Quell’albero delle marasche, soglia etica e postuma oltre la Storia

A destra Mario Pizzolon, 21 luglio 2022 [Fonte https://www.facebook.com/photo/?fbid=1800744480317522&set=a.239222236469762]
Leggendo la raccolta poetica di Mario Pizzolon intitolata L’albero delle marasche – Il Leggio Libreria Editrice, collana La Nicchia, 2022, Chioggia (VE) – fin dalle prime liriche si avverte una peculiare sensazione, corroborata poi dalla lettura delle successive composizioni. Con il completamento della lettura dell’intera opera, questa sensazione diviene incontrovertibile e certa: la poesia di Mario sgorga, spontanea, dalla consapevolezza di un ben determinato limen, una soglia culturale ma anche geografica, che differenzia qualitativamente e in modo netto la visione del Mondo dell’autore dal comune sentire della quotidianità, del vivere ordinario, dal non porsi domande esistenziali bensì solo ovvie. Il potere evocativo di ciò può ricondurre il lettore attento alle prime proprie letture della giovinezza, quando i versi dei poeti classici ci facevano avvertire una sorta di arcano distacco dal Mondo, sollevandoci dai nostri affanni contingenti.

L’impatto, sulla coscienza del lettore sensibile, della percezione di questa soglia, di cui è intimamente intrisa la poesia di Mario, è davvero particolare. Esso, in maniera decisa, travalica le istanze temporali della contemporaneità, le diverse generazioni e anche la Storia; si va viceversa a collocare in un territorio e in una dimensione dove tutto appare sovratemporale e postumo, dove tutto è già accaduto. Così restano indelebili i pianti, siano questi quelli del vecchietto che sottrae un sacchetto di marasche all’indomani di un ennesimo piccolo-grande scempio ambientale; o quelli del non vedere più nulla, tantomeno morti, dopo l’apocalisse del Vajont, rammentata con scarni e scabri versi che solo la preghiera della chiosa può tentare di lenire.

È quindi in questa dimensione altra, di sospensione emotiva, in questa nowhere land dal sapore al contempo tanto primigenio quanto da giorno del giudizio, che tutti i protagonisti delle liriche e delle istanze poetiche di Mario si sono – in qualche modo e misura, in qualche luogo non meglio identificato – già incontrati. Essi, si avverte, hanno assimilato la consapevolezza del Vivere, della Natura, del Misticismo, delle domande della Scienza.

Nondimeno, leggendo i versi delle quattro sezioni poetiche, spesso al lettore – forse romantico – sembra di percorrere i silenzi dei lunghi viali di molte città delle tre Venezie, di incappare nei volti – al contempo sobri e coriacei, volitivi e caparbi (uno per tutti, quello di Dino Zoff) – dei suoi nativi, nelle loro anime perennemente sospese fra le memorie di una illustre civiltà contadina e le consapevolezze e curiosità di un futuro iper-tecnologizzato.

In un alveo bipolare, il poetare di Pizzolon, dagli originari e intimi nessi con le radici e i fusti delle piante, diviene bit informatico e sinapsi di neuroscienza, disgregando il proprio universo e disgregandosi a sua volta in dimensioni di quanti informazionali, pacchetti digitali, neuromediatori chimici.

Tutto, nella poesia di Mario, è quindi sondato ed esperito secondo una prospettiva etica postuma, anche il dolore odierno che però non diviene mai sterile rimpianto di un passato agognato o migliore ma lucida visione del suo frantumarsi in schegge di necessità. Queste, nel segno di una impersonale saggezza, mite ma ferma, restano a loro volta sovrastate da altre superiori necessità: dalle domande di un eterno procedere in un processo che non è lineare e che non ha termine – sarebbe fin troppo banale e ciò non appartiene a Mario – ma si autoalimenta degli eterni cicli del vivere, certo al di là dell’esistenza privata dei singoli bensì in un’ottica collettiva che tocca tutti noi.

La copertina de L’albero delle marasche

[Fabio Sommella, 25 luglio – 08 agosto 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Quel sogno grande di noi utopisti, ovvero Sandro Salvioli e gli Stolen Car

Per quelli della mia generazione certi sound sono elucubrativi di sonorità nostalgiche – brutta parola? No, non sempre e non certo in questo caso – e di paesaggi luminosi e profondi del tempo che fu. È quello che mi accade, spesso, ascoltando la band romana degli Stolen Car – una sorta di novella Schola Canthorum, allargabile e modificabile, in cui i componenti vanno e vengono come in una rediviva Accademia Platonica –  capitanata da quel puro e fine poeta/musicista che è Sandro – Alex, mi piace anche pensarlo, visto il Suo profondo amore per il rock made in USA, ma non solo – Salvioli.

Nato e cresciuto in quel di San Lorenzo – invero è significativamente più giovane di me, ma sento/avverto con Lui un canale di comunicazione e un connubio beyond the timeSandro Salvioli  conserva e sviluppa altresì ulteriormente quella verve della romanità più genuina contaminata – questa, viceversa, per me una indubbia magnifica espressione – da linfe vitali e culturali più diversificate, ovviamente non ultima quella d’Oltre Oceano. Dylan, Springsteen, Presley ma anche i Beatles e last but not least la Canzone D’autore più togata, sono infatti alcuni dei Suoi capisaldi, alcune delle molteplici anime artistiche che serpeggiano in Lui dando vita e forza alle Sue creazioni, sempre in bilico tra la Strada metropolitana e i viaggi alla Easy Rider (magnifici, Sandro, i Tuoi versi di incipit di quella poesia che io commentai su quel Social “Profumo di famiglia / Di abbracci, di voglia di cambiare il mondo / Di lotte, di aiuti, di felicità”).

Così capita con questo splendido video di questi giorni – girato dal poeta Suo amico Cony Ray – in uno dei tanti locali dell’Urbe in cui Sandro e gli Stolen Car sovente si esibiscono.

Guardate, questo frammento di video! Ascoltate il brano! Il suo testo ma – soprattutto – le sonorità.

Sarete catapultati – grazie al morbido sound, ai sapienti arrangiamenti, al controcanto vocale, al contrappunto del sax nel refrain – nelle atmosfere delle grandi speranze dei ’60-’70. Ciliegina sulla torta è quella coda di batteria in chiusura che suggella il Grande Sogno, la Grande Utopia di questi eterni ragazzi, di noi eterni ragazzi evergreen.

Grazie, Sandro amico nostro, a Te e alla Tua Band, per rinverdire questi sogni di una gloria non fine a sé stessa ma profondamente umana.

[Fabio Sommella, 15 luglio 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Quell’armonica, grido di speranza

Così parlò il Vecchio dell’Alpe, di Vittorio Rombolà (Progetto Cultura, 2022), è uno scritto di carattere teorematico o a tesi, considerabile romanzo breve o racconto lungo, che ruota attorno a due tematiche fondamentali: la prima è la dialettica fra opposti stili di vita nel mondo post-globalizzato e sempre più iper-tecnologizzato; la seconda è il bullismo.

Se i personaggi sono gli elementi di una storia che, insieme agli eventi che li coinvolgono, veicolano i significati della medesima, anche nel caso di questo romanzo i significati emergono grazie ai tre protagonisti: Gabriele, Valeria e Thomas. Quest’ultimo è il Vecchio dell’Alpe che conferisce il titolo al libro. Cercando di non far spoiler alcuno, cerchiamo di vedere come questi tre protagonisti veicolano questi significati.

Relativamente alla prima tematica, Valeria e Thomas sono, almeno inizialmente, figure antitetiche: Valeria è una ancor giovane e rampante professionista dell’informazione mediatica, sempre attiva e connessa (always on, potremmo dire) che, insieme a un operatore video (Gabriele), si reca in un delocalizzato luogo alpino, agli antipodi del mondo frenetico e tecnologizzato delle metropoli globalizzate, per conoscere e intervistare – nell’arco di due-tre giorni – un anziano e disincantato personaggio ancora energico, Thomas appunto.

Premesso che, come sempre nella Storia, il problema non è la Tecnologia in quanto tale bensì l’Uso che se ne fa (il Fattore e la Natura Umana docent), diciamo subito che se il personaggio di Valeria ricorda, come icona umana, la Donna in Carriera degli ’80, il personaggio di Thomas ricorda il Carl Gustav Jung dei ’50 che, negli ultimi anni della sua vita, appena poteva si ritirava nella sua Torre a Bollingen, “rinunciando al riscaldamento e all’acqua corrente, tagliandosi la legna per il fuoco e pompando l’acqua dal pozzo, in quanto questi gesti semplici rendono l’uomo semplice… e quanto è difficile essere semplice!” Ma ciò, ovviamente, mutatis mutandis, è vero solo a un primo livello.

Thomas infatti incarna una saggezza umana sovra secolare, millenaria (il Coriolano della latinità – che, dopo i trionfi militari, decideva di abbandonare i fulgori della gloria per tornare all’ameno suo podere – sovviene alla memoria), e molti sono gli echi anche recenti che si possono rintracciare nel folclore, non ultimo quello della musica popolare. Si pensi infatti al The Fool on the Hill, di beatlesiana memoria che “sees the sun going down and the eyes in his head see the world spinning round”; oppure al Manù di Stefano Rosso, il “gitano vecchio che da sopra la collina prende l’acqua dal suo secchio e c’innaffia la piantina e tra i panni stesi al vento, su due canne di bambù, dice al mostro di cemento tu non prenderai Manù.”

Storie eterne, storie comuni, quanto dissimili, se non per grado d’istruzione, dal sopracitato Carl Gustav Jung?

Si rimarca tutto ciò a significare che la dialettica fra Modernità, incalzante e incipiente, da una parte e, dall’altra, la Nostalgia di una Reale – o Presunta – Dimensione più Umana, in tutti i tempi e a tutte le latitudini è sempre stata avvertita. Si pensi anche all’icona dell’operaio del Charlie Chaplin di Tempi moderni; oppure, non ultimo, al quesito che, nel 1980, Erich Fromm – lo stesso che, nei primi anni ’30, in collaborazione con la Scuola di Francoforte, aveva approfondito il nesso vigente fra Struttura Istintuale e Struttura Economica (Cfr. Metodo e compito di una psicologia sociale-analitica) – si poneva ancora poco prima di morire: “Può un’intera società esser malata?” [https://www.youtube.com/watch?v=79Zp_XG0wmE]

Detto ciò, il primo tema si snoda e sviluppa lungo pagine di prosa ben scritta, attraverso lo sguardo dei due colleghi/collaboratori Valeria e Gabriele, sguardo che ha il sapore di una lunga soggettiva cinematografica dove immagini memorabili si levano potenti – ad esempio il volo dell’aquila – a significare lo spontaneo e naturale avvicinamento dei personaggi, la diminuzione delle distanze, la sintesi – in qualche misura – degli iniziali opposti dialettici.

Relativamente alla seconda tematica, il bullismo, Gabriele e Thomas appaiono non in un rapporto antitetico bensì in un rapporto, seppur indiretto, di Discepolo-Maestro. Gabriele, ora in qualche modo divenuto un valido operatore video, custodisce in sé penosi e dolorosi trascorsi di vittima di bullismo e, come tale, serba memorie lancinanti di annullamento della persona da parte del branco di turno. Di questi personaggi e dei relativi eventi, l’istanza narrante fornisce alcuni sporadici ma comunque fastidiosi spaccati, indugiando in qualche misura – oltremisura? – in dettagli crudi che rasentano l’efferatezza e lo splatter. Se da un lato, circa questa tematica, il lettore può cogliere echi letterari illustri – per citarne due, dal Demian di Hermann Hesse all’Agostino di Alberto Moravia – dall’altro lato il lettore si interroga circa l’integrazione, profonda o viceversa epidermica, di questa tematica con la precedente. Ovvero ci si chiede se la trattazione – ma ancor più il montaggio (in senso filmico-cinematografico) dei passi, degli episodi, degli antefatti, degli spaccati circa la sofferenza del bullizzato da parte degli odiosi bulli, sia opportuna; e non in senso assoluto, ma in modo relativo a quanto viene narrato.

Perché ci si chiede ciò?

Lo si chiede laddove un oggetto, solo apparentemente marginale, – nello specifico un’armonica a bocca – si carica e viene investito di un meraviglioso e solenne nonché sovratemporale significato: il legame e la continuità con il defunto padre biologico e con un, seppur simbolico, ritrovato padre. Questo avviene in una magnifica scena di commiato, da considerarsi a pieno l’acme del romanzo, evento che sarebbe pertanto sufficiente a chiuderlo. Il lettore si chiede viceversa come mai, in chiusura, si indugi di nuovo sulle efferatezze delle memorie del bullizzato, le quali non appaiono funzionali – a meno di altre finalità non colte, forse distrattamente – a veicolare alcunché di nuovo. Perché rimestare e continuare a dissotterrare ennesime memorie dal sottosuolo?

Non si domanda ciò per puro e banale desiderio di un lieto fine; ma perché, pur affascinati da una prosa efficace, in cui l’uso predominante dell’imperfetto conferisce una fluidità continua, ci si interroga circa il grado di effettiva integrazione dei due temi. Non si poteva cercare di renderli più visceralmente integrati, piuttosto che far applicare al racconto/teorema un abito che, almeno in alcuni passi, si avverte posticcio?

Pertanto, in una eventuale trasposizione filmica, al fine di cogliere completamente la più profonda e costruttiva critica alla società e al nostro tempo, si ritiene che la sceneggiatura sarebbe – almeno in parte – da rimontare, terminando con il magnifico episodio della riconsegna dell’armonica, grido di speranza.

Infine, in merito a quale uso di un testo di questa fattura e pretese, nella misura in cui la letteratura può avere valore pedagogico, si ritiene valida la seguente considerazione: se è vero che il problema del bullismo, prima ancor che di pertinenza dei giovani o dei giovanissimi è di pertinenza dei genitori dei medesimi, questo testo, come altri siffatti, attraverso le strutture territoriali di assistenza sociale, sarebbe da indirizzare e da rivolgere innanzitutto alle famiglie e soltanto in un secondo momento direttamente alle scuole.

Una speranza per l’evoluzione di una società comunque globalizzata e multietnica.

[Fabio Sommella, 11 giugno 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Giungla di città, giungla del Mondo – 5 maggio 2022

Dice “Rubano.” E quanti rubano? Quanti hanno da sempre rubato? Rubano i piccoli ladri, i “ladruncoli” – i Soliti Ignoti erano la “mala dal volto umano” – che magari inguaiano qualche povero disgraziato come loro, o qualcuno poco poco più fortunato, che ai loro occhi appare “privilegiato”. Ma rubano quelli a grande livello, su larga scala. Alcune – mica tutte, eh! – grandi organizzazioni, quelle criminali. Alcuni grandi servizi internazionali – multinazionali… ma certo sono pochissime, eh – e poi solo alcuni di quelli che sono in commercio – pochissimi pure loro, certamente.
E poi rubiamo – in qualche misura soltanto, però – noi, noi che abbiamo lavorato per anni in grosse organizzazioni, guadagnandoci le simpatie delle nostre clientele, fiduciosi – o illusi – che quel lavorare sia sempre fonte lecita di guadagno, che lo sarebbe pure se non fosse dettata e diretta da logiche di puro mercato – ohps – nonché da egoismi, apparenze, finzioni, falsità, meschinità, raggiri, bugie, arrivismi, invidie… tutta la vita così, nel grigiore impiegatizio, lontano dai criteri di giustizia, etica, libertà e rispetto.
Sono appena due settimane che mi hanno rubato il portafogli; alla mia donna, il giorno prima, la borsa – per fortuna non c’erano le chiavi di casa – e abbiamo dovuto rifare i vari documenti. L’amministrazione comunale, per le carte d’identità, ti chiede vari mesi: nei pressi del nostro quartiere ci hanno fissato le prenotazioni – malgrado il furto – tra sei mesi! Da morire dal ridere, per non piangere! Forse, dopo PEC di protesta alle istituzioni, riusciamo prima [NdR: confermato, ci siamo riusciti!] Altrimenti come dire: dopo il danno del ladrocinio, la beffa dei disservizi.
Intanto continuano i furti. Una comune amica è stata pure rapinata della borsa, con portafogli, bancomat, smartphone e chiavi di casa; per rientrare nella sua abitazione, dopo circa dieci ore, ha dovuto chiamare i vigili del fuoco, perché anche i fabbri non riuscivano a forzare la porta di casa (“C’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra” [Lucio Dalla]) e i pompieri si son dovuti issare dall’esterno con le loro mega-scale, forzando la finestra del balcone all’ottavo piano. L’hanno derubata in due, mentre era in auto e stava parcheggiando: uno le ha chiesto un’informazione e lei, dal finestrino, ha risposto; l’altro, dalla parte opposta, ha aperto lo sportello e ha sottratto la sua borsa. Dice che lei non si è accorta di nulla. Solo quando doveva scendere si è resa conto, poverina, che le mancavano le sue cose. E dice pure che d’ora in poi, seppure dovesse vedere una persona morente in strada, non si avvicinerà per paura che sia un tranello. Non condivido ma non riesco a darle torto!
Ma, chiedo: non è solo un problema di avidità? A tutti i livelli? Su piccola e su grande scala? OK: il Covid, le multinazionali, la Guerra, la finanza, la povertà, la fame… ma gli altri? Devono essere solo vittime?
Non mi rassegno a vivere così, come le formiche a centellinare le proprie provvigioni per le cattive stagioni, attente all’uscio e allo straniero.
[Fabio Sommella, 05 maggio 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Quella meravigliosa ragnatela invisibile (l’Io e il Football)

Con il Football aveva sempre avuto poco a che fare, lui, da piccolo pingue e miope; erano fatti episodici, ridotti alle scorribande all’ora di ginnastica alle medie o ai pomeriggi estivi nel cortile sotto casa. Però non poteva dimenticare il fulgore di Pelé, l’arte sopraffina di Gianni Rivera, la poesia calcistica di Roberto Baggio: il Football come metafora dell’esistenza.

Non poteva dimenticare, poi, alcuni aforismi: “Il segreto della vita è il dubbio” [Zbigniew Boniek] e poi quello – così semplice ma così umano – di un altro di quel tempo; quando l’intervistatore gli aveva chiesto “Chi vorresti essere?”, quel tale aveva risposto “Quello che di tanto in tanto penso di essere, sempre con molti dubbi!” Quel tale si chiamava Arthur Antunes Coimbra, ma il suo nome d’arte era Zico.

Era persuaso che un meraviglioso Filo – una Ragnatela, ai più invisibile – di Intelligenze e Sensibilità attraversasse il Mondo e le Epoche, contaminando, con le proprie Linfe ancestrali, l’esistenza di ciascuno.

[Fabio Sommella, 24 maggio 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Aveva ragione Soren (Etichette e Annullamenti) – 24 maggio 2022

“Semplici” aree d’interesse quali la letteratura o l’informatica, la biologia o la musica, in cui agiamo in modo naturale,  creativo e professionale, talvolta – spesso? –  diventano “ghetti” in cui vengono cristallizzate le nostre esperienze ed essenze. Ciò avviene in quanto una spontanea – indotta culturalmente? – tendenza  umana, quella di catalogare (che può esser adeguata per la Tassonomia delle Scienze Naturali! 🙂) e incasellare il flusso vitale, ha necessità di relegare in settori circoscritti e sovente angusti le nostre eterogenee spinte a conoscere e a esperire il Mondo. Tutto ciò fondamentalmente avviene privilegiando i Purismi invece delle Contaminazioni culturali. Ne sanno molto, in merito a questo approccio esclusivo che tende a emarginare e a definire recinti ben delimitati, gli Specialisti delle più svariate Organizzazioni.

“Etichettami e mi annullerai”, affermava Soren Kierkegaard.

[Fabio Sommella, 24 maggio 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Due luoghi e due misure (Contravvenzioni e barbarie)

Ormai Enrico lo sa: c’è solo la scelta. La scelta di sapere come morirà. Se non di covid o di effetti collaterali da vaccino, forse di qualche “brutta” malattia. Oppure d’infarto. Oppure, con buona probabilità, investito. No, non da un’auto, come spesso purtroppo accade, o da una moto o addirittura da una bicicletta (quante, pure, vanno veloci sui marciapiedi? O, sulle piste ciclabili, sfrecciano in barba alla città e ai passanti impreparati?) Ma da un monopattino. Sì, uno di quei “moderni” dispositivi elettrici a due ruote che, giustamente, per snellire il traffico, sono l’ideale. E poi – diciamolo – la tecnologia ben venga, no?

«Sai, ho ricevuto una contravvenzione», gli dice Mariangela.

«Quando?», le risponde Enrico.

«Due mesi fa.»

«E dove eri?»

«Non ti ricordi? Eravamo andati al lago. Percorrevamo la Salaria e…»

«Ah, già… il controllo elettronico della velocità… ma tu vai sempre piano, tanto che dietro a te si forma puntualmente la coda e ti suonano!»

«Già, infatti il mio eccesso di velocità era cinquantacinque – 55 – chilometri orari.»

«Cinquantacinque?»

«Sì: il limite era cinquanta… ma la strada era tutta deserta e non me ne sono accorta!»

«Ma certo, figurati. Che dire? Lasciamo stare…»

«Invece qui, in tutti i quartieri di Roma, hai visto come parcheggiano le auto?»

«Già», risponde lui, «ma dove sono i vigili urbani?»

«E fossero solo le auto sulle strisce: hai visto i monopattini? C’è solo l’imbarazzo della scelta.»

«Ma cos’è? “Parcheggio selvaggio”?»

«Di sera, la mamma di Rosaria, che non vede bene, una volta – era buio – ci ha inciampato.»

«Fosse solo quello: l’altro giorno mi hanno sfiorato e, per poco, non cadevo. Era un deficiente che col suo monopattino è sfrecciato sul marciapiede. Mi ha urtato al braccio e stavo cadendo. Si è appena girato per gridare “Scusa”. Ma scusa a che? Imparasse a vivere.»

«Deve scapparci un altro morto? Come a Parigi, quella povera giovane…»

«Lo so… fa più rabbia o pena? A poco più di trent’anni, morire in quel modo.»

Tacciono, Enrico e Mariangela. Tacciono, rattristati e impotenti. Poi lui riprende: « Quei due ruote elettrici, son stati dati in carico a tante tante persone. E, alcune di queste, sono purtroppo degli emeriti imbecilli, o immaturi o incoscienti, il che fa lo stesso. Come quando ho chiamato i vigili urbani per lamentare quell’ennesimo parcheggio selvaggio d’un monopattino in mezzo al marciapiede. Mi hanno rimbalzato da un numero a un altro e, alla fine, dopo venti minuti, mi hanno chiesto “Chi le ha passato questo numero?” ed è caduta la telefonata. Segnalo gli abusi – perché abusi sono, no? – anche al sito e alle pagine delle autorità senza ricevere alcuna risposta. Gli ho scritto che “non servono denunce ma una campagna capillare di civilizzazione e sensibilizzazione a più livelli e Voi, come Comune, oltre la Scuola – con l’Educazione Civica che non si studia più perché la Società è Globalizzata ma l’Antropologia Culturale neppure perhé è di là da venire – avreste la facoltà e il dovere d’intervenire contro questa ulteriore deriva urbana e, più in generale, della società tutta.” Però mi sa che si sono messi a ridere.»

«Tuttavia la contravvenzione di eccesso di velocità sulla Salaria – cinquantacinque chilometri orari su strada deserta di traffico – arriva puntuale», torna a ribadire Mariangela.

«Eh, ma sai, sono due luoghi diversi; poi una è la polizia stradale d’un territorio – un comune – fuori città, altro sono i quartieri di Roma, affollati, ingorgati di traffico, i vigili urbani che hanno tanto altro da fare…»

«Le contravvenzioni e la barbarie… ma non è sempre lo Stato?», chiede Mariangela.

«Due luoghi e due misure…», chiosa Enrico. «Lo so di cosa moriremo.»

FINE

[Fabio Sommella, 30 novembre 2021]

 

In sottofondo, la mia composizione Tempo di fiabe

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Il rifiuto di alzare il volume del sole, ovvero Marco Piacente e Stefano Trabalza

Stefano Trabalza (a sinistra) e Marco Piacente (a destra).

È grazie a Tito Schipa Junior e ai suoi seminari telematici che – oltre ai capisaldi dell’Opera Lirica e ai suoi nessi tanto con il Musical che con il Rock, nonché in generale con il Bel Canto e in particolare con la Canzone Napoletana – ho avuto modo di conoscere, pur sommariamente, l’arte di Marco Piacente e Stefano Trabalza, due compianti artisti e musicisti italiani.

Marco Piacente

Non conoscevo nulla, e continuo a conoscere ancora poco, delle loro vite, se non che le medesime dovrebbero essere iniziate attorno al 1950 e, purtroppo, si sono concluse da qualche anno, dopo il 2010. Ci ha detto Tito che Marco era originario dell’Abruzzo (Villa San Sebastiano) e Stefano dell’Umbria (Bevagna) e che entrambi, giovanissimi, si erano ritrovati a Roma – legandosi di forte amicizia fino a stabilire un altrettanto solido sodalizio artistico – con le loro famiglie, tanto che ascoltandoli parlare e cantare possono essere scambiati per romani doc. Inoltre so che hanno frequentato il liceo classico Tito Lucrezio Caro, presumibilmente attorno agli anni ’60-‘70. Poi ho potuto verificare che Marco ha avuto un’ulteriore formazione, ampia ed eterogenea, che spaziava dal conservatorio alla filosofia.

Stefano Trabalza

Ma al di là di questi dettagli di formazione, vedendo il video del loro spettacolo teatrale IL VOLUME DEL SOLE, girato nel Teatro in Trastevere il 27 giugno 1985 (ai tempi dell’Estate Romana di Renato Nicolini) da Tito Schipa Junior – loro mentore e amico – ciò che appare notevole, nel modus del loro duo – due come i Vianella ma anche due come Simon & Garfunkel – è la capacità di spaziare dalla romanità più autentica – seppure, come detto sopra, acquisita – a molteplici altri generi  espressivi, non ultima la musica colta, essendo stato Marco autore di musica sacra nonché di altra vasta e variegata produzione.

IL VOLUME DEL SOLE, titolo ripreso da uno dei versi dei loro canti, forse uno dei più demenziali, è una geniale intuizione, uno spettacolo al confine fra vari generi: teatro dialettale propriamente detto, commedia dell’arte, teatro dell’assurdo, cabaret, musical, satira di costume.

Oltre ai generi teatrali, si colgono però innumerevoli e disparati echi musicali: la canzone d’autore (bello il riferimento a Guccini) dei dieci-quindici anni precedenti, i parallelismi con i grandi nomi dei ’60-’70 quali i Beatles o Mogol-Battisti, passando per la Stagione dei gruppi Beat, ma certo anche il blues, la canzone folk inglese e la canzone dialettale abruzzese, quella vernacolare romanesca con argute e robuste evocazioni che spaziano da Fiorini a Califano, le più antiche stornellate alla Balzani nonché le ballate dei cantastorie.

Se poi guardiamo alle contemporaneità non sono escluse altre poderose influenze: dalle gag di Verdone alla mimica e gestualità alla Benigni nonché quella partenopea di Troisi. Ma da qui si può ripartire, all’indietro nel tempo, ritrovando illustri predecessori: godibile è il riferimento manifesto a Ciccio Formaggio o quello certo più velato ai Fratelli De Rege. Infine si può tornare avanti nel tempo incontrando il non-sense alla Rino Gaetano e alla Stefano Rosso. Insomma si colgono riverberi di molteplici forme di teatro e spettacolo, anche dissacrante e irriverente, fra satira di costume e tanta autoironia.

Malgrado questa ricchezza di riferimenti ed evocazioni, IL VOLUME DEL SOLE è piece teatral-musicale d’impianto fortemente minimalista, sorta di storia della scarsità, laddove Marco e Stefano appaiono in scena uno in “canotta” e l’altro a torso nudo, abiti certo idonei per sproloquiare sulle loro vicissitudini amorose con le donne. In questo modo, riemergendo come da labirinti onirici, i due intessono dialoghi serrati e disperati in bilico tra imprinting d’innamoramenti e citazioni hegeliane, sospesi fra letture di Topolino e progetti di seduzione, si confessano attorno a un tavolo con due sedie che troneggiano al centro d’una scena scarna ed essenziale: sullo sfondo un piano cottura con bottiglie e macchina del caffè, a destra una scansia/madia di quelle che usavano le nostre nonne. Negli intervalli imbracciano sapientemente le loro chitarre per suonare e intonare canti allegri o struggenti, spesso paradossali e grotteschi (“Non serve alzare IL VOLUME DEL SOLE”), in uno spettacolo in cui si ride pensando ed emozionandosi.

In definitiva IL VOLUME DEL SOLE è un cofanetto che, sotto la scorza del minimalismo scenico, racchiude molteplici gemme preziose.

Tutto ciò che ho scritto fin qui, tuttavia, non esaurisce quanto Marco Piacente (www.marcopiacente.it.) e Stefano Trabalza hanno espresso e realizzato in altri ambiti. Si pensi ad esempio allo splendido brano Che ce vo composto da Marco, divenuto ad opera di Franco Califano il Semo gente de Borgata de I Vianella; senza nulla togliere a questi ultimi, nella versione originale il brano possedeva altro significato, maggior equilibrio testuale-musicale e quindi maggior afflato poetico.

Grazie, pertanto, a Tito Schipa Junior per averci guidato anche su parte della via percorsa da Marco Piacente e Stefano Trabalza che, di certo, hanno lasciato un segno, umano e culturale, del loro passaggio; segno ancora da scoprire in pieno esplorandolo ulteriormente.

[Fabio Sommella, 13 novembre 2021]

Stefano Trabalza (a sinistra) e Marco Piacente (a destra).

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)