Ricordando Gigi, ma anche Soldatino, King e D’Artagnan: professione … vincenti!

Forse uno dei modi migliori per ricordare Gigi Proietti è rileggere una splendida lirica che, lui, compose a quattro mani con Roberto Lerici: Questo amore.

Altro modo – degno? Indegno? – è quest’altra lirica, in vernacolo romanesco (e chiedo scusa ai puristi), da me composta qualche giorno dopo la sua scomparsa.

Non so se, con il tempo, si aggiungeranno altri contributi. Tuttavia propongo, qui di seguito, anche un estratto del mio Il cambio della guardia in cui, fra gli altri, parlo dell’arcinoto film di Steno del 1976 Febbre da cavallo. Si tratta di una tarda Commedia all’Italiana – a mio avviso vero e proprio “canto del cigno” del genere propriamente detto (in quanto, la successiva produzione, acquisterà sempre più i caratteri della Commedia della Contemporaneità) – nel quale il grande e amatissimo attore scomparso ieri  – decisamente uno dei più grandi di sempre – sfoggia parte delle sue massime doti di istrione e mattatore, in una parola Mandrake.

Che la terra gli sia lieve, così come è stata la sua indubbia arte nella vita.  ❤️ [Fabio Sommella, Roma, 3 novembre 2020]

Febbre da cavallo, titolo di Steno del 1976, estremo baluardo di irriducibili goliardici giovanotti fuori del tempo e delle cognizioni sociali, pur nel suo relativamente tardivo riconoscimento e apprezzamento di valore artistico eternamente giovanilistico beyond the time, cinematograficamente segna la linea di demarcazione tra un’epoca prima e un’epoca dopo del narrare filmico italiano pertinente al genere Commedia.

Effettuando qualche paragone, consapevolmente e volontariamente molto azzardati, ci si sente un po’ come di fronte ad alcune tappe storiche, pietre miliari di passaggio della società; esempio: prima e dopo il 1789 e la rivoluzione francese; prima e dopo il 1815 ed il congresso di Vienna; prima e dopo il ’68; …

Per pudore, ovviamente, ci fermiamo!

Scherzi a parte, e tornando al nostro più circoscritto e ridotto contesto cultural-artistico, si vuole, stavolta seriamente, sottolineare come, all’interno del genere Commedia, il citato titolo Febbre da cavallo contrassegni comunque il finire di un genere e di uno stile, popolare ma espressivo nonché di caratterizzazione degli ambienti e dei personaggi, consolidandone ed emblematizzandone altresì le prerogative e le caratteristiche, coagulandone gli elementi migliori della commedia cinematografica  italiana, quella contrassegnata da indubbie maschere. Al contempo si cede il passo a una forma di commedia differente, che si sviluppa sui filoni  che in precedenza abbiamo riferito, ciò avvenendo sia in termini di nuovi autori emergenti che di stile, narrazione, personaggi, ambientazione.

Quello che era, o riteniamo sia stato, il coacervo di elementi che il cosiddetto “Neorealismo Rosa” – di Emmer (vedansi i film con Franco Interlenghi e Lucia Bosè), Comencini (i Pane, Amore …), Risi (i Poveri ma Belli) e Monicelli (Soliti ignoti) – altrove detto Commedia all’italiana, formatosi autonomamente, creatosi per esigenze di disimpegno sulle “ceneri” del vero Neorealismo; tutto questo, sosteniamo,  raggiunge il proprio canto del cigno con questo film di Steno. Ciò trova la sua naturale causa in tutto quell’insieme di motivi ed elementi citati – di cui negli episodi cinematografici italiani paralleli degli anni ’50,  ’60 e prima metà ’70 – sintomatici in termini di costume e della sua evoluzione.

Riteniamo che, per le filiazioni che stiamo con fatica ma, si spera, con piacere seguendo e descrivendo, Febbre da cavallo verso la Commedia all’Italiana svolga il ruolo che (stavolta, probabilmente, la metafora sarà più accettabile, anche se i metri di paragone saranno pure abbastanza arditi), Otto e mezzo svolge nella Cinematografia di Fellini o che, a posteriori, Fanny & Alexander svolge nella Cinematografia di Ingmar Bergman[1].

Lo sappiamo: come volevasi dimostrare, abbiamo volutamente esagerato!

Esaminiamo, pur se arcinoto (quanti Fan Club di Febbre da cavallo sono sorti nei decenni?), il canovaccio del film; esso  ci permetterà di individuare anche tutta una serie di elementi archetipici della Commedia all’Italiana, in continuità coi precedenti film e padri.

Ci sono tre giovanotti romani, (ed ecco lì, il I archetipo che ritorna: la romanità, cultura e terra di mezzo, nonché capitale, del Bel Paese), simpaticamente chiamati/denominati Er Mandrake, Er Pomata e, unico privo di nickname, Felice. Tutti e tre sono senza particolare arte né parte, se si esclude la bella presenza e prestanza di uno di loro (ecco il II archetipo, il fusto), ovvero il Proietti/Mandrake. Squattrinati quanto basta (III archetipo: poveri) e senza voglia di lavorare (IV archetipo, tra poveri/belli e soliti ignoti), sufficientemente truffaldini (V archetipo, si vedano  I soliti ignoti, ecc.) in nome della loro incontenibile passione per le corse dei cavalli (I autentico nuovo, finora inconsueto, elemento inserito nel soggetto e nella sceneggiatura), vera e autentica febbre, i tre disperati amici sono disposti a sacrificare ogni residua dignità umana (VI archetipo, la disponibilità a scendere ai più bassi livelli di compromesso etico-sociale e con la propria dignità) per sperare di vincere qualche somma di denaro, salvo che, quando scommettono, perdono sempre.

Si potrebbe non proseguire alla ricerca di ulteriori elementi archetipici, ritenendo noi di averne ormai a sufficienza (ma il lettore potrebbe esercitarsi a rintracciarne altri) e, fissati questi ingredienti di base, si vede tuttavia come se ne aggiungano immediatamente altri, in parte definibili accessori, in parte decisamente funzionali all’intreccio filmico, tali da contribuire a colorare sapientemente il racconto e, date le premesse, a supportarne gli ulteriori sviluppi; vediamoli con ordine.

C’è una bella ragazza, interpretata da Catherine Spaak, proprietaria di un bar, sito nelle immediate adiacenze di Piazza Venezia, e donna del giovanotto di bella presenza. Il rapporto tra i due è tale che, quando il giovanotto perde alle corse dei cavalli, egli alla sera non sia più in grado di adempiere ai suoi oneri ed onori di amante latino; qui, come è evidente, già innestandosi alcune gag, apparentemente di grana grossa ma viceversa simpaticamente rese sempre entro i limiti del buon gusto, non trascurabili e che, nel corpo del film, saranno colte puntualmente.

C’è poi un finto avvocato truffatore, l’Avvocato De Marchis, degnissimamente reso da Mario Carotenuto, monumento dei caratteristi e comprimari della commedia all’italiana, già fratello di Memmo Carotenuto, il Cosimo de I soliti ignoti. Questo finto avvocato De Marchi è  proprietario di un cavallo brocco, “Soldatino”, destinato a perdere tutte le corse dei cavalli.

Non manca poi una nonna, quella del Pomata/Montesano, ovviamente disposta alle farse e alle sceneggiate pur di difendere il nipote, salvandolo dalle persecuzioni dei creditori e dei rivendicanti diritti per le incorse truffe.

Inoltre è presente una sorella del Pomata, nubile e certamente destinata a rimanere tale poiché, già particolarmente non avvenente, presenta inoltre perenni problemi di alitosi, tali da esser soprannominata “Ghibli, il vento che uccide!”[2].

Ci sono poi: un macellaio laziale, denominato Manzotin, vituperata vittima delle beffe dei tre; un vero avvocato, proprietario di una scuderia di cavalli di razza (il compianto e bravo caratterista Gigi Ballista); una giovane modella, di dubbia moralità, disponibile alla frode; un grande fantino francese, Jean Louis Rossinì, la cui professionalità viene carpita dall’avvenenza di quest’ultima e … dulcis in fundo … c’è un apparentemente rigoroso e assolutamente intransigente giudice (il grande Adolfo Celi) che, redivivo dalle zingarate fiorentine,  viceversa si rivela un aficionado delle corse dei cavalli; e lì, quindi, il gioco è fatto, chiudendosi il cerchio in modo tale da dare spazio all’inevitabile simpaticissimo lieto finale dove tutti saranno disposti a dare il via a rinnovate avventure, tanto amorose quanto goliardiche, di quella che, a questo punto, potrebbe denominarsi la “compagnia del cavallo”.

Il tutto è infatti completato da uno stuolo di validi comprimari nei panni di  verosimili giocatori di corse o bulli di quartiere. Tra essi, come si potrebbe dimenticare Er Ventresca, perenne creditore de Er Pomata, o l’anonimo scommettitore interpretato da Luciano Bonanni. Quest’ultimo, valente caratterista – che, tra l’altro, negli anni ’70-’80 lavorerà tanto con  Ettore Scola che con Carlo Verdone – dà il proprio volto e la propria inconfondibile verve a uno dei principali personaggi del sottobosco delle irrecuperabili fisionome umane che, ostinatamente, si agitano attorno al mondo delle scommesse e delle corse. Saranno queste tipologie di personaggi che faranno da coreografia all’arringa del Mandrake/Proietti in una delle ultime sequenze nel tribunale, come in una sorta di carosello felliniano. Er Mandrake, in una davvero istrionica e memorabile rappresentazione di autodifesa legale (superfluo sottolineare da grande attore), reciterà la propria arringa in favore di quel variegato e pressoché psichiatricamente tarato universo umano costituito dagli scommettitori delle corse di cavalli.

Come noto, il clou del film si focalizza sul tentativo truffaldino di far vincere – ovviamente con una sequenza di molteplici inganni, sorprese, raggiri e colpi di scena a catena, secondo i canoni della più tradizionale commedia degli equivoci (o, appunto, Commedia dell’Arte!) – una famigerata corsa tris di trotto a tre brocchi – rispettivamente Soldatino, King e D’Artagnan – e riscuotere l’ingente vincita.

Ciò faticosamente riassunto, vista la ricchezza di elementi e situazioni che si son voluti mettere in evidenza – elementi che, analogamente a sistemi solari di una galassia, popolano il panorama narrativo della sceneggiatura del film – come non riosservare e ulteriormente sottolineare la misura e il modo con cui, in questo certamente tuttora divertente film, vengano inglobati tutti i citati archetipi della Commedia all’Italiana, cioè  tutti quegli elementi da noi riscontrati e messi in evidenza a proposito degli altri film[3]?

Come non notare quanto il processo di filiazione –  da noi annunciato e che sorregge, filologicamente, buona parte di tutto il presente discorso fin qui svolto – raggiunga il suo acme proprio con questo film? Inizialmente pressoché ignorato, tanto dalla critica quanto dal pubblico, quest’ultimo lo riscoprirà solo anni dopo, in tal modo elevandolo a sorta di cult  comico dell’immaginario collettivo proprio in quanto nostalgica ed esilarante fiaba d’altri tempi, di impossibile attualizzazione nel contemporaneo costume.

Il suddetto processo di filiazione – sotto le sempre più incipienti pressioni della pure da noi indicata notturna, brumosa, torbida, cinica Commedia Drammatica, nonché dell’attualità politica – si arresterà per morire,  oppure per trasformarsi – definitivamente, da questo momento in poi – in qualcosa di nuovo e diverso. Ciò in quanto le fasi storiche e sociali risulteranno adesso irreversibilmente cambiate e per gli autori non sarà più possibile fare la medesima Commedia all’Italiana, a meno di una mancanza di genuinità artistico-intellettuale: il ’68 e gli anni di piombo non sono trascorsi invano e, di qui a breve, altri eventi drammatici, il ‘77, e tragici, Via Fani e Via Caetani, saranno all’attenzione della cronaca.  Risulterà cosi cambiato il pubblico, non solo cinematografico: alle canzoni beat e di disimpegno, degli anni ’60, seguiranno le canzoni d’autore degli anni ’70, anche la musica, sia popolare che colta, divenendo fortemente politicizzata. Un cantante come Demetrio Stratos, che negli anni ’60 era il leader del gruppo beat de I Ribelli, negli anni ’70 fonderà il gruppo progressive degli Area, per poi allontanarsene nel ’78, l’anno prima di morire.

Negli anni ’70, il disimpegno e la “nostalgia” per le figure vagamente romantiche del folclore e della Roma “sparita”, zingara e picaresca dei rioni e dei quartieri, sono figure che ormai si avvertono obsolete, se non addirittura sgradite, anche  per il largo pubblico, tanto più per l’”intellighenzia” (o “intellighentia”) nazionale.

Come già detto, lo stesso Febbre da cavallo non sarà apprezzato subito, non sarà goduto come espressione genuina di uno spettacolo di comicità  e costume burlesco italiano imparentato con illustri tradizioni e predecessori; non essendo satirico, dissacrante o mordace verso le contingenti forme di potere, non essendo politico, all’inizio passerà quasi del tutto inosservato, comunque non apprezzato. Trascorreranno anni, dai dieci ai quindici, prima che, sul finire degli ‘80, venga riscoperto e rivalutato, certamente sulla scia di quel periodo politico-sociale definito Riflusso. Questa riscoperta, analoga a tanti eventi simili della storia della letteratura (ma qui si preferisce non rischiare di incorrere in paragoni arditi), sarà caratterizzata da assenza di preconcetti culturali, politici  e ideologici, guardando il film per quello che è e voleva essere: un buon esempio ben architettato di giocosa e gioiosa commedia degli equivoci, genuinamente comica, esilarante e, perché no, nostalgica di una determinata fase storica italiana, sul cui stampo era costruita,  quella centrata sulla ricostruzione e sulla speranza, da cui indirettamente e filologicamente discendeva.

Ma è un filone al tramonto e, pertanto, definitivamente concluso con la seconda metà degli anni ’70. Non è casuale – come già per  I soliti ignoti vent’anni dopo del 1986 – che anche il sequel di Febbre da cavallo – il Febbre da cavallo 2 – La mandrakata, del 2002, di Carlo Vanzina – malgrado ancora  presentasse insieme Proietti e Montesano, risulterà comunque troppo sopra le righe, non all’altezza dello stile di papà Steno, deludente tanto in termini di pubblico che di altro. La misura, per queste filiazioni, sarà colma e il tentativo effettivamente fuori tempo, malgrado il cult del primo Febbre da cavallo e il simpatico fiorire dei fan club.

[1] Nell’opinione della critica quest’ultimo titolo rappresenta una sorta di summa delle tematiche trattate nella cinematografia del maestro svedese.

[2] In altre edizioni, del medesimo film, la stessa battuta è riportata nei termini di “Tornado, il vento che uccide!”. Ciò la dice lunga sulle differenze, reali e non dipendenti da errori di chi ricorda, che a volte possono essere indicate da differenti spettatori che, in momenti o luoghi diversi, hanno visionato lo stesso film. Questi spettatori, in funzione delle differenze di registrazione e di distribuzione, possono avere differenti ricordi in merito a battute o episodi del film, proprio in quanto sono state distribuite differenti versioni/registrazioni dello stesso film.

[3] Per comodità del lettore, rimandando comunque a quanto detto nel Capitolo 1, si riportano i riferimenti dei film in questione che, oltre a quelli citati relativamente a Totò, sono specificamente: il cinema di Luciano Emmer con la sua triade del 1950-52; la saga di Pane Amore e… di Comencini e Risi; la saga di Poveri ma belli di Risi; I soliti ignoti di Monicelli, Operazione San Gennaro di Risi; Amici miei di Monicelli.

[Fabio Sommella, Il cambio della guardia,  II edizione (2019) cartacea e ebook, Amazon, 2019, pp. 55-60]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Quel mascherarsi per osservare il mondo, ovvero le Poesie Romane di Paolo Emilio Urbanetti

Già dalla prima poesia – un sonetto, come la maggior parte dei componimenti vernacolari della sua raccolta Poesie Romane [ottobre 2020, PressUp, Formello (RM)], – Paolo Emilio Urbanetti getta i paradigmi del suo poetare: “SÒ MASCHERE”, infatti, la dice lunga su quanto saranno i successivi versi, probabilmente un nascondiglio, un abito – analogo a quello con cui i poeti satirici della Storia o del Teatro (si pensi ad alcune maschere di Ettore Petrolini o di Gigi Proietti) hanno bersagliato i poteri costituiti – con cui celare sé stesso in modo congeniale per osservare il mondo e parlarne con maggior schiettezza. Ciò non appare estraneo a un autore come Urbanetti che – per chi ha avuto modo di conoscerlo, seppure relativamente da poco, e certo apprezzarlo – trasmette una forte identità culturale, quella che una volta – con termine probabilmente desueto e alquanto riduttivo – si sarebbe detta umanistica. Ciò è ancor più vero non solo per i suoi studi filosofici, non solo – per sua stessa ammissione – per le letture  ammirate e certo meticolose del suo modello poetico Giuseppe Gioacchino Belli, ma ancor più perché nel corso della sua vita l’autore, figlio di un medico, è passato attraverso molteplici esperienze, anche professionali, non ultime le varie frequentazioni con grandi personaggi dello spettacolo e luoghi d’arte (a riguardo si leggano le poesie ER CICERONE…). Tutto ciò ha arricchito e acuito l’innata sensibilità dell’autore, le sue doti di scrutatore della realtà, le sue indubbie capacità di indagatore della natura umana, la sua filosofia sorniona, forse scettica, in parte epicurea. Partendo da queste premesse, pertanto, cerchiamo di dipanare e approfondire la fitta rete di temi di cui è intessuto il libro Poesie Romane, testo che si fregia di un titolo volutamente generico e minimalista, come se l’autore volesse mimetizzarsi davvero e osservare senza esser osservato.

In LA MACHINA DER TEMPO l’autore, come certo a molti di noi sarà capitato, si cosparge il capo di cenere tra rammarichi non detti ma intuiti; poi ne LI BONI PROPOSITI procede con il rimpianto di una vita approcciata con semplicità. Ma dopo qualche altro passaggio – folclorico e talvolta oleografico – il tono s’innalza improvviso e diviene solenne, volgendo ad altezze somme; è quando, ne ER MISCREDENTE ALL’ARACELI, con il verso “Roma da lassù pare lontana” si colora – si lasci passare l’ossimoro – della  sacralità dell’ateo e, nella vastità di un corale che trapela dal foglio stampato e viene avvertito dal lettore ormai sgomento, “sale piano piano er canto” di uno dei più antonomastici brani liturgici natalizi (“canto pur’io Tu scenni da le stelle”). È – questo  richiamo a una sacralità non  ovvia, non tradizionale, sopita ma che non sorprende e che ritroveremo più avanti – l’accento alto che svetta decisamente tra le prime composizioni. Così il tono natalizio ha il suo dignitoso e accorato  continuum ne ER PRANZO DE NATALE che brilla di perenni luci con quegli altri accenti conferiti da un “libro” reperito “giù a Panico”, dal cogliere “’n sapore antico”, dal gustare “sti sorisi, st’occhi belli”.

Ecco quindi che, nel lettore, si fa strada la percezione che anche nel poetare di Urbanetti sia rintracciabile quella sorta di non nuova, ma di certo presente nella buona letteratura, Isola non trovata di gucciniana memoria (anche se Guccini, a sua volta e per esplicita onesta ammissione, l’ha ovviamente pescata da altri modelli letterari): si tratta del non manifesto, dell’agognato pur se non necessariamente esistente, dell’intravisto, dell’anelato, pur nel dubbio e nello scetticismo. Ciò è tangibile ne L’ATTIMO dove echi oraziani, ma anche dell’Autogrill del Maestrone pavanese, sono meravigliosamente resi (“T’ho vista su quer ponte, camminavi / cor vento che t’arzava la gonnella, / parevi penzierosa ma eri bella / che poi, vallo a sapé quer che penzavi” e nella coda “nun t’ho più vista e l’attimo è passato / quel’attimo… volato via così: / quer che poteva esse e nun è stato.”). Questo moto d’inarrivabile raggiungimento, pur nella consapevolezza del desiderio ineffabile, compare chiaro e netto (quasi fosse un manifesto programmatico nei confronti delle pretese neoromantiche o neo-stilnoviste dell’amata) anche ne LA MUSA CAPRICCIOSA. Altre volte, invece, è la consapevolezza della casualità, come ne ER SEME DELL’OMO (“Er fatto è che noi semo quer che semo / pe’ tanti cazzi e pure un po’ pe’ caso”). Pertanto si profila, come uno dei cardini della poesia di Urbanetti, la duplicità o il dualismo tra la consapevolezza del mero possibile e il viceversa desiderato.

Ciò si tocca, vividamente, anche in altri sonetti come ne ER CELO DE ROMA (“Puliscilo sto celo tramontana / e facce respirà sopra sta tera”, versi contrapposti ai seguenti “O forze saria mejo ‘na buriana / che ce spazzasse via, razzaccia nera”), ma senza dubbio ancor più in URBI ET ORBI (“In quer momento tutto s’è fermato / mijardi de perzone in lontananza / guardaveno a quel’omo sur zagrato.”). Poi, ne ER VECCHIO PAPA, la coesistenza di motivi duplici – se  non la già citata sacralità dell’ateo – diviene pura coscienza vibrante di emozione (“Nun ciò gran confidenza co’ la fede / e a dilla tutta quanta, onestamente, / io credo solo a quello che se vede / però quer vecchio papa inginocchiato / pregà pure pe’ ‘n poro miscredente… / io, che ve devo dì, l’avrei baciato.”).

Un elemento ulteriore, secondario ma non certo trascurabile e che non poteva mancare data la scelta del genere letterario nonché il modello di riferimento belliano, è la satira sociale, fino alla dissacrazione potente come ne LA MEMORIA CORTA, sana e lecita denuncia socio-politica delle vicende storiche degli ultimi decenni, oppure in ARANCIA, BIRA, COCA. E, se non è satira, è certo comunque critica dai mille volti, come ne LA LEGGE NOVA o ne ER BER PAESE.

Altre volte, dopo ulteriori parentesi di costume tipicamente romanesco, si stempera la malinconia degli anni, che trascorrono e avanzano, mediante lo splendido invito degli affetti ne LI SESSANTACINQUE (“Sessantacinque embè? Fòri c’è ‘r zole”) o, anche, in NOI DUA o nella tenerezza di NATA AR POLICLINICO. È una malinconia, questa di Urbanetti, che può assumere varie forme: i toni delle amicizie perdute ne ER QUATTRO DE NOVEMBRE, il dualismo di CICCIA E FUFFA; de LA VENA SECCA (“Er monno de ’n poveta se ne fotte / la gente ride, scopa e vo magnà.”); di ER TALENTO SPRECATO fino al senso di dolore di L’AGNELLO SCANNATO (“‘N agnello fora de l’ammazzatora (…) così me sento, giuro, quarche vorta”). Viceversa, la vena malinconica, può capovolgersi e diventare l’ironia affettuosa di ER PIPPONE, l’accorata fraternità goliardica de LI TECNICI, fino alla gaia autobiografia de ER FRUTTO (“Partirono un ber dì tra er lusco e ‘r brusco / e ‘r frutto che sortì da quel’amore / sò io, mezzo romano e mezzo etrusco.”).

All’interno della propria romanità – avvolgente e che abbraccia nostalgie financo di avanspettacolo, come in ALL’AMBRA JOVINELLI! – Urbanetti compie però un utile e illuminante distinguo. Questo avviene in SÒ GUSTI, dove l’autore travalica i citati pur non dominanti aspetti folclorici e di costume in favore di scelte, di posizioni, di fisionomie artistiche ed estetiche. Pur diversamente accade anche in TORE MAURA, ne LA VITA DER TOSSICO, ne LI BONI CRISTIANI dove si dà voce, eterogenea e gravemente amara se non efferata, alla disperazione delle tante altre Rome, transitando per la giocosità de LI COATTI SCONVORTONI (con indubbi echi della Storia disonesta del compianto Stefano Rosso), per il duro dualismo de LA GRANNE BELLEZZA (“Romaccia mia vergine e puttana”), fino ad affrescare – alla barba di qualsiasi reazionaria Vecchia Roma – il Villaggio Globale, culla del Melting Pot, nell’intensa PIAZZA VITTORIO.

Volendo cercare, in definitiva, un denominatore comune fra i tanti temi delle Poesie Romane – in prevalenza sonetti – di Paolo Emilio Urbanetti, si può e si deve affermare che l’ironia, talvolta il sarcasmo, fanno da contraltare a un malcelato anelito inappagato che transita attraverso la romanità – pretesto  contingente (abito di scena, appunto) – magnificamente  trascendendola, osservandola allargarsi al mondo e alle sue antinomie, limiti e rabbie, nascondendosi l’autore solo in apparenza dietro una maschera benevola e sorniona, oltre la quale egli piange e si diverte, si rammarica e sorride, ridendo di sé stesso e carezzando la vita come ne ER MORTORIO MIO (quanto, anche qui, del Guccini de L’albero e io?), sonetto che conclude l’antologia con scultorei versi epigrafici: “Me piacerebbe fallo a fine estate / cor ponentino fresco de staggione, / ‘na pietra abbasterà ‘ndo ce lassate: QVI GIACE ER PECCATORE IMPENITENTE / FILOSOFO POVETA E CICERONE / CHE MAI CAPÌ CHI FVSSE VERAMENTE”; ovvero: la leggerezza del “ponentino fresco” e la “pietra”, insieme, per un ennesimo pregnante dualismo.

[Fabio Sommella, ottobre 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Da Borgo San Pietro a Poggio Bustone sulle tracce di Lucio – di R.Sabatini-F.Sommella

Appunti di viaggio… e altro (di Rosanna)

Oggi mi sono svegliata “alle 7 e 40”; sarei partita “presto presto” anche se non c’era il “traffico lento”, perché non era un’ora “di punta” ma, a Borgo San Pietro di Petrella Salto, mancava l’acqua e, dopo le proteste con la Soc. APS, ho dovuto aspettare ancora qualche ora, per recarmi a Poggio Bustone insieme a Fabio.

Da anni aspettavo di provare “emozioni” e di “seguire con gli occhi” aironi, magari non “sopra il fiume” ma sui laghetti ai piedi del paese; ho soltanto parlato “del più e del meno con un pescatore” per una mezzora e così non ho sentito “che dentro qualcosa muore”.

Sono salita a fari accesi verso il paese e ho guidato piano, perché non conoscevo la strada e non volevo “vedere se poi è tanto difficile morire”. È meglio guidare a 30 km/h come indicato in tutti i cartelli che dalla Via Ternana portano al paese (tralascio di scrivere il numero delle auto che mi hanno comunque sorpassato).

A Poggio non ho coperto “una piantina verde sperando possa nascere un giorno una rosa rossa”: le mie meravigliose piante di rose, nei miei Giardini di “Tutto l’Anno” in quel di Borgo San Pietro ( piante che non ho comprato per “una lira”), stanno morendo per ordinanza comunale (divieto di utilizzare acqua per giardinaggio et similia).

Non ho preso a pugni “un uomo solo perché è stato un po’ scortese”, ma le mie rose lo farebbero volentieri e gli direbbero: “Capire tu non puoi”, tu chiamali se vuoi…

Arrivati a Via Roma, abbiamo cercato il numero 40 (non per giocarlo a lotto); la leggenda vuole che sia stata la casa di Lucio; tuttavia una simpatica parente del cantautore ci ha indicato una diversa abitazione e il balcone dove lui era solito suonare la chitarra.

Dopo le foto dal belvedere, ci siamo recati a piedi verso il cimitero e i vicini “Giardini di marzo”.

Per arrivare alla statua di Lucio, siamo passati attraverso un’area che non aveva un aspetto ben curato come del resto anche le aiuole; ho guardato la statua e mi è parso che Lucio fosse triste per la trascuratezza circostante; in estate i giardini non “si vestono di nuovi colori” però una maggior cura non guasterebbe.

Mentre stavo nei giardini, dentro la mia testa ho sentito un “mix” di musica e parole: emozioni! L’ultimo brano cantava così: “A te che sei il mio presente, a te nella mia mente e come uccelli leggeri fuggon tutti i miei pensieri, per lasciar solo posto al tuo viso che, come un sole rosso acceso, arde per me”.

Risalendo dai Giardini di Marzo al centro storico, siamo giunti al ristorante La locanda francescana, sede anche del Fans-Club di Lucio Battisti a Poggio Bustone, dove abbiamo gustato un abbondante e genuino pasto servito con garbo e celerità.

All’uscita dal ristorante, abbiamo percorso le stradine del centro storico godendo dei suggestivi scorci panoramici tra una casa e l’altra, come testimoniano le foto.

Mentre camminavo mi chiedevo se Lucio avesse mai poggiato i suoi piedi, dove li stavamo poggiando noi; osservando il panorama, ho pensato che era ciò che lui aveva visto dal suo balcone e che si ritrova in molti testi di Mogol; perché, se è vero che le musiche nascono prima, è pur vero che – in genere – chi scrive le parole di una canzone si confronta con il compositore circa chi o che cosa l’abbia ispirato.

E poi… di nuovo “sì, viaggiare, evitando le buche più dure”, verso Borgo San Pietro di Petrella Salto.

Arrivati a Rieti ci siamo persi e una gazzella dei carabinieri – grazie ai due cortesi addetti dell’Arma – ci hanno fatto strada fino al Campo Sperimentale… ma questa è un’altra storia!

[Rosanna Sabatini, 20 Agosto 2020]

… ed elucubrazioni (di Fabio)

E già, perché pensavo che “Oggi è stata gran festa in paese”, ma… “Che ne sai , tu, di un campo di grano?”

Sai che “la stalla con i buoi” mi han donato “per cielo gli occhi tuoi”.

Quindi ho scoperto che “oltre il monte c’è un gran ponte” “dove i frutti son di tutti”. Mi sono poi addormentato e ho sognato “un cimitero di campagna” in cui poter “riposare un poco”, forse “due o trecento anni”.

Al risveglio mi son reso conto che “i giardini di marzo si vestono di nuovi colori”. Cedendo però a una “sensazione di leggera follia” ho seguito una “gallina”: quella, “spaventata in mezzo all’aia, fra le vigne e i cavolfiori mi sfuggiva gaia”.

Già avevo cancellato “col coraggio quella supplica dagli occhi” e allora mi son messo a correre lungo “distese azzurre”, “verdi terre”, “discese ardite”, “risalite“, finalmente sentendomi “umanamente uomo”.

Così ho compreso che “ad ognuno la sua parte: saper vivere un’arte”.

[Fabio Sommella, 20 agosto 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Gli enigmatici meriggi di Giorgio ed Eugenio

Giorgio De Chirico, Le Muse inquietanti

Osservando l’affascinante ed elucubrativa opera di Giorgio de Chirico, nonché percorrendo alcune sue tappe biografiche, non si può fare a meno, laddove un interessante saggio di Maurizio Calvesi pone delle attinenze e vicinanze letterarie del capofila della Metafisica con Dino Campana o con Gabriele D’Annunzio o con Giovanni Papini, di scorgere almeno un silente ma significativo parallelismo tra la sua arte pittorica e quella poetica di Eugenio Montale.

Come De Chirico, con il suo esser “considerato inadatto alle fatiche della guerra” fa, sostanzialmente, da contraltare agli iconoclasti interventismi marinettiani che vedevano nella guerra l’igiene del mondo; analogamente Montale, con l’essenzialità dei suoi ossi di seppia e i suoi pallidi e assorti meriggi trascorsi presso roventi muri d’orto, si contrappone ai trionfalismi dannunziani.

Ma la comunanza tra De Chirico e Montale non si ferma certo qui!

Nel capitolo 3 della sua Storia dell’Arte Italiana, dal titolo La crisi delle avanguardie. Giorgio de Chirico, la Rivoluzione Silenziosa, Alessandro Masi mette in luce come De Chirico “invoca l’ironia quale risorsa desublimante da parte dell’artista per esorcizzare gli eccessi di tensione di cui viene caricandosi l’opera medesima, per sgravarla dall’incarico dinamico e concettoso a cui l’aveva destinata l’avanguardia”. È questo, svolto silenziosamente ma incisivamente da De Chirico rispetto al mentore futurista Marinetti, un pregnante analogo compito a quello che Montale (analogamente ma diversamente da quanto, con la propria carica umoristica, compie il crepuscolare Guido Gozzano) svolge in letteratura rispetto al preteso vate D’Annunzio.

Come non riscontrare, nei misteriosi “enigmi” rappresentati da De Chirico o nelle sue pensose “malinconie” o nelle “inquietanti muse”, le medesime domande e riflessioni, i medesimi lavorii interiori dei “non chiederci la parola … che mondi possa aprirti” o dei “mali di vivere” o dei “malchiusi portoni” verseggiati da Montale?

Come non scorgere, negli sghembi geometrici chiaroscurali scorci di città metafisiche di Giorgio l’isomorfa indagine di Eugenio, quel voler illusoriamente cogliere “il punto morto del mondo”, “l’anello che non tiene”, il “compirsi il miracolo”, il “terrore di ubriaco” o il silenzioso segreto dell’uomo che va, in mezzo agli altri che non si voltano?

[Fabio Sommella, 20 marzo 2013]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Boati dal profondo di Pasqualino Cinnirella: fra propensione rivelatoria della verità e magico accordo

“(…) la propensione rivelatoria della verità implicita nella scelta delle parole”, a cui si riferisce Cinzia Baldazzi nel primo capoverso di un suo recente articolo di critica letteraria, risuona come l’approccio programmatico di ciascun lettore ideale – o, per dirla alla Peirce, lettore-interpretante – di un libro di poesia: il disvelarsi inaspettato di un senso riposto e insospettato, “il punto morto del mondo”, l’epifania improvvisa delle kantiane cose in sé, lo scrosciare delle “trombe d’oro della solarità” mediato dai “gialli dei limoni”, intravisti “un giorno da un malchiuso portone”. È quindi con questa splendida evocazione montaliana (ma non solo) che il lettore – chissà se ideale? – si accinge a leggere questo ampio commento critico di Cinzia Baldazzi alla silloge Boati dal profondo di Pasqualino Cinnirella.

La “Ποίησις generale del nostro scrittore” – magnifica espressione per intendere la produzione poetica che rimanda alla emopoiesi fisiologica o alla mitopoiesi junghiana – è il disattendere le premesse, ciò insieme all’impossibilità di discernere fra bene e male del mondo, impossibilità in cui ancor più si concretizza il “male di vivere”, espressione che evoca ovviamente di nuovo Montale. E il riferimento all’autore di Ossi di seppia si fa ancor più intimo e pregnante quando Cinzia Baldazzi legge, in Cinnirella, l’”estraniazione dal mondo oggettuale”, stato d’animo che, se nella letteratura rimanda di nuovo a Montale, nelle arti figurative rimanda alla pittura metafisica di Giorgio De Chirico, in cui qualcuno ha letto assonanze/consonanze con Eugenio Montale. Quanto appena detto si ricongiunge alla lettura che Cinzia Baldazzi fa della silloge di Cinnirella quando si parla del “lessico pienamente novecentesco (…) di sorprendente modernità, con intenzionali riferimenti montaliani”.

L’esperienza di Cinnirella come ποιητική τέχνη (poeta d’arte, di tékhnē) e la pressoché onnipresente “dialettica poetica” conducono inevitabilmente le riflessioni di Cinzia Baldazzi a “Charles Sanders Peirce, padre della semiologia contemporanea” e al suo lettore-interpretante: chi, meglio di questa figura, può leggere un testo come il riportato – doloroso! – Ora che c’eri? E come leggerlo? Forse, come Cinzia Baldazzi sapientemente ci indirizza a fare, mediante l’ausilio dei codici esegetici di certo strutturalismo psicoanalitico. O forse facendo ricorso alle egide genitoriali, tanto paterna che materna.

Dai Boati del profondo di Pasqualino Cinnirella emergono, infine, come dono, lascito finale, congedo, “pochi monili del cuore / appuntati… alla sua roccia friabile.” Parafrasando il citato film di Scorsese, pure menzionato nell’intenso primo capoverso da Cinzia Baldazzi, ci si può chiedere: avrà l’autore della silloge raggiunto il “magico accordo”? Come per molti di noi, ce lo auguriamo di cuore.

[Fabio Sommella, 27 luglio 2020]

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A partire dal solfeggio (!?!), riflessioni attorno alla musica, alle arti e oltre.

In un interessante post di un amico di FB, che d’ora in poi in questo articolo indicherò in breve come FB friend (nello specifico si tratta di uno dei chitarristi – di eminente formazione classica coniugata a un estro strabiliante – che ammiro maggiormente per il suo virtuosismo e la sua leggerezza esecutiva), trovo quanto segue:

… intervista su Tg3 al Maestro Muti che dà conforto a chi da anni, come me, sostiene la “battaglia” contro ciò che, mal insegnato, distrugge la passione di tanti giovani e li allontana dalla Musica. / Domanda: Qual è il modo migliore per avvicinare i più giovani alla grandiosa tradizione musicale italiana? / Risposta M°: Non deve essere l’afflizione del solfeggio Do- Re Mi – Fa. Quello non serve assolutamente a niente…

Leggendo ciò, metto un cuoricino perché vengo colto da un immediato senso d’approvazione, pur nell’apparente – solo apparente – genericità dell’affermazione. Poi maggiormente mi viene da approvare la successiva precisazione del FB friend:

Il Maestro faceva riferimento al modo affliggente e da supplizio con il quale molti fanno “avvicinare” i giovani alla musica ottenendo, naturalmente, l’effetto contrario. Naturalmente saper solfeggiare o, meglio sarebbe dire, saper dividere e contare è alla base del suonare, ma è certamente un aspetto successivo rispetto all’innamoramento iniziale

Ulteriormente non posso che approvare  questa precisazione che mi conduce a  specificare che “saper dividere e contare è alla base del suonare” ma ancor più del comporre e dello scrivere musica.

Così mi viene da ampliare il discorso, fin qui puramente musicale, alle arti in genere e, se vogliamo, oltre. E lo amplio con un mio post su FB che contiene una mia sentita riflessione, teorica e pratica.

Molteplici formule dogmatiche, unilaterali, vigono ancora in molte forme d’arte che viceversa – come, del resto, la vita – sono opere aperte, vale a dire – semplificando, ovviamente, molto – entità equipaggiate di plurime porte d’accesso.

Talvolta financo la scienza può esser acceduta attraverso percorsi alternativi, meno canonici.

Come dire, tornando all’originaria affermazione del Maestro Muti e alla convinzione (che condivido in pieno) del mio FB friend, che perfino nello studio della musica si possono abbinare rigore, creatività e divertimento.

NdR: nelle immagini presentate in quest’articolo, parte delle copertine dei molteplici testi di teoria musicale che,  nel corso dei decenni, hanno contribuito alla mia formazione, musicale e non solo.

[Fabio Sommella, 22 giugno 2020]

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Quel carillon della coscienza… (bis)

Il precedente, approfondito, articolo – musicale, critico, analitico – dello splendido brano (quale? Si veda il link seguente) è del 16 giugno 2019 in https://www.fabiosommella.it/wp/quel-carillon-della-coscienza-che-sapre-e-suona-nella-mente/

In data 11 giugno 2020, con chitarra acustica Furk Indigo unplugged, tonalità SOL maggiore e LA maggiore, è stato replicato quanto segue:

Grazie, di nuovo, agli autori del brano.

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Il Mare – Lirica di Anna Vasta, con annesso breve commento critico di Fabio Sommella

La Lirica

Il mare
il mio orizzonte
il mio presente
ieri oggi sempre
Mi viene incontro
mentre cammino
passo dopo passo
lungo il Corso che corre
dritto alla marina
cambia colore col
mio umore
il mio muta col suo
Le rondini schiamazzano
in alto
non si curano d’ altro
di quel cielo che si eleva
sopra le nuvole
oltre i loro frivoli voli
verso un ignoto senza nome
Di questo enigma che scende rasoterra
prende le forme della sera
Si stende sulle case
si posa sui giardini
indugia sui binari della vecchia stazione
si allunga
sui tigli in fioritura del parco comunale
che esala i profumi del male.

[Anna Vasta, 6 giugno 2020]

Commento critico

Sono quattro le dimensioni che attraggono la protagonista di questa – splendida? Indubbiamente sì – lirica della poetessa catanese Anna Vasta.

La prima è quella prospettica e orizzontale, la profondità dell’orizzonte, mediato dal mare e verso il mare, irraggiungibile ma a cui,  inestricabilmente pur nell’impossibilità, tende l’anima in un moto istintuale, calamitato.

La seconda dimensione è quella verticale, questa vertiginosa – trascendente? –  e  infinita, nella quale e verso la quale, tuttavia, le “frivole” rondini che “schiamazzano”, insieme alle nuvole, fanno barriera, rondini a loro volta sgomente e che precludono quindi il cielo (“sopra le nuvole / oltre i loro frivoli voli / verso un ignoto senza nome”).

La terza dimensione,  eminentemente terrena, – immanente? Certo umana – è così usuale, quotidiana, ordinaria e malevola. Essa “esala i profumi del male” e, dopo alcuni passaggi – simil movimenti di macchina filmica – (“sulle case /
si posa sui giardini / indugia sui binari della vecchia stazione”),  assume la fisionomia e i contorni definitivi del parco comunale.

Infine, a latere – ma, certo, non marginale – il tempo è la quarta dimensione che s’incarna nei colori e nelle evanescenze nella sera.

In questo scenario tetravalente – o, se vogliamo, di spazio-tempo in qualche modo e misura einsteiniano – prende corpo un processo – il processo? – di contaminazione reciproca, di osmosi, di commistione scambievole con il mare (“dritto alla marina / cambia colore col / mio umore / il mio muta col suo”), orizzonte della protagonista. Protagonista, autrice e certo il lettore, tutti insieme indugiano a muoversi, a conoscere, a spaziare veicolati dalla forza della poesia.

Al lettore, pertanto, nell’ordito temporale della sera, non resta che perdersi inebriato nell’enigma, in questo spazio tetradimensionale, alternativamente richiamato verso – nonché combattuto  dal – l’orizzonte marino, le altezze misteriose, il parco comunale. Sintomatici sono i predicati spaziali – anche geometrici – nei versi finali: stende, posa, allunga, indugia, esala.

Ce la farà la protagonista, se non a svelare – forse troppo, per noi umani! – l’enigma, ad approssimarsi al suo mare?

Al lettore la risposta.

[Commento critico di Fabio Sommella, 6-7 giugno 2020]

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Il personale Leggere e Scrivere: un susino con foglia, forse frutti se il sole…

La metafora brechtiana del susino, a cui – sapientemente e metodologicamente – ricorre Cinzia Baldazzi per significare la rilevanza del Leggere e dello Scrivere, è di una bellezza e delicatezza particolari.

In questo modo la scrittrice e critica letteraria ci permette di irradiare di nuova energia la nostra mente, specie in questi giorni di cupo e forzato isolamento casalingo da Covid-19.

Allo scopo Cinzia Baldazzi prende dapprima spunto dagli scritti estetici di Benedetto Croce,  dove idealisticamente si afferma che “Ogni schietta rappresentazione artistica è in se stessa l’universo ”

Subito dopo, al fine di  suffragare ulteriormente ciò, non rinuncia a far ricorso ai propri consueti riferimenti kantiani, in questo caso quelli estetici,  evidenziando che “non si dovrebbe dare il nome di arte se non alla produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni”.

Infine Cinzia Baldazzi si premura di fissare bene la produzione libera attraverso “qualcosa di costretto (…)  un meccanismo, senza il quale lo spirito, che nell’arte deve essere libero e che solo anima l’opera, non acquisterebbe corpo e svaporerebbe interamente”.

Come dire, quindi, che nell’arte sono fondamentali, certo, la libertà e il genio ma non – o, perlomeno, non solo – la sregolatezza quanto, piuttosto, anche il rigore.

Una ricetta e un metodo utili anche per noi, anche alla nostra quotidianità, al fine di non disperderci specie – ma, anche qui, non solo – in questi giorni di maggior possibilità di riflessione, elucubrazione, lettura, elaborazione, scrittura; affinché pervenga un po’ di sole al nostro personale susino brechtiano, oggi avente una foglia e, in molti casi, niente frutti.

Facciamone tesoro, noi che possiamo!

[Fabio Sommella, 21 marzo 2020]

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