che vuole solo zittire in favore di religione e presunta morale, anticipando purtroppo tante altre soluzioni similari; cavalchi lui, la propria tigre.

Noi, viceversa, preferiamo con onestà ragionare e scrivere, pur a rischio di sbagliare (siamo aperti al confronto), pur nel rumore assordante che ci circonda: perché il tacere é buono solo se diviene scelta autonoma, senza infingimenti o celate violenze culturali, quelle operate da sofisti di tutte le epoche, più o meno camuffati.

[Fabio Sommella, 7 agosto 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Quella spiaggia che schiude a segreti

Un racconto – Il mistero della spiaggia delle alghe, di Sabrina Cancian, Kubera Edizioni 2019 – che ha un impianto classico – terza persona, tempo dominante il passato remoto, narratore onnisciente, predominanza dell’ipotassi – ma che ben si sviluppa: un personaggio femminile, non più giovanissimo (ha un figlio adolescente), ricerca sé stessa, ritrovandosi infine dopo una serie di curiose ma anche divertenti peripezie. Queste sono tutte ben narrate, a meno di qualche piccola incongruenza – siamo nell’impianto classico, tutti i percepiti nodi dovrebbero essere ripresi e risolti – o qualche brusca accelerazione. Tutto ciò, forse, avrebbe meritato in alcuni casi tempi più dilatati e dettagli ulteriori.

Ma, al di la di questi aspetti formali, é evidente come Sabrina Cancian estragga sapientemente i significati del proprio racconto dal repertorio letterario magico-animistico, una tradizione che, tra gli altri, annovera il latino-americano Carlos Castaneda e il sud americano Paulo Cohelo. Tuttavia echi si colgono del Richard Bach di Illusioni – persone destinate a incontrarsi, ad attrarsi – e più in generale, per il concetto di Sincronicitá che ricorre nel finale del racconto, addirittura di Carl Gustav Jung.

Dopo il preambolo, tutto sommato volutamente neutro, si entra quindi sempre più nel suddetto alveo letterario e affiora  pienamente l’antitesi con il cosiddetto pensiero concettuale, proprio quell’antitesi già cara al citato Castaneda e cardine di tutti i suoi scritti, non ultimo il famoso Viaggio a Ixtlan. Secondo l’autrice, un’anelata e persa arte del vivere? Probabilmente sì, perché la vita non smette di stupire e possiede infinite porte di accesso: Sabrina Cancian, con grazia e garbo, ci mostra la sua preferita.

[Fabio Sommella, 3-4 agosto 2019]

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Tra isole e inganni, gli occhi di un adolescente

Serenity – L’isola dell’inganno, 2019, di Steven Knight solo in apparenza si propone come un tradizionale thriller dalle connotazioni torbide e inquietanti, essendo esso un intelligente esempio su come i riferimenti alle tecnologie della contemporaneità – scrutati dal severo sguardo di un adolescente – possano rivisitare e rinforzare i canoni del noir. Senza indugiare oltremisura attorno a questa chiave di lettura, per ovviare a qualsiasi spoiler eventuale, si può e si deve dire che innumerevoli echi, cinematografici ma anche letterari, si possono cogliere nel corso della visione di questo film. Vediamoli un po’, in quanto forse il loro pur rapido esame ci fornisce una comprensione migliore in merito all’ispirazione e al significato di questo lavoro di Knight.

In primis torna alla mente il torbido intreccio de Il postino suona sempre due volte, 1981, di Bob Rafelson, laddove si racconta di una coppia, nuova o vecchia che sia, che escogita un piano: eliminare un terzo incomodo, pacifico o violento che sia. Ma ciò appare solo l’inizio.

L’ambientazione – pescatori di giganteschi tonni e pesci spada al largo di Miami e Cuba, i loro ostentati ritratti fotografici assieme al frutto della loro bramata fatica – rimanda potentemente a quel piccolo/grande capolavoro letterario di Hemingway, Il vecchio e il mare. Ma anche ciò è solo la premessa iniziale.

La non infrequente voce fuori campo, sorta di seconda istanza narrante radiofonica in cui un redivivo lupo solitario scandisce le fasi della giornata a Plymouth, località (fittizia?) in cui si svolge l’azione, riecheggia in modo deciso American Graffiti, 1973, di George Lucas.

Il rapporto fra il protagonista e un suo collaboratore di colore (l’attore Djimon Hounsou), per molti versi nei modi riecheggia quello fra Robin Hood e il suo attendente arabo (l’attore Morgan Freeman) in Robin Hood – Principe dei ladri, 1991, di Kevin Reynolds.

Ma certamente più ghiotti e numerosi divengono gli echi quando, in questo film di Knight, agli occhi dello spettatore comincia a emergere il gioco – ben orchestrato dal regista – fra vita e artefatto, tra realtà e finzione, fra dentro e fuori, fra creatore e creatura, fra regole previste e agognato cambiamento delle medesime. E qui molteplici, pur nelle differenze delle portate dei film, sono le reminiscenze: da Tron, 1982, di Steven Lisberger, a Blade Runner, 1982, di Ridley Scott, da Nirvana, 1997, di Gabriel Salvatores a Matrix, 1999, di Lana e Lilly Wachowski, ma anche al precedente Una pura formalità, 1994, di Giuseppe Tornatore. È l’eterno gioco fra veridicità e camuffamento che, in forme cangianti, si perpetua all’interno delle narrazioni. Perché? Ma perché, probabilmente, esso – tale gioco – è il sale dell’esistenza che ne racchiude i più riposti significati.

Quindi Serenity – L’isola dell’inganno, oltre alle specificità proprie, è anche tutto ciò: un coagulo di temi pregressi, di trame precostituite; il tutto calato nei modi della incipiente galoppante mutevole contemporaneità.

Film utile? Film necessario?

Non sappiamo.

Ma, di certo, a fianco a tanti lamenti auto-celebrativi o a pretesi apologi sul rapporto contemporaneità/tecnologie, il film di Knight , pur collocandosi all’interno di un alveo indubbiamente attento al fattore commerciale, brilla per: buon gusto espressivo, equilibrata conduzione, ben dosato rapporto fra preamboli narrativi e climax, bella fotografia di esotici scenari, misurato senso della nostalgia per un rapporto esistenziale equilibrato che travalichi le tante violenze della quotidianità; oltre che per le convincenti performance degli interpreti, tra cui brilla Matthew McConaughey che dà il suo volto e il suo fisico scolpito al protagonista, duro dal cuore tenero. E ciò non appare poco.

Da non dimenticare che Steven Knight è autore di quell’altro piccolo/grande capolavoro di intimismo ed esistenzialismo che è il suo Locke, 2013, racconto filmico in cui un unico personaggio, il solo fisicamente presente in scena, interpretato magistralmente da Tom Hardy, nello spazio di una notte rivede e si gioca tutta la propria vita, affettiva e professionale, aprendo a nuove impreviste eventualità, solo per esser sé stesso, solo per amore: e anche ciò, decisamente, non è poco!

Lode quindi a Steven Knight e all’apparato produttivo tutto per Serenity – L’isola dell’inganno, intenso noir post-moderno, sempre in bilico tra realtà, gioco e desiderio di una diversa realtà scrutata attraverso gli occhi di un adolescente: laddove, se non una rappresentazione – teatrale, filmica, virtuale, onirica – cosa altro, è l’esistenza?

[Fabio Sommella, 22 luglio 2019]

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Quando Mignon sopraggiunge e poi parte, noi non possiamo fare a meno di pensare

Rivedendo oggi l’opera prima di Francesca Archibugi, 1988, si conferma come il flusso narrativo realista – tutto sommato relativamente esiguo, laddove il medesimo ruota attorno alle vicende quotidiane di una famiglia di ceto popolare piccolo borghese di Roma nord nello scorcio degli ’80, la quale in buona misura viene perturbata dal sopraggiungere di una giovane reticente cugina d’oltralpe – sia più che sufficiente a restituire allo spettatore, di allora ma anche di oggi, tutte le emozioni, le semantiche e le profondità di un’autentica opera d’arte, al contempo intimista e collettiva, contestuale a quegli anni eppur sovratemporale. L’educazione sentimentale del giovane Giorgio, adolescente equipaggiato di una indubbia humanitas virgiliana, al crocevia fra scuola media e scuola superiore, passa attraverso il fil rouge della giovane cugina Mignon, parigina esiliata poco più grande di lui, sufficientemente avvenente e dotata di una indubbia forza seduttiva. Quest’ultima, tuttavia, si manifesta in una sorta di limbo passivo, non essendo lei dispensatrice di energie e azioni eclatanti, non essendo lei ad andare incontro al mondo quanto, viceversa, quest’ultimo ad andare verso di lei, lei che suo malgrado calamita le attenzioni della piccola comunità che la ospita.

Ma se il film è sintetizzabile come l’educazione sentimentale di un iper-sensibile adolescente, in modo più ampio esso si conferma anche film eminentemente al femminile: ciò non solo per la presenza delle tre autrici – Francesca Archibugi, Gloria Malatesta e Claudia Sbarigia – ma anche perché si colloca in un alveo narrativo filmico appunto idealmente al femminile: il suo inizio si può identificare con il C’era una volta il West, 1968, di Sergio Leone; il termine si può vedere, poco prima della Caduta del Muro, appunto in questo film. Nel mezzo si possono di certo annoverare opere come L’ultima donna e Ciao maschio di Marco Ferreri, Il cacciatore di Michael Cimino, Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli.

Ecco quindi delinearsi un solco, un percorso, un’epoca, un nuovo ventennio, stavolta davvero culturale, ricco di significative tappe, un periodo artisticamente fecondo denso di opere e riflessioni: progettare di sondarlo più in profondità può divenire un inebriante programma di analisi filmico-sociologica.

]Fabio Sommella, 17 luglio 2019]

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Alieno ibernato controvento assurdo bel paese, villaggio globalizzato

Farad Bastami e Massimo Moraldi sono i due autori del libro Bel paese dei miracoli 1973-2013, edito da Book Sprint nel 2019.

Va innanzitutto segnalato che, se la voce degli autori è essenzialmente aulica, con avvertibili eredità formali classiche, in cui predomina un’ipotassi sempre forbita e ironica, si colgono tuttavia alcuni – pur rari, senz’altro sfuggiti più che espressamente voluti – elementi lessicali non proprio coerenti con questa modalità. Ci si riferisce a espressioni come “mitico” e “del calibro” che si ritiene, almeno in questo contesto, appesantiscano inutilmente il tono della lettura, impoverendolo all’occorrenza. Sono questi dei peccati veniali, piccole cadute di stile, originatisi probabilmente per contaminazione della forma classica con istanze gergali urbane di cui, effettivamente qui, si sarebbe fatto volentieri a meno!

Tuttavia ben altri e di maggior rilievo sono indubbiamente i pregi, innanzitutto per la robusta costruzione narrativa di tutta la vicenda umana sullo sfondo storico, costruzione che rimanda a perenni simbologie esistenziali.

Cerchiamo di vederli in ordine, questi pregi.

I due autori contrassegnano il loro libro con la dicitura Documentario-Romanzo. Agli occhi di chi va scrivendo queste righe, ciò riecheggia quella di Saggio sulla filosofia naturale della biologia, dicitura con cui, alla fine dei ’60 del secolo scorso, Jacques Monod fregiò il proprio libro Il Caso e la Necessità. Monod stesso stigmatizzava ciò aggiungendo che, in tal modo, il suo saggio sarebbe stato visto di cattivo occhio – cosa che non fu – da entrambi gli addetti ai lavori, ovvero tanto dai filosofi quanto dai naturalisti.

Viceversa pensiamo sia il caso del libro di Bastami e Moraldi. Di esso si può e si devono comprendere chiaramente un paio di fatti: il loro documentario-romanzo è un dotto e sarcastico sommario delle maggiori vicende socio-politiche italiane dal 1973 al 2013, connotato da toni necessariamente didascalici del documentario; ma in secondo luogo – principalmente? – esso è la storia di come un alieno, o un ex ibernato, – un nuovo marziano a Roma, per dirla alla Flaiano? – vedrebbe la realtà del 2013 dopo una deprivazione cognitiva di qualche decennio.

In tale ottica, se il documentario predomina nella prima parte, ed è il necessario preambolo – ampio antefatto – di tutto il racconto in cui le premesse esistenziali dei protagonisti della fiction vanno predisponendosi, è nella coda che predomina la vera e propria fiction romanzesca, se vogliamo financo teatrale. Senza fare alcuno spoiler, esaminiamo meglio quest’ultima, tentando di trarne i possibili significati.

La fiction assume subito la fisionomia di provocatoria pochade, laddove un personaggio – miracolato, come d’altronde recita il titolo, ma ignaro dell’accaduto – ha un grottesco dialogo con un’autorità investigativa. Anche quest’ultima è ignara dell’accaduto. Viceversa tutti coloro che potrebbero informarli in merito sono al di fuori della scena, risultano momentaneamente fuori contesto, impossibilitati a portare il loro apporto illuminante. Quando poi questi sopraggiungono, la vicenda acquisisce i connotati dell’incredulità e del teatro dell’assurdo che, dietro al velo dell’apparente ostinata e ostentata razionalità, lasciano emergere l’irrazionalità del vivere, la sua casualità e una mai sopita nostalgia di fede, di un’istanza metafisica che governi le vicende umane. È questo un chiaro riferimento degli autori alla condizione dell’Uomo nella Storia, travalicante la nostra Contemporaneità.

Ma subito dopo, la fisionomia del racconto di Bastami e Moraldi diviene meno indefinita e assume un potente valore simbolico; nel 2013, l’alieno di cui sopra risulta essere l’ex combattente comunista che, in un attimo per lui, dagli anni di piombo viene catapultato nell’Italia berlusconiana e leghista. Egli, ovviamente, non comprende nulla di ciò e appare un pazzo: emblematiche sono le vele controvento della vecchia moneta da cinquecento lire. Echi vari si affacciano alla mente del lettore, dalla morettiana Palombella Rossa al Don Chisciotte di Cervantes.

Sarà proprio questo teatro dell’assurdo, questo essere alieno, questo stare controvento che condurrà al climax in un epilogo struggente. Il cerchio delle vicende socio-politiche e umane si chiuderà in una sorta di nemesi capovolta intrisa di pietà per i personaggi; più verosimilmente, per tutti noi, miracolati protagonisti di questi anni nel nostro Bel Paese. Aggiungiamo: in un villaggio mai abbastanza globalizzato dalla nostra coscienza.

[Fabio Sommella, 30 giugno – 01 luglio 2019]

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Un attimo

Han finito di pranzare. Il ragazzo va di lá a studiare e lui pensa: “Quanto t’amo, figlio mio.” Poi istintivamente va comparando questo stato d’animo d’amore alla propria infanzia più lontana, ai suoi, a sua madre. E  si rende conto che, in quel tempo a lui remoto, anche Lei – la madre di suo figlio – ancor non c’era. E quindi, ognor e sempre spontaneo, pensa: “Ma perché, se allora ancor non c’eri, anche adesso non ci sei più? Perché é già terminato il tuo tempo?”
Non resta che scrivere, non rimane che scrivere, comporre, piangere, in silenzio ossequioso e muto, attonito, come il trascorrer del tempo nella memoria.
Un attimo.

[Fabio Sommella, 1° giugmo 2019]

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Tra Storia e Cinema: Roma, i romani, la romanità… spiccare il volo

Un popolo esaltato e poi vilipeso dalla coscienza della Storia, quello di Roma; e, insieme a Lei – sacra e profana, colta e becera, aulica e cialtronesca, nobile e puttanesca, togata e stracciona… meravigliosa creatura, adagiata sui fin troppo celebratissimi sette colli e sulle rive del suo fiume -, la romanità tutta.  Ciò – salvo rari laici illuminati momenti storici (le Repubbliche Romane del 1799 e 1849, la Resistenza)  – è doppiamente vero: da una parte per lo storico potere temporale papale – ingombrante, scomodo, invadente e invasivo -; dall’altra per le altrettanto – latenti e subliminali, tuttavia evidentemente  mai sopite – nostalgiche scomode ereditá imperiali (o, più propriamente, pseudo tali).

Sono queste due storiche polarità – solo in apparenza diverse,  perché,  seppure esclusive, mentalmente commiste (e su questo si potrebbe scrivere un trattato) – tali da provocare da una parte assopimento, senso di ottenebramento, dormienza secolare;  dall’altra, viceversa, risveglio e senso di fierezza in nome di mai sopiti e latenti fanatismi. In merito penso sia superfluo fare riferimenti, essendo sotto gli occhi di tutti, sia per la storia più o meno recente che per l’attualità.

Nei momenti di Crisi – sociale, politica, economica –  queste due alterne eredità – pseudoculturali, laddove si riducono a puro stereotipo e scappatoia, privi di contenuti e conoscenza –  fanno breccia, puntualmente, nei cuori e nelle menti di molti, menti molli, le menti dei taciti nostalgici, dei misoneisti che temono il nuovo, degli incolti, dei rassegnati, dei derelitti, dei senza storia, dei senza scuola, di chi non vede al di là del proprio ristretto confine – sia questo il proprio giardino di casa o la propria nazione – di chi vede solo la sopravvivenza, il Mors Tua, Vita Mea.

Il mezzo cinematografico, anche finzionale, ha spesso fornito numerose metafore di questi aspetti storici. Rimanendo pur solo nel merito della storica influenza papale su Roma, tutta la sontuosa opera cinematografica di Luigi Magni è inquadrabile in quest’ottica. Ad esempio: il “Pippo Buono” di State buoni se potete, sorta di novello San Francesco, contrapposto agli Esercizi Spirituali di Padre Ignazio.

Tuttavia gli esempi filmici sono numerosi; un altro per tutti: il Giovanni Senzapensieri, 1986, di Luigi Colli, di cui sopra è riportata la locandina: racconto allegorico della Roma secolare e della sua dormienza, incarnata in un accidioso giovanotto, ultimo virgulto di un’aristocratica casata nobiliare, che, grazie a un tecnologico reperto leonardesco. simbolicamente antesignano di una scienza umana contrapposta al minante potere di un clero soffocante e orrendamente nero, ritrova la forza di spiccare il volo a discapito del proprio pregresso imbelle ottundimento.

A quando, miei concittadini contemporanei, il nostro volo?

[Fabio Sommella, 07 maggio 2019]

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Attorno al Western, o quando il significato trascende il genere e il contesto nonché si universalizza

 

Di recente, a riguardo di tematiche cinematografiche, sento spesso parlare e vedo di nuovo scrivere del genere western; ciò avviene in diverse accezioni, talvolta negative; ad esempio: qualcuno sostiene sia un puro genere atto a distogliere le masse dall’attualità, da più impellenti problemi. In quest’ottica appare più nobile e idoneo fare film su mafia e camorra.

Io non lo credo. Ciò in quanto il significato trascende il genere e anche il contesto di ambientazione, i quali viceversa divengono  metafore, strumenti atti a veicolare significati universali e atemporali.

Ciò premesso e – spero –  ben specificato, entro volentieri nel merito del cinema di genere Western e affermo che il Western del cinema pre-classico – del D. W. Griffith di Nascita di una nazione, per intenderci – sia stato un prodromo, un principio, seppure ideologicamente molto schierato, per molti versi anche razzista; tuttavia il genere Western di Griffith ha avuto gli indubbi meriti di nascita soprattutto delle tecniche, ad esempio di montaggio, quello analitico, laddove viceversa il grande regista russo S. M. Ejzenstejn adotterà  quello analogico, anche detto montaggio delle attrazioni.

Il cinema classico di John Ford ha avuto ampi meriti: oltre a creare il genere Western p. d., ha conferito alla comunità  dei personaggi – sia questa dei cowboy o dell’esercito o dei civili, anche e soprattutto delle donne, anziani e bambini,  afferenti nei luoghi e negli spazi diegetici – il ruolo di reale protagonista delle vicende raccontate, pur lasciando all’eroe di turno l’apparente spazio di primo piano.

Ma è nei ’60 che si attua il punto nodale di svolta del genere Western. Il nostro Sergio Leone, con le sue due trilogie, quella del dollaro e poi quella del tempo, donerà al genere tanto la connotazione poetico-epica – Il buono, il brutto e il cattivo – quanto quella elegiaca – C’era una volta il West.

Sarà tuttavia Arthur Penn a realizzare, in quegli anni, probabilmente il massimo capolavoro della storia del cinema Western con il suo The little big man, nel quale l’espressionismo (“Andate laggiù se avete coraggio“), l’elegia (“… finché l’erba cresce, il vento soffia e il cielo è blu“) e il resoconto storico (“Mi chiamo Jack Crabb e sono l’unico sopravvissuto bianco al massacro del Little Big Horn“) sui nativi d’America si integrano finalmente in un meraviglioso asciutto connubio, maturo e scevro degli orpelli manieristici del cinema americano precedente, per rappresentare l’eterno atemporale contrasto fra i Jack Crabb mulattieri e gli esaltati maniacali generali Custer, di ogni ordine ed epoca (quanto, qui, dei più semplici e tradizionalli uomini o caporali del nostrano Totò?)

Non ultimo, in The little big man, gli ampi spazi della frontiera vengono rappresentati in maniera coerente con le esigenze sociali e culturali dello scorcio finale dei ’60; ci si potrebbe chiedere, in termini di spazi infiniti, quali siano le differenze fra questo capolavoro e l’Easy Rider di Dennis Hopper e/o il Nashville di Robert Altman, dove in quest’ultimo, tra le altre cose,  spicca quel suadente e accattivante evergreen di I’m easy, di Keith Carradine, figlio d’arte di quel John Carradine, già icona e giocatore d’azzardo dello Stagecoach (Ombre rosse) di John Ford.

Emozionante e sontuoso sarà anche l’affresco che, sempre sui nativi d’America, qualche decennio dopo realizzerà Kevin Costner con il suo Dances with wolves, sulla scorta di una magnifica fotografia e ancor più di una tra le più belle e ariose (!!!) colonne sonore, di John Barry, mai scritte. Tuttavia questo capolavoro di Costner sarà indiscutibilmente debitore per molte cose, non ultima la comunque indubbiamente genuina ispirazione, nei confronti del capolavoro di Arthur Penn.

Mutatis mutandis, uscendo adesso dal genere filmico fissato all’inizio e volutamente cambiandolo/ampliandolo, tutto quanto detto fino a qui è vero analogamente a come La grande bellezza di Paolo Sorrentino nel 2013 sarà debitore al felliniano Otto e mezzo del 1963: epoche e società diverse, tuttavia – per chi sa leggere e ben guardare – medesime ispirazioni e tematiche.

In merito alle tematiche va infine detto che – nel Grande Cinema, come in tutte le forme di Grande Arte – queste travalicano il genere e l’immediato contesto, universalizzandosi: analogamente a come ebbe da dire il nostro regista Franco Brusati in merito al suo Pane e cioccolata, il quale non era da leggere e da intendere “semplicemente” come un film sull’emigrante quanto, piuttosto, come un film sull’uomo solo.

In modo analogo, The little big man non è solo un film Western ma un più ampio apologo sul fanatismo umano e  sull’umiltà dei singoli, sulle stragi dei popoli e sulle ceneri della Storia, il tutto filtrato dallo sguardo di un grande autore e, solo accidentalmente, sullo sfondo dell’epopea della frontiera.

Sono, questi, spazi sempiterni in perenne coniugazione e nesso con le saghe di tutti i luoghi  ed epoche: da quelle omeriche a quelle fantascientifiche ma emblematiche di un Blade Runner o, ancora, a quelle tolstoiane di Guerra e Pace; essi, sempre, parlano a noi una lingua universale ed eterna.

[Fabio Sommella, 24-27 aprile 2019]

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L’umana e non cattiva coscienza del dare la vita

Volendo da subito smorzare l’inclemente e provocatoria forza del titolo – Cattiva, romanzo di Rossella Milone, edito da Einaudi nel 2018 – va detto che il personaggio di Emilia, istanza narrante nonché protagonista, non risulta propriamente cattiva quanto, più verosimilmente, solo profondamente umana.

Emilia è una comune trentenne, sufficientemente acculturata che – emerge, col procedere della narrazione – per professione conduce i turisti a scoprire le bellezze dei siti archeologici dell’hinterland napoletano. Quest’ultimo, come tutta la vicenda a cui la protagonista dà voce in prima persona, è descritto con toni sempre asciutti ed essenziali, con un linguaggio quotidiano che conferisce allo stile della narratrice proprio i suoi peculiari colori, struggenti, financo lirici.

Ma Emilia, come quasi tutte le giovani donne, è da subito pure una sorta di trasecolata novizia rispetto all’esperienza della gravidanza, del parto e della maternità, del prima, del durante e del dopo; esperienza questa sì vissuta e raccontata in modo forte, estremo, efferato… ma in fondo così naturale, come l’arte primitiva della sopravvivenza. Ed è forse proprio grazie a questa indicata sorta di noviziato che il breve romanzo – in termini di asciuttezza ed essenzialità di stile, pur nella grande diversità di vicenda e ambientazione – riecheggia e richiama le esperienze umane di Ida, 2013, film di Paweł Pawlikowski.

Tutta la storia di Emilia viene narrata secondo tre assi direzionali: il prima lontano, pertinente al pregresso di Emilia e della sua famiglia; il prima immediato, pertinente al parto; il dopo, pertinente ai primi tempi della maternità. Ciò avviene in un continuo caleidoscopico ribaltamento dei piani temporali, continui salti, inserti e spaccati di vita che, a tratti, possono far ricordare quelli ultradecennali dell’Underworld di Don DeLillo. Senza però la pretesa dei vertiginosi scambi narrativi epocali operati dallo scrittore americano, in Cattiva le vicende della coscienza della protagonista, percorrendo questi tre assi, si approssimano progressivamente al punto di convergenza: il parto propriamente detto. Questo si scinde poi in due attimi: il durante – notevolmente dilatato, in un tempo di coscienza bergsoniano che apre alle infinite sollecitazioni dell’esistenza, del dolore, della Storia – e l’immediato dopo, con finalmente serene e rasserenanti immaginette familiari. È qui che si ha un climax, un acme, la coscienza del momento di nascita altrui – prole – e rinascita di sé stessi – Emilia, il marito Vincenzo… – e del conoscere ciò che, in precedenza, per molti versi era ancora indistinto da sé.

In questo narrare, la costante è sempre la splendida voce autoriale di Rossella Milone, voce di cui solo i grandi scrittori possono disporre. L’autrice disegna immagini evocative di estremo impatto e rara intensità, pur nella loro apparente consuetudine; situazioni universali eppur nuove che lasciano scoprire altro al lettore, quasi anch’egli fosse un turista dei siti archeologici dell’hinterland napoletano. Perché, analogamente a quanto avviene in molti film di Tarantino, la Milone è in grado di raccogliere un ordinario e apparentemente ininfluente dettaglio quotidiano e allargarlo, ampliarlo e sviscerarlo, ricreando o ricuperando, da quel grumo iniziale, un mondo di significati sottaciuti, inespressi, perduti nell’alveo del comune vivere. Non ultima, il lettore avverte affiorare la propria, e quella dei propri affetti, più intima esperienza, la coscienza, biologica e cerebrale, della trasformazione che la gravidanza e la maternità imprimono alle nostre vite.

Attraverso la vividezza di tutti i personaggi – Emilia stessa, il marito Vincenzo, il fratello Daniele, la madre e il padre, la vicina signora Gargiulo, la vaiassa ostetrica Ilaria, il restante personale ospedaliero, la salumiera, i barboni… la nascitura Lucia – noi lettori, si sia madri o padri o figli (ciò non importa), usciamo dall’esperienza di lettura di Cattiva con la consapevolezza – mediata dalla soggettiva prosa narrativa e non dalla oggettiva semplice embriologia – del mutamento che, l’infinità di quegli attimi di parto, provocano irreversibilmente sulle nostre coscienze e identità: ciò che prima era unità e dipendenza, pur sempre più duplice nel suo itinere, diviene infine duplicità piena e autonomia in fieri: “In quel tocco c’era la compiutezza né di me né di lei, ma di un noi, ché io e lei già eravamo due cose diverse, due persone diverse che stavano per conoscersi.” [pp. 87-88]

A latere, il romanzo è anche un’esortazione – quanto sommessa? – a una fiducia decisamente non cattiva bensì umana: “Mia figlia deve sapere che noi siamo quello, che noi siamo uno dentro l’altra, e lei è già sola, come lo sono io con lei, come lo è Vincenzo con me, ma ci sono modi, a volte, ci sono i mezzi per entrare nelle persone e non restare soli.” [p. 67]

Il progetto di arrivo e ripartenza, di cui tutto il romanzo Cattiva è intimamente intriso, coagula nelle parole che quasi concludono il romanzo: “L’espressione che ha Lucia ora non è né mia né di Vincenzo, e questa cosa solo sua è una profezia. È da qui che posso ripartire, da questa immensità. Dalle cose solo sue che devo scoprire per poi farle rimanere solo sue.” [p. 92] È proprio in questo auspicato e ricercato senso d’immensità che anche il lettore, che ha accompagnato Emilia nel suo travaglio e nelle sue peregrinazioni, può e deve avere fiducia: nei “mezzi per entrare nelle persone e non restare soli.”

[Fabio Sommella, 12-14 aprile 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)