In quell’aria, si può – V01

L’aveva veduta. Lui stava trascinando il suo passo sghembo nell’apoteosi d’un altro pomeriggio inutile. In quel lungo fine settimana, poi, la scorse in quel convitto. Era sola. Lui era stato invitato da quei suoi amici.

Belle le sue letture letterarie. Quando lei iniziava, la platea d’intorno taceva. Calava un silenzio solenne. Non era solo rispetto per la persona. Per colei che iniziava a leggere un testo. Suo appassionato lavoro amatoriale No! Era altro. Era fascinazione. Fascinazione per quegli occhi. Per quella voce. Per quelle intonazioni. Per quelle espressioni. Per quella persona. Lui ne rimase catturato. Come molti lo erano stati, prima. Anche lì. Ma gli altri la conoscevano, Sapevano dei vuoti di lei. Delle sue resistenze. Di quanto fosse restia a qualsiasi avance.

Nell’intervallo – dissetandosi dalle seti nascoste di quell’inverno – aveva scoperto di lei. Era contabile. Impiegata in un lussuoso studio commercialistico. Uno dei maggiori, in città. E lui aveva incominciato a immaginarla. Il giorno, alle prese con formule astruse, procedure di contabilizzazione, registri di clienti e fornitori, parcelle, partite doppie. E, chi più ne ha, più ne metta. Tutte quelle cose a cui avevano cercato di addestrarlo, quando era bambino. E che lui aveva sempre rifiutato. Recalcitrante, lui sì, a tutte le sollecitazioni che non fossero l’attimo, il momento impercettibile al pensiero, che quando lo pensi è già passato. Il principio d’indeterminazione, che imparò a cogliere nella sua musica. Al pianoforte, quando lasciava scorrere mani e dita, sull’universo della tastiera.

Così aveva solo scambiato delle parole rapide e fugaci, con lei. «Sei collega di Piera?», le aveva chiesto. «No», gli aveva risposto, sorridendo con garbo. Poi l’aveva informato del suo lavoro da impiegata. Appena il tempo per questo. Perché poi l’attimo era trascorso. E, lui, si era ritrovato come sempre indietro. In credito. Dal mondo, in credito. Lo era da quando Angela se n’era andata, per non tornare più. Irrevocabilmente. E, adesso, osservava lei – la sua lettrice – che   gli voltava le spalle per parlare con la madre di Piera. Erano tanto amiche. Gentilissima anziana signora, avvezza alle rappresentazioni. Quelle teatrali. Lui, nella madre di Piera, rivedeva sua nonna. Ma anche sua madre. Rivedeva quell’antico universo femminile consueto. Uno stuolo di madri, nonne, zie, tra le quali era cresciuto. Fu quando suo nonno era morto. E suo padre aveva abbandonato sua madre. E lui si disse: «Io non lo farò mai.» Certo: infatti, poi, ci aveva pensato Angela a lasciarlo.

Ora stava lì: in quella folla di quel loft, piccolo salotto letterario. Con Piera, amica comune, regina del proprio salotto. Piccola madame De Stael dei nostri giorni. Curatrice di eventi. E di presentazioni. Critica d’arte e letteraria. E lui lasciava andare la mente. Immersa in un gracidare di voci crescenti. Ammirando quella che ormai era la sua lettrice. Fino ad andarsene, anch’ella. Salutando compita, avviandosi.

Come l’allodola di Pavese, la lascia volare. Senza neanche la forza di proibire quel volo. Fino a tornar solo. Alla sua spoglia magione. In stanza. Dove rammenta, lei. Suadente nella voce. Anche quando parlava di aranciate e cocacole. Così a modo. Così placida. E, all’infuori di ciò, ancor sola. Schiva. Eppur cortese. Refrattaria, ma garbata. Coglie consuetudine. Nei dialoghi, musica alle orecchie. Abituate al silenzio. Alle pause musicali. Consuetudine per la sua educazione. Per la sua cultura. Quella famigliare. Perché lei era abitudinaria, ma sensibile.

E immagina. Fantastica. La incontra.

S’incontrano nel punto in cui muore la città. Laddove il giorno perde l’irruenza. E i ritmi si smorzano. Cedono il passo a insospettati silenzi. Spazi di quiete sono le sagome dei rami d’alberi: si stagliano contro le luci dell’alba. È limpida. Senza nubi. E la città serba minuscole vibrazioni. Son quelle del buio di pocanzi. O s’incontrano nella luce d’un tramonto. Suoni e rumori si diradano. S’allontanano in echi sovrumani. Quando sembra che Dio sia sceso di nuovo a quietar forze in conflitto. Sedare gli animi. I più ritrosi alla pace. Quando la divinità ordina e lancia la tregua.

Ecco: è allora che l’incedere di passi lesti si avverte sul marciapiede. Si è appena usciti dal Metro. Ed é proprio lei, che torna a casa. La giornata è trascorsa tra fatture e richieste di rimborsi. Lo studio è in attivo. E lei adesso dirige sé stessa, con passi furtivi, al portone. In fondo allo sguardo reca un’ombra. Lui la scruta. Entra in quello sguardo, oltre quegli iridi meravigliosi. Sono tinti d’un azzurro acceso. Intenso. Infinito. Sono i cieli della sua infanzia. Quando la mano del nonno lo conduceva benevola. In quello sguardo di lettrice è un senso. Inconsapevole. È nostalgia. Nostalgia per quella carezza. Le manca da tempo. La sublima nelle sue letture. Ritrovandovi sé stessa. Donando fascinazione. A tutti. Agli astanti. Oltre lo sporco. Oltre la violenza, Oltre il rumore della città. Oltre la tristezza. Oltre le becere volgarità.

Lui la osserva.

In testa suona un’aria. Come fosse Ludovico Einaudi, si mette al piano. Per lei comporrà, come su una canvas, colori d’arcobaleno. Rarefatte intonazioni. Di luci e ombre. Oltre il traffico. Oltre il frastuono. Oltre lo sporco. Oltre l’inquinamento. Oltre la violenza. Oltre la tristezza. Oltre il convulso andare.

Negli iridi di lei.

In quell’aria, si può.

FINE

 

[Fabio Sommella, 12 febbraio 2019]

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