Ora

Al di là

degli anni

della stanchezza

della malattia

della solitudine,

ora.

 

[Fabio, 10 settembre 2019]

 

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Quello che corre sulla Savana…

Mi sento solo, come ai miei dieci anni, o giù di lì. Allora erano le estati. Mio fratello era già fuori. Io ero in casa con mia madre. La finestra della stanza aperta (era estate!) Io, seduto sulla poltrona, quella di fianco al mobil letto. Mi rivedo: sto leggendo – ormai ho imparato, e non faccio più “tsktsk…”, come quando più piccolo guardavo le figure dei Topolini, fingendo di leggere quasi in codice Morse – sì; sto leggendo dei Tex, quelli a strisce da cinquanta lire, col cartoncino più spesso sul lato sinistro… come dire? “Rilegati”, e non con le crappette sempre sul lato sinistro, perché quelli erano i fascicoletti da trenta lire, di appena qualche anno prima.

Quindi sto leggendo Tex: è l’avventura importante contro Mefisto… sì, certo, contro Mefisto ce ne sono state già due, forse tre: ma questa è quando Mefisto si allea poi con il Baron Samedi e un gigantesco nero – di nome Dambo? – in Florida, a Tampa… insomma, stabilisce un’alleanza con un folle, scappato da un manicomio – ne abbiamo, adesso, anche qui, tra i personaggi pubblici? – e decide di sollevare la nazione Nera. Ci sono una miriade di neri, coperti da pelli di leopardo, che si muovono sinuosi e insidiosi lungo le acque della Savana dove, dice uno dei titoli, corre il Terrore. E loro due – Mefisto e Samedi – vivono in un castello di stampo medievale, nel cuore della Savana, da cui con un potente organo a canne, nei momenti di crisi mentale (!?!) di entrambi, o forse solo di uno di loro, s’irradiano tetre musiche in tutto lo sterminato aere circostante, in quel territorio, tra gli alberi, tra gli arbusti, fra i torrenti, i rivi, le vegetazioni, fino ai cieli della Florida.

Galep e Bonelli, sicuramente, diedero del loro meglio in quella sontuosa avventura che occupò, se non sbaglio, tra i quindici e i venti fascicoli da cinquanta lire.

Naturalmente Tex e Kit Carson – forse anche Kit Willer e Tiger Jack – sono chiamati ad affiancare le autorità militari del posto per sgominare la pericolosa congrega criminale di Mefisto, Samedi e compagnia.

Mi sento solo – adesso – come allora: allora ero su quella poltrona, a leggere queste storie, colorite, colorate seppure bianco e nero – era il ’68 – e trascorrevo le mattine attendendo chissà cosa: mio padre dal lavoro? Mio fratello dal mare? Il mio mare? Il trasferimento nella nuova casa, fuori, ai Castelli? – Romani, non Medievali! – Che tornasse ottobre? La crescita? Nuovi amici?

Intanto fuori era il Maggio, o era appena passato. File infinite di giovani variopinti popolavano le strade di Roma, in una promessa di protesta, d’amore, di gioia. Io avevo appena compiuto la Prima Comunione, insieme ai miei amici e amiche di Scuola da cinque sei anni – amici dai tempi dell’Asilo – che però non avrei più rivisto, perché, di lì a breve, avremmo cambiato casa, zona, quartiere. Quindi: nuovi amici, nuove scuole, nuove zone.

E cantavano le canzoni del tempo…

Mi sento solo – adesso – come allora. In ferie dall’annoso lavoro aziendale – cerco di riscattarmi facendo tante altre cose – mio figlio fuori all’UNI e poi, in serata, ai cinema-teatro di Roma – l’Adriano? Memorie di Beatles… – mia moglie, ormai, via da quel dì… i nuovi amori, lontani tutti… i cari amici, sentiti, spesso, ma non bastano, non riempiono, non saturano… guardo all’arco degli anni, dei decenni – tanti, troppi – trascorsi e… allibisco. Un cuore, una mente, da eterno ragazzo e un corpo e un’anagrafica – come ha detto stamane un carissimo amico per entrambi noi – da gerontocomio… inciampi in anomali scalini di bus-navetta, urti contro reti stradali invisibili ai tuoi occhi, ti scontri (!?!) contro pali stradali alla sera… passino pure i dislivelli o i marciapiedi non visti… ma che è?

E sembra allora che non sia passato poi tanto tempo… o che tutto il tempo passato, insieme ai suoi tanti eventi, ai trenta, quaranta, cinquanta anni – siano così… relativi, fatui, inutili – eh, certo, no, non del tutto, è? – sommari, tenui, scomparsi, imprevedibili, invisibili…

Così ti adagi in una nuova sorta di poltrona: attendi l’estate? Il mare? Tuo figlio? Un qualche recondito evento che ti faccia sentire… sentire vivo?

Nel frattempo ti raccomandi a Tex e ai suoi fedeli pards: non sparate, non sparate con l’artiglieria pesante: Mefisto e Samedi e Dambo sono anch’io, perché siamo tutti dei buoni amici, in definitiva… e, quello che corre sulla Savana, non è Terrore… è solo Vita!

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

In quell’aria, si può – V01

L’aveva veduta. Lui stava trascinando il suo passo sghembo nell’apoteosi d’un altro pomeriggio inutile. In quel lungo fine settimana, poi, la scorse in quel convitto. Era sola. Lui era stato invitato da quei suoi amici.

Belle le sue letture letterarie. Quando lei iniziava, la platea d’intorno taceva. Calava un silenzio solenne. Non era solo rispetto per la persona. Per colei che iniziava a leggere un testo. Suo appassionato lavoro amatoriale No! Era altro. Era fascinazione. Fascinazione per quegli occhi. Per quella voce. Per quelle intonazioni. Per quelle espressioni. Per quella persona. Lui ne rimase catturato. Come molti lo erano stati, prima. Anche lì. Ma gli altri la conoscevano, Sapevano dei vuoti di lei. Delle sue resistenze. Di quanto fosse restia a qualsiasi avance.

Nell’intervallo – dissetandosi dalle seti nascoste di quell’inverno – aveva scoperto di lei. Era contabile. Impiegata in un lussuoso studio commercialistico. Uno dei maggiori, in città. E lui aveva incominciato a immaginarla. Il giorno, alle prese con formule astruse, procedure di contabilizzazione, registri di clienti e fornitori, parcelle, partite doppie. E, chi più ne ha, più ne metta. Tutte quelle cose a cui avevano cercato di addestrarlo, quando era bambino. E che lui aveva sempre rifiutato. Recalcitrante, lui sì, a tutte le sollecitazioni che non fossero l’attimo, il momento impercettibile al pensiero, che quando lo pensi è già passato. Il principio d’indeterminazione, che imparò a cogliere nella sua musica. Al pianoforte, quando lasciava scorrere mani e dita, sull’universo della tastiera.

Così aveva solo scambiato delle parole rapide e fugaci, con lei. «Sei collega di Piera?», le aveva chiesto. «No», gli aveva risposto, sorridendo con garbo. Poi l’aveva informato del suo lavoro da impiegata. Appena il tempo per questo. Perché poi l’attimo era trascorso. E, lui, si era ritrovato come sempre indietro. In credito. Dal mondo, in credito. Lo era da quando Angela se n’era andata, per non tornare più. Irrevocabilmente. E, adesso, osservava lei – la sua lettrice – che   gli voltava le spalle per parlare con la madre di Piera. Erano tanto amiche. Gentilissima anziana signora, avvezza alle rappresentazioni. Quelle teatrali. Lui, nella madre di Piera, rivedeva sua nonna. Ma anche sua madre. Rivedeva quell’antico universo femminile consueto. Uno stuolo di madri, nonne, zie, tra le quali era cresciuto. Fu quando suo nonno era morto. E suo padre aveva abbandonato sua madre. E lui si disse: «Io non lo farò mai.» Certo: infatti, poi, ci aveva pensato Angela a lasciarlo.

Ora stava lì: in quella folla di quel loft, piccolo salotto letterario. Con Piera, amica comune, regina del proprio salotto. Piccola madame De Stael dei nostri giorni. Curatrice di eventi. E di presentazioni. Critica d’arte e letteraria. E lui lasciava andare la mente. Immersa in un gracidare di voci crescenti. Ammirando quella che ormai era la sua lettrice. Fino ad andarsene, anch’ella. Salutando compita, avviandosi.

Come l’allodola di Pavese, la lascia volare. Senza neanche la forza di proibire quel volo. Fino a tornar solo. Alla sua spoglia magione. In stanza. Dove rammenta, lei. Suadente nella voce. Anche quando parlava di aranciate e cocacole. Così a modo. Così placida. E, all’infuori di ciò, ancor sola. Schiva. Eppur cortese. Refrattaria, ma garbata. Coglie consuetudine. Nei dialoghi, musica alle orecchie. Abituate al silenzio. Alle pause musicali. Consuetudine per la sua educazione. Per la sua cultura. Quella famigliare. Perché lei era abitudinaria, ma sensibile.

E immagina. Fantastica. La incontra.

S’incontrano nel punto in cui muore la città. Laddove il giorno perde l’irruenza. E i ritmi si smorzano. Cedono il passo a insospettati silenzi. Spazi di quiete sono le sagome dei rami d’alberi: si stagliano contro le luci dell’alba. È limpida. Senza nubi. E la città serba minuscole vibrazioni. Son quelle del buio di pocanzi. O s’incontrano nella luce d’un tramonto. Suoni e rumori si diradano. S’allontanano in echi sovrumani. Quando sembra che Dio sia sceso di nuovo a quietar forze in conflitto. Sedare gli animi. I più ritrosi alla pace. Quando la divinità ordina e lancia la tregua.

Ecco: è allora che l’incedere di passi lesti si avverte sul marciapiede. Si è appena usciti dal Metro. Ed é proprio lei, che torna a casa. La giornata è trascorsa tra fatture e richieste di rimborsi. Lo studio è in attivo. E lei adesso dirige sé stessa, con passi furtivi, al portone. In fondo allo sguardo reca un’ombra. Lui la scruta. Entra in quello sguardo, oltre quegli iridi meravigliosi. Sono tinti d’un azzurro acceso. Intenso. Infinito. Sono i cieli della sua infanzia. Quando la mano del nonno lo conduceva benevola. In quello sguardo di lettrice è un senso. Inconsapevole. È nostalgia. Nostalgia per quella carezza. Le manca da tempo. La sublima nelle sue letture. Ritrovandovi sé stessa. Donando fascinazione. A tutti. Agli astanti. Oltre lo sporco. Oltre la violenza, Oltre il rumore della città. Oltre la tristezza. Oltre le becere volgarità.

Lui la osserva.

In testa suona un’aria. Come fosse Ludovico Einaudi, si mette al piano. Per lei comporrà, come su una canvas, colori d’arcobaleno. Rarefatte intonazioni. Di luci e ombre. Oltre il traffico. Oltre il frastuono. Oltre lo sporco. Oltre l’inquinamento. Oltre la violenza. Oltre la tristezza. Oltre il convulso andare.

Negli iridi di lei.

In quell’aria, si può.

FINE

 

[Fabio Sommella, 12 febbraio 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Romualdo – Bozzetto per l’uomo solo, per il pensionato che è in noi.

«Eccolo che arriva», fa Eleonora alla sua collega Anna. Da lontano vedono Romualdo – alto, stempiato, pochi capelli bianchi, gli occhiali dorati, una camicia celestina finemente stirata che gli cade addosso come un mantello d’altri tempi – procedere verso di loro. «Come al solito, vedrai» continua Eleonora a dire ad Anna «avrà preso un articolo da due euro e pretenderà di pagare con cinquanta. Sono le 8:40 di mattina. La cassa è vuota perché il supermercato ha aperto da pochissimo e lui pretende di ricevere il resto.»

«Ma perché fa così?», chiede Anna.

«È un’abitudine che ha. Si fida di noi. Sa che i soldi noi li controlliamo. Gli cambiamo le banconote da cinquanta. Non si fida di nessun’altro. Ha paura che, quando va a fare la spesa altrove, gli diano dei soldi falsi. Ma almeno venisse alle undici.»

Ed è così, infatti. Romualdo procede verso la cassa, porge il suo articolo da due euro e dieci e poi, subito appresso, c’è la banconota da cinquanta. «Guardi, questa volta ancora gliela cambio», fa Eleonora con un cipiglio severo. «Ma non è possibile, non abbiamo sempre i soldi in cassa, così presto a quest’ora.

«Ha ragione, signora mia, ma… che ci vuol fare», dice Romualdo, quasi arrossendo, con un senso di umiliazione che cerca di ottenebrare con il suo sorriso antico. «Ha ragione, signora», ripete ancora «ma cosa ci posso fare», biascica ulteriormente. E così prende i soldi di resto, il suo articoletto da due euro e dieci e si allontana.

Da quando la moglie lo ha lasciato, ormai da due anni, Romualdo vive solo. Ha ottantuno anni e non sa più che fare della sua vita. E non si fida più di niente e di nessuno, in questo mondo. Gli sembra che i soldi che si porta appresso vadano via come l’acqua fresca. Ma soprattutto ha timore: timore di essere truffato, di essere frodato. Che gli appioppino banconote da dieci o venti euro false. Così esce fuori dal supermercato e si incammina verso casa sua. «Che acida, quella donna!», dice tra sé e sé. Certo, pure lui forse esagera. E percorrendo la strada ripercorre la sua vita. Che gli sembra un lampo. Un lampo che si conclude nel vuoto. Cosa farà, oggi?

Infila la chiave nella toppa del portone. Entra. Fa i quattro scalini che lo separano dell’ascensore. E poi la chiama. Chiama l’ascensore, chiama sua moglie. È passato tanto tempo, da quando non c’è più. Poco tempo in confronto agli oltre sessant’anni che hanno vissuto assieme. Erano ragazzini. Si conoscevano da quando avevano finito la scuola. E lui doveva iniziare a lavorare come apprendista in quella fabbrica di vernici. Quanti ricordi. I ricordi d’una vita. E adesso, che gli resta? Se non cambiare le banconote a un supermercato, con la fiducia e la speranza che la pensione gli basti fino a fine mese? E possa vivere ancora qualche giorno? I figli lontani, i nipoti che non vede mai. A cosa serve, ancora, questa vita? A cosa serve, lui?