Cultura umanistica e cultura scientifica: un legame tanto ovvio quanto spesso eluso, anche in un dibattito definibile “carino” ma in parte “deludente”

Riempie d’entusiasmo ricevere per email il cortese invito, da parte di uno dei più prestigiosi enti culturali nazionali (ma non solo), al secondo evento di un ciclo di incontri che si svolgono, da marzo a giugno 2025, presso l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.

L’incontro ha per titolo Il legame tra cultura umanistica e scientifica e, come riporta l’email d’invito all’evento, “esplorerà l’interconnessione tra queste due secolari sfere del sapere, spesso considerate distinte ma in realtà profondamente intrecciate. Dalla filosofia alla tecnologia, dalla letteratura alla fisica, il dialogo tra discipline diverse ha dato vita a innovazioni e nuove prospettive sul mondo. Attraverso interventi di esperti, si rifletterà su come superare la tradizionale dicotomia tra scienze e humanities, promuovendo un approccio integrato alla conoscenza”.

Interessantissimo!

L’occasione mi appare particolarmente ghiotta, penso, considerando infatti che proprio pochi giorni prima ho scritto un pur sommario articolo, che verte sui Livelli della Conoscenza, dove cerco d’inquadrare il rapporto fra Istruzione e Cultura, che a mio avviso transita lungo un gradiente, attraversando fasi intermedie identificabili con l’Erudizione e con l’Indottrinamento o la Sapienza, in tal senso sbirciando in qualche modo e misura proprio il rapporto fra le due culture, su cui aveva scritto Charles Percy Snow, quella umanistica e scientifica, di cui personalmente rammento un antico e critico discorso della Docente di Lettere negli ultimi anni di liceo.

L’incontro, fissato per il pomeriggio del 17 aprile 2025, è tenuto da ospiti di rilievo, tra cui Paolo Vineis, Professore ordinario di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra, Monica de Virgiliis,  Presidente di Snam, e Enrico Alleva, noto etologo, Direttore Centro di Riferimento per le Scienze Comportamentali e la Salute Mentale – CE SCIC nell’Istituto Superiore di Sanità, Roma.  Questi relatori “porteranno una visione originale e complementare, arricchendo il dibattito sulla connessione tra questi due mondi.”

È così che, come altra volta, relativamente a limitrofa tematica, anche giovedì 17 aprile 2025 alle ore 17.00 raggiungo la Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana nella sontuosa sede storica di Palazzo Mattei di Paganica, Piazza della Enciclopedia Italiana, 4, in Roma.

Sono naturalmente emozionato di entrare in una location così austera. Chiedo ad una cortese addetta all’evento se posso scattare delle foto. Con garbo mi viene risposto di sì e, quindi, scatto le tre foto che allego a questo mio scritto.

Gli interventi dei tre autorevoli relatori, preceduti da una breve presentazione e poi da una prolusione del Direttore dell’Istituto, necessarie premesse che inquadrano il contesto dell’evento, si svolgono nell’arco di poco più di un’ora e un quarto. i loro contenuti sono molto tecnici, ognuno abbastanza pertinente alle aree di specializzazione specifiche dei relatori. Ciascuno di loro, nel corso delle proprie argomentazioni, lambisce la cultura umanistica, testimoniando quanto essa sia stata e sia rilevante nel proprio lavoro e studio. Ma, purtroppo, devo dire che nessuno di loro ne approfondisce l’eventuale profonda influenza su quella scientifica o anche crea ponti significativi o nessi di rilievo tra la propria disciplina di competenza, tecnico-scientifica, e la cultura umanistica.

Ovvero: al di là dello specifico – indubbiamente coinvolgente, di per sé – ambìto disciplinare di ciascun relatore, è assente, per un evento che si fregia di denominarsi Il legame tra cultura umanistica e scientifica, il necessario approccio filosofico che cerchi di determinare, pur in linea generale, le forme della conoscenza e della cultura, tanto scientifica quanto umanistica.

Riporto, solo a titolo di cronaca e senza alcuna pretesa critica sui contenuti, alcune mie annotazioni, necessariamente sommarie, che ho estrapolato (forse anche travisando) dai contesti tecnici specifici, viceversa articolati e doverosamente illustrati dai relatori, aspetti che tuttavia hanno suscitato il mio interesse e che quindi ho raccolto nel corso dei tre interventi:

  1. Causalità a Rete e Distale, anziché Lineare e Prossimale.
  2. 40 di milioni di visualizzazioni in 4 mesi in Francia su 4 notizie fake generate da AI russa. –> Nullìus in verba
  3. Taiwan: teoria olistica sull’informazione
  4. Echo Chamber Effect, quando ci si rafforza dicendo reciprocamente le medesime tesi
  5. Cross-Pollination, termine biologico citato come sinonimo di Contaminazione
  6. Veglia responsiva vs Stato vegetativo (in alcune scuole di pensiero neurologiche)

Al termine degli interventi – ragionando io, purtroppo, circa come nel secolo XXI sia ancora vigente la distinzione tra due culture – dentro di me, mi son sentito di definire carino tutto il dibattito a cui avevo appena assistito. Ma ero cosciente che, almeno in parte, ne ero stato deluso. Ciò di sicuro non per l’indubbio prestigio dei tre autorevoli relatori quanto, più verosimilmente, per l’impianto stesso dell’evento.

Mi chiedevo infatti dove fosse stata esplorata, all’interno del dibattito a cui avevo appena assistito, “l’interconnessione tra queste due secolari sfere del sapere”? Le pur gustose argomentazioni scientifiche, nel corso delle quali ciascun relatore ha ribadito il proprio personale coinvolgimento anche nella cultura umanistica, quanto hanno a che vedere, in modo stretto, con il tema ispiratore dell’evento medesimo? Vale a dire, dove è stato mostrato l’atteso dialogo tra scienza e humanitas? Ovvero i rapporti tra discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) e quelle comprendenti Letteratura, Storia, Filosofia, Arti e, in generale, le Scienze Umane?

Ci si sarebbe aspettati infatti – attesa delusa – una qualche digressione, da qualcuno dei relatori intervenuti, sulle Forme della Conoscenza, sull’Epistemologia, sui nessi tra Filosofia e Fisica, tra Filosofia e Matematica, tra Neuroscienze e Psicologie. Viceversa, nulla di ciò è affiorato.

Quando, tra le domande e le considerazioni provenienti dalla platea, personalmente ho provato a fornire un contributo dialettico fra Cultura Scientifica e Cultura Classica con alcuni esempi e riferimenti vari – tra cui uno critico-storico su Snow e le sue due culture, sul saggio di filosofia-naturale di Jacques Monod, sulle epigrafi umanistiche che aprivano i capitoli dei manuali delle tecnologie rdbms (nel caso specifico, il manuale di ORACLE,) negli anni ’90, su alcuni attuali orientamenti culturali (comprendenti anche gruppi Social) del tipo Abolire il liceo classico, sulle plausibili ipotetiche differenti ma complementari formae mentis della conoscenza scientifica sperimentale (empirica e induttiva) e della conoscenza umanistica (anche razionale, deduttiva, intuitiva) – non c’è stato sostanzialmente seguito su tali questioni e nessuno dei presenti ha fornito alcun minimo riscontro.

Senza scomodare John Locke o Immanuel Kant o Umberto Eco, rispetto a quanto era scritto nell’email d’invito all’evento, nel dibattito si è avvertita l’assenza di una Figura di Filosofo, della Scienza e della Conoscenza, che, in qualche modo e misura, si rapportasse alle forme che la conoscenza umana può e sa assumere, le forme in cui essa può esplicarsi e attuarsi, al fine di corroborare la plausibile dialettica o complementarietà tra le due culture, tra i loro diversi metodi e linguaggi che, tuttavia, non si escludono ma, probabilmente, rispondono a un’intima e profonda esigenza umana, esigenza combattuta fra due polarità; molti di noi, ma non tutti, privilegiandone prevalentemente solo una.

Al dì là delle peculiarità dei tre settori specialistici degli autorevoli relatori intervenuti – epidemiologia, tecnologia ed etologia – collegati in lieve misura da personali nessi umanistici, tutto ciò è mancato. E, dalle promesse del programma, nonché dal nome Treccani, ci si attendeva qualcosa di più incisivo e pregnante, in linea con il tema ispiratore e la denominazione dell’evento.

Così, ancora una volta, il legame tra cultura umanistica e cultura scientifica, per alcuni di noi tanto ovvio, è stato eluso. Infatti, mentre guadagnavo l’uscita, un distinto signore sorridendomi ha interloquito con me facendomi notare ciò dicendomi: «.Tuttavia, non hanno risposto alla Sua domanda.» Io, a mia volta sorridendo, ho risposto che mancava l’Umberto Eco della situazione!

Aveva forse ragione Charles Percy Snow? No, certamente no; è sufficiente ricordare le parole di Piero Angela: «La Cultura è una sola, è composta da tante cose, in cui c’è la Letteratura, c’è l’Arte, c’è la Scienza, c’è la Tecnologia, direi c’è anche l’Economia che domina certamente i processi della nostra Società. Noi avremmo bisogno, ed è molto difficile questo, di fare un po’ quello che faceva Leonardo, che era un uomo che al tempo stesso dipingeva, scriveva poesie e anche musiche, ma che era un grande scienziato e tecnologo, era anche un costruttore di macchine. Questo è impossibile oggi per qualsiasi individuo. Quello che è importante non è tanto la divulgazione o la conoscenza di nozioni. Per avere una cultura scientifica non è necessario conoscere la matematica, la fisica e la chimica. L’importante è conoscere il senso di queste cose qui, conoscere i metodi della scienza, le esigenze, le incompatibilità, le interconnessioni – questa è cultura scientifica – e saper agire di conseguenza.»

[Fabio Sommella, 19 aprile 2025]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

ISTRUZIONE, ERUDIZIONE, INDOTTRINAMENTO, CULTURA: i 4 livelli della CONOSCENZA

Introduzione

Molto spesso, a riguardo della Conoscenza, nel senso più generale della parola, usiamo i termini elencati nel titolo di questo articolo, o più compiutamente parliamo dell’essere “istruiti” o “eruditi” o “dotti/indottrinati/sapienti” o “colti”.

Senza dubbio, tra questi termini o espressioni, esistono delle profonde differenze, quantitative ma anche qualitative, circa i modi e i livelli di Conoscenza.

Proviamo a vedere più da vicino queste espressioni, facendo le opportune distinzioni, senza ricorrere a criteri canonici, precostituiti, a rigide definizioni da vocabolario. Ovvero: proviamo a formulare definizioni possibilmente corrette, che siano oggettive, ma coerenti con la nostra visione e la nostra esperienza, se necessario estendendole, pur rimanendo vigili e attenti a non scrivere corbellerie.

In definitiva, proviamo ad attribuire a questi termini ed espressioni delle coerenti accezioni, valide nell’uso comune ma anche su un piano teorico, magari fornendo degli esempi indicativi e argomentando variamente attorno ai significati che vi attribuiamo.

L’uso che ne facciamo, consapevolmente o meno, può avere risvolti profondi anche nella vita pratica.

ISTRUZIONE

Livello di conoscenza base, l’Istruzione è sostanzialmente quella che la Scuola tradizionale, che la quasi totalità di noi frequenta o ha frequentato fin dalla più tenera età, dovrebbe permettere di raggiungere, ai più, in alcune materie o discipline professionali.

L’Istruzione dovrebbe permettere a ciascuno che la persegue e vi si cimenta, in una o in tutte le discipline che costituiscono i suoi corsi, di raggiungere un livello di Conoscenza fondamentale, ritenuto necessario dalla Società per svolgere determinate attività, teoriche o pratiche.

Interessante e sintomatico è che siano esistite, ed esistano tuttora, delle separazioni[1] fra Ministero dell’Istruzione, Ministero della Cultura, Ministero dell’Università e Ricerca.

I Livelli della Scuola sono, almeno qui in Italia, notoriamente distinti in Scuola Materna, Primaria, Media Inferiore, Media Superiore, Università. E, man mano che si procede, se si procede, altrettanto notoriamente si raggiunge un livello progressivamente crescente di Istruzione, da un livello primario a uno medio… e così via, in materie eterogenee, in materie professionali e/o specialistiche. Ciò, in un’ottica di società utopisticamente perfetta come una macchina ideale, sarà funzionale, o dovrebbe essere funzionale, al Lavoro che ciascuno di noi espleterà, poi, nella Società.

L’Istruzione è quindi ciò che ci serve a rispondere alle domande specifiche a livello base. Oppure è, o è anche, ciò che ci serve ad adempiere, più o meno bene, delle attività in un ambito lavorativo.

A volte basta poca istruzione, specialistica, per essere una pedina fondamentale in una catena produttiva. Esempio tipico estremo potrebbe essere il personaggio di Charlot in Tempi moderni, di Charlie Chaplin, dove una persona, che finisce per essere alienata, che sa fare una sola cosa, che è “istruita” ad adempiere una sola cosa, è tuttavia un ingranaggio fondamentale in un sistema più ampio, di cui spesso, o quasi sempre, la stessa persona ignora i confini, le logiche, le finalità.

Altro esempio, più recente, è il personaggio interpretato da Gian Maria Volontè in La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, dove un campione di cottimo, “istruito” benissimo affinché anch’egli adempisse velocemente ed efficacemente a determinate operazioni/mansioni, prende infine coscienza del proprio malessere e del più generale e diffuso malessere societario.

Ma si possono fare esempi anche a livelli più alti.

Istruzione a livello di scuola superiore: uno studente che “studia” al fine di superare l’interrogazione, magari ricavando la sufficienza o anche un discreto sette. A fine anno lo studente sarà probabilmente promosso, ma avrà comunque una preparazione appena mediocre, laddove avrà appreso una serie di “nozioni” – negli anni ’70, o giù di lì, nelle scuole si rivolgevano acerrime critiche al “Nozionismo” – quasi a livello automatico, adatte al pronto e immediato uso di quell’anno scolastico, per prendersi un “pezzo di carta” da presentare alla Società, a un’Azienda un domani, quando cercherà un lavoro. Un pezzo di carta che potrà servire anche per… soffiarsi il naso, qualora non abbia a disposizione i fazzoletti!

Istruzione a livello universitario e postuniversitario: pensiamo a un medico che memorizza i concetti della fisiologia o a uno specializzando e anche a uno specializzato che si trincera dietro i rigorosi e “protettivi” protocolli medici, senza la capacità di leggere e interpretare davvero i dati clinici di un paziente in base alla sua storia personale e clinica, alle “possibili” cause di una malattia, la cui comprensione può magari aprire nuovi e inaspettati orizzonti verso la terapia e l’auspicabile guarigione o dismissione del male.

L’Istruzione pertanto – sia a livello primario che a livello più alto – è il “minimo sindacale”, per sua natura limitante, limitata, limitativa, riduttiva nella visione degli orizzonti più ampi e realistici, è “osservare l’ovvio” o l’atteso, in quanto non ci chiede di essere e venire a conoscenza di ciò che è al di là di una parziale e talvolta sommaria visione; ma tuttavia, entro certi limiti, è funzionale a un sistema produttivo e di servizio più ampio che non voglia andare “oltre” la soglia del noto, dell’atteso, del previsto, del banale, della noia, del curabile e dell’incurabile.

ERUDIZIONE

Appena superiore al precedente, il livello dell’Erudizione appartiene a chi, di qualcosa, conosce appena “qualcosa” in più (di chi è “istruito”), ancora su una certa e unica disciplina, tale da manifestare forme di conoscenza talvolta disperse e prive di sistematicità.

Il prototipo dell’erudito, in un certo contesto, è il personaggio manzoniano di Don Ferrante, visionario presunto e fallace conoscitore delle cause della peste del ‘Seicento.

Non è granché essere eruditi, circa una materia o disciplina: significa poco o nulla, significa non saper pensare in modo originale, spesso sbagliando, usando nozioni raccattate qua e là, anche raffazzonate, e pretendendo di possedere risposte prima ancora di essersi poste tutte le domande opportune.

INDOTTRINAMENTO/SAPERE

Indottrinamento, anche definibile Sapere, ha come figura precipua il dotto, l’indottrinato. Questo conosce molto, o quasi tutto, di una disciplina o materia, delle sue complesse e articolate forme di conoscenza; ma non sa uscire fuori di esse.

Lo specialista, anche originale, di qualcosa è il sapiente/dotto/indottrinato che conosce il proprio mestiere, la propria professione e dice “Questo è il mio mestiere”, inorgogliendosi in modo vanesio. Bello come il Re Sole, si sente un dio nel proprio stato/nazione. Ma, fuori di esso… non sa vederne i nessi, reali o eventuali, con altri stati, altre nazioni, altre professioni, altre discipline, con tutto ciò che è al di fuori di quello specifico proprio contesto.

CULTURA

Qualcuno ha detto che la Cultura è ciò che si sa quando si è dimenticato tutto.  Questo è senz’altro vero, anche se la cultura – la conoscenza spontanea e inaspettata – fiorisce ed emerge talvolta in modo sorprendente sotto naturali sollecitazioni. Il colto è colui che, oltre a essere indottrinato in una o più materie specifiche, le sa “collegare”, sa vederne l’articolazione, la trasversalità – across, dicevano qualche tempo fa i profeti dell’approccio sistemico – nell’ambito di un sistema più ampio, che è quello del Mondo, che era quello del Grafo dell’Enciclopedia Einaudi, che oggi è quello di Internet.

Dotato quindi di approccio sistemico, il colto vede, ipotizza, verifica, correla, ricerca meccanismi causa-effetto e monta/smonta nessi, correlazioni e ipotesi di meccanismi causa-effetto.

Esempio di correlazione esistente, ma assenza di meccanismo causa-effetto (studio americano, citato nei contemporanei manuali di psicologia generale): si notò che le morti per annegamento erano positivamente correlate al consumo di frutta e verdura (ovvero: nel periodo di più frequenti morti per annegamento, la popolazione consumava maggiori quantità di frutta e verdura). Si sarebbe potuto – erroneamente – ipotizzare che, coloro che mangiano maggiori quantità di frutta e verdura, per qualche oscuro motivo fossero con maggior frequenza esposti a rischi di annegamento. Questa è , di fatto, una correlazione vera che, tuttavia, non si basa su un’esistente meccanismo causa-effetto in quanto, tanto la maggiore frequenza di bagni, al mare o al lago, quanto il maggior consumo di frutta e verdura, avvengono d’estate. Pertanto, la causa delle maggiori morti per annegamento, è la stagione estiva, in cui oggettivamente la balneazione è ovviamente più frequente.

NB: l’istruito, financo l’erudito, avrebbero banalmente liquidato la questione senza smontare la fallace correlazione; il sapiente, e certamente il colto, non sarebbero caduti nella trappola in quanto avrebbero guardato più a fondo la realtà non immediatamente visibile.

Quello appena citato è uno dei tanti e disparati esempi della flessibile forma-mentis di una persona comunque colta.

Qualcuno disse che la differenza tra Einstein e Marconi stava qui: Marconi era geniale – sapiente – nella sua disciplina, Einstein lo era in tante discipline, quindi colto.

Non si confonda la Cultura con la Tuttologia: la cultura è sapersi porre domande, anche senza saper fornire le risposte, è saper dubitare e lasciare anche questioni aperte; la Tuttologia è pretendere, sempre, di avere e dare risposte, spesso o quasi sempre erronee, fallaci, che partono anche da presupposti sbagliati e questioni mal poste.

Ancora: prima di anelare alle risposte bisogna porre domande coerenti e contestualizzate.

Annotazione a latere

Inadeguato, e anche ridicolo, sarebbe porre l’accento su Erudizione e Sapere/Indottrinamento, come tempo fa era scritto (sorprendendomi) su un sito di riferimento di questi concetti, nei termini secondo cui il primo (Erudizione) sarebbe fondamentalmente d’impronta e matrice Classica, il secondo (Indottrinamento/Sapere) viceversa sarebbe di carattere eminentemente scientifico. Questo distinguo appare fuori tempo, ancora figlio delle “Due Culture” di Snow che purtroppo, seppure in forma e modi diversi, persistono e stanno tornando di moda (come altra melma pseudoculturale) in alcuni ambiti “Culturali”, o pseudo tali.

Viceversa i due concetti dovrebbero essere inquadrati nell’ottica differente enunciata in questo articolo e ribadita nelle conclusioni.

Conclusioni

Dovremmo considerare Istruzione, Erudizione, Indottrinamento/Sapere, Cultura come gradini o tappe di un gradiente, un continuum, ininterrotto – analogamente alla retta dei numeri reali – dove si transita, se si vuole e quando si vuole, lungo tutta una vita.

Il transitare comporta il progressivo muoversi nonché trasformarsi da una dimensione/visione iniziale, puramente epidermica e accidentale, a una dimensione/visione successiva e/o finale, profonda e sostanziale, di fatto irraggiungibile completamente, ma Leibniz sosteneva che non è importante raggiungere l’Infinito quanto, viceversa, tendervi.

Inizialmente, quando siamo molto giovani, ci si mette, quando si può e per non essere sguarniti o svestiti, un abito d’istruzione che ci veste appena, quel tanto che basta per poter comparire in Società, nel Lavoro; dopo, quando siamo avanti con gli anni, tutto il nostro essere è – spesso, ci si augura – visceralmente sempre più vestito e costituito di cultura, caratterizzato e sorretto da una forma mentis che ci permette di vedere e interpretare il Mondo in maniera più consona e vicina alla realtà.

Pena è essere non cittadini del Mondo bensì automi nelle mani di poteri più o meno occulti, siano scolastici, lavorativi, aziendali, societari, nazionali o sovranazionali.

 

[Fabio Sommella, 23 Marzo 2025]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

[1] https://www.governo.it/it/i-ministeri-0

Donne su quel balcone, oggi forse liberatorio

Un’ottima commedia della contemporaneità, che cede il passo al thriller giungendo fino al grottesco, transitando per brevi tratti nell’horror,/fanntasy è Le donne al balcone (The BalconettesLes femmes au balcon), 2024 ma in distribuzione in Italia in questi giorni, di Noémie Merlant, trentaseienne regista ma già attrice, qui in veste anche di sceneggiatrice nonché di uno dei tre personaggi principali.

Poster Le donne al balcone - The Balconettes

Protagoniste di questa interessante commedia, solo apparentemente dark, in quanto in realtà fiction di cocente attualità sociale transnazionale, sono tre giovani donne  attorno ai trent’anni – Nicole, Ruby e Elise – tanto unite, in definitiva, nel loro improvvisato gineceo quanto differenti caratterialmente, che si trovano, temporaneamente, a convivere in un appartamento di un enorme caseggiato di Marsiglia. Loro sono “al balcone” in qualche modo e misura come il protagonista hitchcockiano de La finestra sul cortile, 1954, ma le finalità di questo lavoro sono diverse, come si cercherà di indicare più avanti citando altri illustri predecessori filmici.

L’atmosfera della città di Marsiglia, tra la sua parzialmente opprimente area urbana – a cui l’autrice rende comunque amorevoli omaggi con perfette sequenze in panoramica notturna (sintomatiche di un affetto probabilmente controverso) – e i viceversa ariosi scorci marini, permea tutto il film che, attraverso questo continuo rimbalzare tra agglomerato urbano e mare, ci racconta una manciata di giorni vissuti dalle tre protagoniste, nell’afa di una torrida estate francese, che passano dalla normalità e dalla apparente noia del quotidiano a un progressivo crescendo di ansie e orrore, fino al liberatorio acme finale.

Le donne al balcone - The Balconettes - Film (2024) - MYmovies.it

Nicole (Sanda Codreanu) – la vera protagonista – è fantasiosa e frustrata scrittrice in erba, sempre propensa a immaginare storie impossibili che fanno da contraltare alla sua scialba vita giornaliera.

Ruby (Soubella Yacoub), la più disinibita ed estroversa delle tre, è una call-girl che si guadagna da vivere esibendosi in telematico dinanzi alle videochiamate di sconosciuti.

Elise, (Noémie Merlant), la svenevole emula di Marylin, è una moglie insoddisfatta che sogna di diventare un’affermata attrice e che fugge dall’oppressivo marito parigino rifugiandosi proprio a casa delle amiche marsigliesi.

Attorno a loro tre, si agita una piccola anonima comunità di altrettanto oppresse donne – una cruda sequenza, incipit significativo, fa da emblema a questa affermazione – e pochi uomini, vessatori e prevaricatori, fino alla violenza, manifesta o celata.

Nobili echi possono sovvenire alla memoria dello spettatore: personalmente, per i conflitti di genere ben espressi dalla sceneggiatura tutta, non ho potuto non pensare a Donne sull’orlo di una crisi di nervi, 1988, di Pedro Almodovar ma anche a Thelma e Louise, 1991, di Ridley Scott, e ancora a varie opere di Marco Ferreri, da L’ultima donna, 1976, a Ciao Maschio, 1978, fino a Il futuro è donna, 1984; in ultimo, ma certo ce ne sono altri, allo Speriamo che sia femmina, 1986, di Mario Monicelli.

Aprendo adesso una parentesi socio-culturale, va rimarcato il dispiacere di vedere che, malgrado i vari decenni trascorsi, queste tematiche filmiche siano oggi da una parte sempre più attuali e, dall’altra, siano presenti in quanto, storicamente, sono state disilluse alcune antiche fiducie. Se, nella cinematografia occidentale, infatti volessimo rintracciare gli inizi di una filmografia al femminile, dove il maschile diveniva in qualche modo minoritario o scompariva, in nome della fiducia in un progresso al femminile, come ho argomentato ampiamente nel mio Quel ventennio al femminile, ciò andrebbe rintracciato in Gangster Story, 1967, di Arthur Penn e in C’era una volta il West, 1968, di Sergio Leone. Ovviamente, non essendo questa la sede per approfondire questi aspetti, si torna al film in questione.

Se la svolta narrativa di Le donne al balcone si ha con un evento a metà tra il tragico e il grottesco, quelle successive si hanno con un infittirsi dei nodi della trama, sempre densa e avvincente, fino alla risoluzione finale, in cui si respira un’aria di liberazione corale lungo gli ameni scorci serali delle marine marsigliesi.

Il film, magnificamente girato, caratterizzato da una buona sceneggiatura (forse l’unica pecca è la relativa scarsità di figure maschili) e un altrettanto serrato montaggio, da una splendida fotografia, una suadente e idonea sound-track e da dialoghi sempre in bilico fra l’umoristico e il tragico fino a toni volutamente paradossali, è anche splendidamente interpretato.

Se le donne, per l’ennesima volta, brillano per iniziativa, necessità e solidarietà , gli uomini risultano effettivamente una schiera di infimi fantasmi da condannare (emblematica pure in tal senso “l’arringa” che l’estroversa ed esperta Ruby infligge al maschio cassiere di supermercato, già suo brutale conoscente). Se il riferimento ai precedenti titoli elencati può dare l’idea di ciò che qui si intende, un lontano eco con il Fanny e Alexander, 1982, di Ingmar Bergman, per chi lo conosce, si può cogliere nelle raffigurazioni fantasmatiche, dove la fragile ed esile figura di Nicole può apparire, oltre che simbolo della femminilità a rischio di violenza, una rediviva trasfigurazione dell’Alexander bergmaniano, quando quest’ultimo re-incontra il fantasma del malvagio padrino (ma questa è un’altra storia).

Le donne al balcone | dal 20 marzo al cinema

Ci si alza dalla proiezione soddisfatti di aver goduto di una intensa e coerente narrazione cinematografica nell’ora e tre quarti trascorsi, davvero senza mai guardare l’orologio, anzi avvincendosi e anche, infine, commuovendosi alle peripezie e agli esiti di Nicole e delle sue due simpatiche amiche.

[Fabio Sommella, 09 marzo 2025]

disponibile quadro - Donna al balcone - Annalisa Airaghi | PitturiAmo® APS

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Quando un lago si racconta con storie universali

Fa molto piacere, durante un periodo di vacanza, assistere, anche in un  improvvisato palcoscenico della piazza di un borgo del reatino, a un intenso spettacolo: è questo il caso della pièce, teatrale e musicale, IL LAGO SI RACCONTA, messo in scena in questo periodo dal Teatro Potlach.

Organizzato, con l’ausilio di molti enti locali dell’area geografica circostante al Lago del Salto  lo spettacolo IL LAGO SI RACCONTA è stato realizzato dai bravi attori, cantanti e performer, del Teatro Potlach, sapientemente condotti dal loro direttore artistico Pino Di Buduo,

Il teatro Potlach – che, nell’intrigante nome, evoca rituali antropologico-culturali solo apparentemente da noi lontani, in quanto certo interiorizzati in vari modi nelle nostre coscienze comunitarie – è stato fondato nel 1976 dallo stesso direttore artistico Pino Di Buduo e da Daniela Regnoli e ha sede a Fara in Sabina (Via Santa Maria in Castello n.28 02032 Fara in Sabina, Rieti, Lazio, email teatropotlach@gmail.com).

Lo spettacolo – che, come riferito già nelle soprastanti locandine, è stato realizzato anche attraverso la mediazione e le interviste agli abitanti del territorio – verte sull’accorata rappresentazione drammatico-sociale degli impatti di un evento storico-geografico di notevole portata: la formazione, attorno al 1940, del Lago Artificiale del Salto  e della Diga volute dalla Società Terni nell’area abitativa di Borgo San Pietro, frazione limitrofa a Petrella Salto e collocata in una pre-esistente vallata naturale. Ciò, tra le altre cose, ha costituito un macro processo economico-industriale-idrografico che ha di fatto sommerso di acque, provenienti dal fiume Salto, l’antico borgo di Borgo San Pietro, centro abitativo poi riedificato modernamente in area immediatamente attigua e a maggior altitudine, come altri borghi prossimi, coinvolti dalla costruzione della suddetta diga.

La rappresentazione, teatrale e musicale, nello spazio temporale di circa un’ora, entra acutamente nel merito dell’impatto che tale processo di cambiamento sul territorio ha avuto sulle coscienze delle persone che vivevano in quei luoghi, sulle loro attività economiche che, pastorizio-agricole-artigianali, scomparivano quasi del tutto, inducendo la maggior parte della popolazione a emigrare a Roma, in altre città italiane o all’estero. Pertanto, ancora una volta, assistiamo a un’appassionata vicenda di vite umane, di piccoli-grandi moti dell’animo, di paure e speranze, di resistenze e accettazioni, di oltraggi e opportunità che transitano sopra le esistenze di piccole-grandi collettività.

Nella serata del 20 luglio 2024 – pur da posizione defilata e a margine (si noterà ciò dai video) – sulla piazza di Borgo San Pietro sono stati registrati alcuni stralci di questo spettacolo, nell’ordine denominabili Valzer, Aprirò un ristorante, Sei una bella monachella, Ne ho baciati tanti.

Ma analogie e nessi con altri fenomeni e processi storici, di maggiore o minore portata, possono originarsi spontaneamente nella coscienza di alcuni di noi, osservatori degli scenari storici nonché dello spettacolo popolare.

Infatti, nei medesimi anni di quelli “raccontati dal lago”, poco prima del 1940, a Roma si erano eseguiti molti interventi urbanistici che avevano, in parte, cambiato il volto della Città Eterna; due per tutti: l’edificazione di Via della Conciliazione, in luogo del precedente antico complesso edilizio di Spina di Borgo, e l’edificazione dell’allora Via dell’Impero, poi ridenominata Via dei Fori Imperiali, al posto dell’antica Suburra (dove pure notevoli interventi erano già avvenuti a fine XIX secolo con l’edificazione di Via Cavour).

Tuttavia certo i richiami, tra le vicende “raccontate” dal lago del Salto e altre, non si fermano qui.

Molti infatti ricorderanno, qualche decennio fa, la struggente rappresentazione teatrale che Marco Paolini fece della tragedia del Vajont.

E le rappresentazioni del Sociale che riguardano la Basilicata nel Teatro di Ulderico Pesce, come a esempio questa, non sono da meno.

Infine, senza protrarci in disamine ulteriori, rappresentazioni altrettanto profonde e significative potrebbero essere realizzate per gli eventi legati ai giacimenti petroliferi che, negli ultimi trenta-quarant’anni, hanno coinvolto, industrialmente e dal punto di vista dell’ecosistema e del paesaggio, la Val D’Agri, ancora in Basilicata, prima a Viggiano e poi a Corleto Perticata.

Ma tornando all’intensa rappresentazione de IL LAGO SI RACCONTA, va detto che a essa hanno dato corpo, volto e voce un gruppo di giovani e meno giovani, ma soprattutto abili, attori e cantanti, tutti condotti da Pino Di Buduo: citiamo, pur in ordine del tutto casuale, almeno i nomi propri di questa splendida famiglia attoriale, di eterogenea provenienza (Firenze, Catania, Perugia, Bulgaria, Ungheria…), i cui appartenenti sono tutti accomunati dalla medesima bravura e professionalità:  Filippo,  Aurelio,  Marta,  Francesco,  Micol, Marieta, Zsofia, Marco, Nathalie, nonché il tecnico Matteo.

Grazie ancora, quindi, a Potlach e a tutti coloro che hanno permesso di realizzare questo spettacolo, in corso di varie repliche, in grado di sensibilizzare le coscienze di noi, oggi, circa ciò che è avvenuto nelle coscienze e nelle vite di coloro che, in certi territori, ci hanno preceduto, ma anche di ciò che avviene oggi e, forse, avverrà domani se le collettività umane non modificheranno la loro condotta. Si tratta di storie universali che riguardano gli uomini di tutte le latitudini.

[Fabio Sommella, Borgo San Pietro, 21 luglio 2024]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

La Cultura, serie di concettualizzazioni storicamente determinate in perenne trasformazione

Nella serata del 21 maggio 2024, in una fascia oraria ottimale (18-19:30), in una sontuosa sala del Palazzo Mattei-Paganica, sede dell’Istituto Treccani di Roma, sita in piazza dell’Enciclopedia Italiana 4, Pandora Rivista ha organizzato l’interessante dibattito intitolato Viaggio nella cultura: reti, forme e mappe di un mondo in trasformazione. Il dialogo, moderato dal direttore della medesima rivista Giacomo Bottos, ha visto come principali interlocutori Paolo Di Paolo, Loredana Lipperini e Giorgio Zanchini. In sala, tra il folto pubblico partecipante, c’era l’editore Giuseppe Laterza che pure è intervenuto con stimolanti riflessioni.

Va detto subito che l’evento, caratterizzato dal pregnante sottotitolo reti, forme e mappe di un mondo in trasformazione, non ha deluso affatto bensì è risultato estremamente interessante. Qui di seguito cercheremo di evidenziare i molteplici motivi di questo interesse.

I tre abili oratori intervenuti, nel pur relativamente breve tempo a disposizione, hanno cercato di sondare e indagare quelle che, nel controverso panorama della contemporaneità, personalmente definisco le silenti ed eludibili Forme della Cultura.

In tal senso mi è parso illuminante l’esordio dialogico di Paolo Di Paolo che, dopo aver ricordato che quest’anno cadono i cento anni dalla pubblicazione de La montagna incantata di Thomas Mann (ambientato poco prima della Grande Guerra, questo romanzo tratta di un’epoca incerta e pure controversa, per molti versi analoga alla nostra attuale), ha parlato di Volubilità della cultura contemporanea, ricordando da una parte il concetto di Effimero, quello delle Estati Romane di Renato Nicolini,  contrapponendolo in qualche modo e misura a quello di Tangibile, o preteso tale, probabilmente della cultura de jure di vecchia nozione tradizionale o scolastica. Se da una parte, da anni o decenni, si assiste a un progressivo processo di frammentazione culturale (personalmente parlo anche di rarefazione), utile è stato pure il richiamo a Tullio De Mauro, alla sua Passione civile (2004) e al suo concetto di Lifelong Learning o Istruzione Permanente per gli Adulti. In questo scenario, probabilmente vige una relazione (anch’essa permanente?) tra la suddetta volubilità e l’effimero nicoliniano, nonché sussiste una plausibile relazione ciclica con l’ormai purtroppo abusato (ma Di Paolo rimarcava l’originalità e la forza di tale intuizione negli anni ’90) di Liquido e di Società Liquida di Zygmunt Bauman.

Loredana Lipperini, riferendosi ai Festival e alle Comunità culturali letterarie, ricorda da principio Leonardo Sciascia quando, negli anni ’80,  lo scrittore siciliano ammoniva circa l’allontanarsi della meta, ella aggiungendo poi che, oggi, la medesima non si vede più. In tal senso è utile recuperare il concetto di Luciano Bianciardi di Lavoro Culturale (in passato ne ho anch’io argomentato nel mio Passaggi molteplici nel romanzo postmoderno: Bianciardi, Calvino, DeLillo, Eco, ma si veda anche qui).

A riguardo, va ricordato che, nei primi ’50, Bianciardi vagava per il grossetano con un furgone da cui si diffondevano le note di Luci della ribalta” di Charlie Chaplin, con lo scopo di “acculturare” gli abitanti di quel territorio che lui, forse con una buona dose di autoironia, considerava la sua Kansas City (a sua volta imparentata con la Rimini felliniana de I Vitelloni.) Poi, probabilmente, la tragedia di Ribolla lo indusse a cambiare qualcosa e concepì il progetto dinamitardo, abortito, che gli ha permesso di scrivere La vita agra della Milano del boom/sboom. Ma la rilevanza del Lavoro Culturale resta e fa piacere, pur settanta anni dopo, recuperarlo dalla polvere del tempo per renderlo di nuovo vivo nell’era digitale e della vaporizzazione.

In tal senso Lipperini ha sottolineato come il prodotto culturale non sia da intendere solo come libro ma esso comprenda un’ampia varietà di elementi diversi tra cui i manga, i fumetti, i video giochi, le serie TV, i Social, nonché i libri di genere minore. Inoltre Lipperini ha sottolineato come vigano  forme subdole, forse latenti, di capitalismo culturale laddove si invita sempre e solo a ragionare sui numeri. Da contrapporre a ciò è l’Utopia, ricordata da Lipperini in due nomi: quello di Steve Jobs, quando questi nel 2005, pur con qualche rischio, invitava i giovani a “essere pazzi”; e poi quello di David Foster Wallace con il suo discorso sulle libertà e quindi di nuovo sull’Utopia.

Giorgio Zanchini, come giornalista culturale, ha indicato l’accentuazione (potremmo anche dire esasperazione) del processo trasformativo culturale ricordando che, una volta, autorità e gerarchie erano riconoscibili mentre, oggi,  la digitalizzazione ha evaporato tutto. Ma la Sfera Pubblica oggi è comunque densa. A tal fine Zanchini ha citato Mario Tedeschini Lalli, con il suo Medium secondo cui è vasto, e non ben conosciuto, l’attuale campo dell’offerta culturale. In tal senso si dovrebbe abbandonare l’idea che, se i giornali “non vendono”, sia una questione di contenuti: se i giornali non vendono è una questione di forma. Necessita una Piattaforma di Relazioni Sociali in quanto, oggi, chi fa giornalismo è solo un piccolo pezzetto di quella che è la Catena di Valore. Oggi risulta difficoltoso trovare territori comuni condivisibili.

L’editore Giuseppe Laterza ha poi fornito una magnifica definizione, antropologica, di cultura (io rammento quella, pure antropologica, secondo cui la cultura è una caratteristica della specie umana, analogamente alla proboscide o alle zanne per la specie elefante) secondo la quale essa è una serie di determinazioni/concettualizzazioni storicamente determinate che risponde a un bisogno.  In tal senso l’editore ha poi stigmatizzato come il libro del generale Vannacci abbia venduto 500.000 copie, secondo solo a quello del principe Harry (sigh!) Pertanto vigono comunità e gerarchie “culturali” e, nella Scuola, si dovrebbe imparare a distinguere tra un film di Francois Truffaut e uno di Bombolo, che pure ha una sua dignità culturale. Inoltre ci sono i fattori storici: in tal senso Giuseppe Laterza ha raccontato il gustoso aneddoto secondo cui Benedetto Croce considerasse “cialtrone” Sigmund Freud che aveva scritto un libro intitolato Totem e Tabù.

Loredana Lipperini, ricordando poi Michela Murgia, liquidata spesso come una banale influencer, ha ribadito che il Lavoro Culturale si fa anche sui Social e che non è un qualcosa da svolgere nei ritagli di tempo bensì a tempo pieno.

Paolo Di Paolo ha quindi invitato gli astanti a procedere con il pensiero, non pensando al ‘900 come all’unico mondo possibile. I suoi maestri universitari, De Mauro e Asor Rosa, non liquidavano uno spazio dell’Estetica come Etica. Il libro va concepito non come un punto di partenza ma come un punto d’arrivo. In tal senso ha citato Giovanni Solimine: Cervelli Anfibi. Oggi sullo smartphone, giornalmente, transitano in media 100.000 parole. La lettura è frammentata – potremmo dire de-regolarizzata – ma non è vero che  i giovani leggono di meno.

Giorgio Zanchini, infine, ha richiamato l’attenzione sui mediatori vecchi e nuovi, sui buoni filtri come Loredana Lipperini e sui cattivi filtri, come certi influencer, citando il suo amico Matteo Cavezzali e Ravenna.

Grazie quindi a Pandora Rivista e all’Istituto Treccani, abbiamo avuto l’opportunità di assistere a un’appassionante maratona attorno alle trasformazioni formali della cultura nel nostro tempo, un incontro che rende giustizia ai tanti modi diversi, oggi, di fruire e veicolare gli elementi culturali rispetto a quelli rigidi del passato e che taluni, probabilmente, vorrebbero cristallizzati secondo criteri e modelli sovratemporali: ma, per fortuna, non è così!

In definitiva, al di là della sopravvivenza (qualcuno potrebbe chiedersi “Il problema è adeguarsi ai tempi o rimanere ancorati ai valori con cui siamo cresciuti ?” Personalmente penserei né l’uno né l’altro), credo il nodo sia sapersi confrontare a tutti i livelli – ossia come fruitore, autore, editore, distributore… cittadino – con la rarefazione e la vaporizzazione (come ha rimarcato Di Paolo, sorpassata è, ormai, anche la “liquidità” della società di Zygmunt Bauman dei ’90) del fatto culturale. Come indicato da Laterza, ci si scontra proprio con il parlare alla Vannacci o sullo scrivere del principe Harry e non si fa uso di una forma d’intelligenza utopica che è l’unica che può salvarci dignitosamente, al di là della mera sopravvivenza. Come suggerito da Lipperini, la sfida (del Nuovo Millennio?) per gli Intellettuali è il Lavoro Culturale H24 attraverso tutti i molteplici canali in grado di veicolare questo processo.

[Fabio Sommella, 22 maggio 2024]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Aprendo la finestra, girando nel quartiere, andando al supermercato, prendendo il metrò

Apro la finestra, è primavera. Tornato il caldo faccio entrare l’aria del mattino, ma anche i suoni del traffico, certo, nonché il frequente cicalino dei semafori, al crocevia sotto casa. L’attivazione del cicalino, l’avvisatore acustico, necessita giustamente ai non-vedenti. Ma da anni mi chiedo: perché viene premuto con tale frequenza, aumentando il rumore della città? Quanti non vedenti ci sono che attraversano ai semafori? La gente normale pensa che così il semaforo diventi verde prima?

Giro nel quartiere. Ormai ci siamo abituati ai monopattini fermi sui marciapiedi, abbandonati nel bel mezzo del passaggio. Il guaio è quando sfrecciano sui medesimi, come pure alcune biciclette. Il marciapiede  è divenuto una pista ciclabile? Provate a dirlo e a fare le rimostranze a qualcuno dei suddetti: va bene se ti porgono le scuse o se non rispondono male.

Autovetture parcheggiate sulle strisce pedonali, qui al VII Municipio, sono frequentissime, perfino in prossimità dei semafori. A Largo dei Colli Albani devo attraversare e il semaforo di fronte è completamente occluso da un furgone, collocato proprio sulle strisce; essendo alto impedisce di vedere se il semaforo per i pedoni è verde. Guardo sopra di me e comunque comprendo dai pedoni che, aggirato il furgone, attraversano nella mia direzione. Così attraverso anch’io. Passo, aggirandolo anch’io, vicino al furgone che è chiuso posteriormente ma sul fianco, lato marciapiede, un giovanotto sta armeggiando con un portellone aperto, incurante (fregandosene) di me e degli altri passanti. Provo a immedesimarmi in lui: penso che svolge un lavoro forse ingrato e che, certo, nel quartiere è difficile trovare un punto di “scarico merci” adeguato, Così tiro dritto e raggiungo un negozio poco più avanti. Sbrigo la mia commissione e torno sui miei passi. Sono passati dieci minuti e il furgone è sempre lì, a occludere il semaforo e l’attraversamento pedonale, col giovanotto che adesso sta scaricando con un carrello del materiale dal retro del furgone. Cinque metri prima ho notato un ampio parcheggio libero. Mi avvicino al giovanotto dicendogli: “Perché non ti sposti cinque metri in là, dove c’è uno splendido parcheggio libero, con cui non occluderesti il semaforo e il passaggio?” “Ah capo, quanno so’ venuto nun c’era e nun ci’ho tempo…”, quindi bofonchia qualche altra cosa, continuando a fare il suo comodo. Me ne vado, applaudendolo e gridandogli “Bravo!”

Entro nel supermercato e seleziono un carrello che non abbia i guanti di plastica abbandonati, lì dentro, dai precedenti avventori. Volete, per igiene giustamente, non toccare le merci della frutteria a mani nude? Bene: usate i guanti di plastica ma, dopo l’uso, perché li abbandonate nel carrello? Questo è igienico? Perché non li gettate negli appositi cestini?

Scendo al Metrò di Colli Albani. Non c’è scala mobile, essendo il dislivello in  effetti minimo. Mi appoggio alla balaustra però, perché non vedo bene i gradini: perché non aumentano l’illuminazione, che è davvero scarsa? Sono anni che è così. Rammento che, anni fa, dopo una mia lamentela al personale lì presente, posero il mancorrente in mezzo all’ampia scala che precede i binari del treno. Ma, adesso, la stazione risulta sempre priva di sorveglianza. Non scorgo mai nessuno a qualsiasi orario si passi. Tuttavia, mentre con la tessera supero il tornello, intravedo un ragazzetto che tira dritto verso i passaggi di uscita, li scavalca ed entra verso i binari del Metrò, probabilmente, senza aver pagato il biglietto. Penso all’azienda municipale di trasporto, che dicono sempre in crisi economica, e mi chiedo: perché quel ragazzetto ruba? Certo: c’è la crisi. E allora tutto è lecito?

Rifletto tra me che il quartiere è completamente lasciato all’incuria e ai capricci di ciascuno che abbia desiderio di fare il proprio porco comodo. Penso anche che, a vent’anni, non avrei notato tutto ciò o l’avrei risolto con una scrollata di spalle Ma non voglio i vigili, le guardie, i poliziotti che dicano a ogni cittadino ciò che deve e non deve fare: perché credo nelle scelte autonome di ciascuno di noi nel rispetto degli altri. Ho ancora fiducia nell’uomo, nella sua autonomia, nella sua forza anarchica che non significa fare scelte di comodo ma fare scelte responsabili per tutti. “Perché la coscienza non s’insegna”, cantava quel cantautore trasteverino.

Sbaglio.

Me ne vado con il fagotto delle mie domande: perché, il cicalino, viene premuto con tale frequenza, aumentando il rumore e la nevrosi della città? Il marciapiede è divenuto una pista ciclabile? Perché, tu lavoratore certo, non sposti il furgone cinque metri in là, dove c’è uno splendido parcheggio libero, senza occludere il semaforo e il passaggio? Non te ne frega che puoi mettere in difficoltà le persone? Perché abbandonate i guanti di plastica usati nel carrello? Perché non li gettate negli appositi cestini? Perché non aumentano l’illuminazione, sopra le scale NON mobili, quando è davvero scarsa? Perché quel ragazzetto ruba?

Perché tutto è lecito?

[Fabio Sommella, 29 aprile 2024]

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La giocosa sperimentazione drammaturgica e giornalistica di una Nuova Romantica, ovvero Patrizia Palombi

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Molti di noi amano sperimentare, nella propria vita, nuove possibilità e percorsi, spesso al confine e in bilico tra ciò che si svolge per professione – il proprio lavoro , con cui ci si guadagna da vivere e con il quale, spesso, tante persone si identificano al punto quasi di far coincidere con esso la propria esistenza – e ciò che si svolge all’interno di altre attività non necessariamente professionali, nel senso che non sono ciò che ci permette di risolvere le problematiche economiche, ma neanche (miseramente, dal mio punto di vista) hobbistiche, termine (hobby) che, personalmente, mi ha sempre suscitato noia e nausea (come se la vita fosse solo una netta distinzione tra lavoro e hobby piuttosto che un continuum di attività, spesso per fortuna anche creative, tali da arricchire la personalità tutta e influenzare positivamente anche la tradizionale sfera lavorativa.)

La sperimentazione può abbracciare àmbiti più o meno ampi, ma è senz’altro promotrice di effetti benefici sulla vita tutta della persona che la intraprende.  Tutto ciò è, a mio avviso, anche valido per Patrizia Palombi.

Conosco Patrizia da poco più di cinque anni. Romana, proveniente come molti di noi da una famiglia di estrazione sociale semplice e popolare, è cresciuta in un clima educativo rigoroso dove il liceo classico ha lasciato impronte umanistiche rilevanti, completate in seguito con una laurea triennale in teologia. Nondimeno, Patrizia è anche moglie e madre nonché energica professionista di un prestigioso ente pubblico economico a base associativa.

Tuttavia, nella vita, Patrizia non si rassegna a svolgere le proprie attività, di pensiero e di azione, unicamente nell’ambito professionale ma avverte, certo da anni, necessità di sperimentare sé stessa in altri molteplici settori. Così, la Nostra, da quando la conosco non ha mai smesso di fare altro.

Cosa?

Chi la conosce abbastanza bene conosce pure di sicuro il suo pseudonimo di Scrittora, ovvero di scrittore al femminile, termine vezzoso con cui Patrizia vorrebbe fondamentalmente prendersi gioco – da, qui, la giocosità del titolo – delle tante ovvietà dei canoni, come il definirsi – lei, che anche scrive narrativa – scrittrice.  È questo un primo principio di provocatrice originalità che semmai fa il paio con la denominazione, della sua piccola/grande comunità culturale che aderisce amorevolmente attorno a lei, di Nuovi Romantici. Quest’ultimo è il termine che di recente ha dato anche il nome a una collana editoriale da lei diretta, insieme all’amica e collega Grazia Di Stefano, all’interno di una piccola casa editrice: The New Romantics.

Ce ne sarebbe già abbastanza per dire “Wow!”. Ma, ovviamente, non finisce qui.

Non finisce qui in quanto Patrizia ama saggiare le altrui attitudini, artistiche e culturali nel senso più lato del temine, per definirne i profili, cercando di mostrarne le peculiarità, anche all’interno di palinsesti radio-televisivi-internet: infatti collabora, settimanalmente da anni, con testate giornalistico-radiofoniche, procacciando talvolta nuovi talenti o anche semplicemente mettendo in luce passioni e affinità, sempre nell’ottica dei Nuovi Romantici.

Ma non sono poche anche le sue sperimentazioni nella drammaturgia, pur piccola, e nel teatro, in collaborazione spesso con professionisti del settore con i quali – e qui sta, nella mia opinione, la rilevanza del suo approccio – vige un perenne interscambio di linfa vitale, di umori culturali e sentimenti umani. In questo scenario, a mia memoria mi sento di citare Dante e le donne tra passato e presente, rappresentato a Roma e in altri centri del Lazio, un primo essenziale cortometraggio estratto da un suo racconto, nonché le pur piccole pièce tenute al teatro Academy di Roma e, di recente, alla Biblioteca del Parco della Pineta Sacchetti a Roma.

In tutti questi àmbiti, Patrizia Palombi diviene sperimentatrice di un’anima collettiva che – probabilmente in un modo che deve ancora trovare la piena forza e disciplina per conformare la primordiale materia caotica in un cosmo compiutamente ordinato –  scandaglia i temi che si agitano nel suo campo d’azione e di conoscenza, siano questi le famiglie allargate originatesi da sorprendenti genitori emigrati in terra d’Africa o forme d’intolleranza razziale o donne mai cresciute che hanno subìto violenze psicologiche o ancora donne viceversa bullizzate in età giovanili.

Si affiancano, alle pièce, l’organizzazione di eventi culturali, siano questi sfilate di moda multietnica o i classici reading poetici o la conduzione di presentazioni di libri. Tutti sono, in modo medesimo, una perfetta amalgama dei vari elementi messi in scena, amalgama tale da rammentare – a me – l’approccio di un grande e compianto giornalista RAI, quel Gianni Minà che sapeva condire le proprie conduzioni di spettacoli in base a una miscellanea di umanità e cultura, di empatia e profondità, di sensibilità e spettacolarità.

Così è Patrizia Palombi, giocosa sperimentatrice drammaturgica e giornalistica di un Nuovo Romanticismo.

[Fabio Sommella, 09 marzo 2024]

Medley musicale in sottofondo: ROMANTICA, di Renato Rascel, e GIOCHI D’ACQUA, di Fabio Sommella, quest’ultima nelle DUE VERSIONI, la prima STRUMENTALE (piccola orchestra), la seconda in un estratto per CHITARRA E VOCI (Fabio Sommella e Rosanna Sabatini). Tutti gli arrangiamenti orchestrali e l’esecuzione alla chitarra sono del proprietario di questo sito.

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Gente per bene e gente per male, ovvero le magnifiche variazioni ritmiche di Lucio e Giulio forzate da una melodia variabile e irregolare

Per chi ha confidenza con la teoria musicale sa che, nella gran parte delle canzoni popolari (ma non solo), il tempo ritmico più comune è il 4/4, vale a dire che ciascuna misura è costituita da quattro tempi, o movimenti, che misurano ognuno 1/4, ovvero una semiminima. Strutture ritmiche molto diffuse sono ovviamente i tempi di 3/4 (tempo di “valzer”) o i tempi di 2/4 (tempo di “marcia) o, anche, i tempi composti di 12/8, 9/8 o 6/8, derivanti dai tre precedenti grazie a una piccola procedura (sostanzialmente di “frazionamento”) che però non stiamo qui a spiegare e per i quali si rimanda qui.

Fatto sta che, generalmente, a prescindere dal tempo ritmico prescelto dal compositore, il medesimo tempo – ad esempio il 4/4 – si mantiene costante per tutta la durata del brano, canzone o pezzo strumentale che sia.

Esistono delle eccezioni (forse molteplici). Ad esempio il Maestro Ennio Morricone nella partitura del tema centrale di C’era una volta il West, film di Sergio Leone, impiega inizialmente un tempo di 12/8 che tuttavia, in una misura specifica (la 9), viene trasformato in 15/8, ciò di certo in dipendenza dell’espressività melodico-ritmica che il compositore voleva conferire a una certa frase musicale.

Esempio di variazione ritmica, tempo della misura 9, nella partitura di C’era una volta il West di Ennio Morricone.

Un caso molto particolare – a mio avviso magnifico – di variazione ritmica è quella che adottò  Lucio Battisti per il suo brano Gente per bene e gente per male, presente nell’album Il mio canto, libero (1972).

Premesso che di questo brano non ho trovato partiture su internet, all’ascolto  risulta evidente come, da un impianto ritmico tradizionale, appunto di 4/4, alcune misure siano state modificate in 5/4 e, anche, in 6/4; ciò al fine di permettere frasi melodiche più lunghe di quanto consentito dalla struttura ritmica di 4/4.

Specifico che quello che segue non è un vero e proprio arrangiamento orchestrale (questo, semmai, sarà effettuato in futuro) bensì essenzialmente uno studio della partitura ritmico-melodica, legata alla struttura armonica sottostante, di Gente per bene gente per male.

Presento pertanto un paio di mie trascrizioni, più o meno approfondite, di questo brano, entrambe eseguite sulla base dell’ascolto del brano di Lucio. Oltre al pentagramma del tempo, che riporta come ausilio anche le sigle degli accordi, ho inserito il pentagramma della voce maschile, della voce femminile e dell’accompagnamento, armonico-ritmico,, di chitarra.

La struttura generale del brano la si può scaricare qui: Struttura armonica e ritmica di Gente per bene e gente per male

La prima trascrizione – ma, per quelli di palato più fine, consiglio di andare direttamente alla seconda trascrizione poco più avanti di qui, certo più approfondita e interessante – è solo musicale, ovvero priva della riga delle parole. La partitura da me trascritta è qui di seguito: Gente per bene e gente per male – trascrizione 1. L’audio MP3 è ascoltabile qui sotto:

Ecco, invece, la seconda trascrizione, come ho detto sopra “più approfondita e interessante”, un quasi arrangiamento, seppure strumentalmente essenziale : la partitura da me trascritta è Gente per bene e gente per male – trascrizione 2, L’audio MP3 è il seguente

A latere, va detto che la tonalità originale d’impianto del brano in SIM è stata da me trasposta in DOM, naturalmente mantenendo la coerenza delle successive variazioni armoniche.

Infine, ecco una sequenza di immagini (riprese da internet senza alcun fine di lucro), calzanti con lo spirito di questo brano di Battisti-Mogol, montate – insieme al testo della canzone – sulla musica da me riprodotta:

Cosa aggiungere? Che questo brano, come dico nel titolo di questo articolo, è davvero un bell’esempio delle magnifiche variazioni ritmiche – di Lucio Battisti e Giulio Rapetti Mogol, probabilmente coadiuvati allora (1972) da Gian Piero Reverberi – forzate da una melodia variabile e irregolare, dove il testo appunto metricamente irregolare vuole esprimere significati la cui forma, di volta in volta , non ricade in rigidi confini prestabiliti. La bellezza della musica è anche in questo: stravolgere le ovvietà!

Buona visione dei file allegati e buon ascolto.

[Fabio Sommella, 9-10 ottobre 2023]

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Istruzione, erudizione, sapere, cultura

Leggo, in rete, distinzioni interessanti ma a volte fuorvianti – o addirittura desuete – sui quattro termini: istruzione, erudizione, sapere, cultura. Pertanto cerco qui di delineare in breve quelli che, a mio avviso, sono i loro rapporti da intendere al meglio in un ambito idoneo di conoscenza.

La distinzione fra Cultura e Istruzione è indicativa delle differenze sostanziali che vigono tra i due termini. In particolare, l’etimologia del primo termine (“dal latino colere=coltivare“) ben rende l’idea dell’intimo processo sottostante. Anche il richiamo al fatto che “L’uomo istruito è colui che possiede maggiori informazioni rispetto alla media degli individui, e spesso queste conoscenze sono di origine scolastica”, appare coerente con il distinguo di fondo che si vuole mettere in evidenza.
Ciò che appare inadeguato è il frequente accento su Erudizione e Sapere nelle accezioni secondo cui il primo termine sarebbe fondamentalmente d’impronta e matrice Classica, il secondo viceversa sarebbe di carattere eminentemente scientifico. Questo distinguo appare fuori dal tempo, obsoleto, ancora figlio delle “Due Culture” che, seppure in forma e modi diversi persistono, in un ambito “Culturale” moderno dovrebbe viceversa essere evitato e inquadrato in un’ottica differente.
Dovremmo “vedere” Istruzione, Erudizione, Sapere e Cultura come gradini o tappe di un gradiente, un continuum, ininterrotto – analogamente alla retta dei numeri reali – dove si transita, se si vuole e quando si vuole, per tutta una vita e il transitare comporta il muoversi nonché trasformarsi da una dimensione/visione iniziale puramente epidermica e accidentale a una dimensione/visione finale – di fatto irraggiungibile (ma Leibniz sosteneva che non è importante raggiungere l’Infinito quanto, viceversa, tendervi) – profonda e sostanziale; ovvero: inizialmente ci si mette indosso un abito d’istruzione che ci veste, poi anche degli indumenti di erudizione, quindi delle forme e sostanze di sapere, infine tutto il nostro essere è e sarà visceralmente costituito di cultura.
Dispiace che molte pagine, pur autorevoli, sulla rete, che dovrebbero avere valore Socratico ovvero Maieutico, siano viceversa concepite secondo un’ottica – al più – nozionistica, vecchio stampo, catechetica, alla San Paolo.
L’Istruzione è fondamentalmente pura memoria di dati, di “nozioni”, tanto detestate nei ’70. Qualcuno ha detto che la Cultura è ciò che si sa quando si è dimenticato tutto.

[Fabio Sommella, 23 settembre 2023]

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