L’istanza tragica nel fumetto d’autore: il caso de La Storia del West

La pagina 55 del fascicolo N°5, Alamo, de La Storia del West, edizione 1984, edita da Cepim.

In questi giorni di desolazione e ansia, molti luoghi del pianeta – e adesso qui da noi in Italia – sono purtroppo trasformati in una sorta di avamposto di eroi, diffidenti l’uno dell’altro, ultimo baluardo assediato da un implacabile nemico denominato  Coronavirus e Covid-19. Le analogie tra la nostra condizione e quella di personaggi della fiction non sono peregrine e varie metafore possono emergere e delinearsi nella nostra coscienza, provenendo magari da molto lontano.

Una metafora può essere espressa dai fumetti.

Anche i fumetti, analogamente alla narrativa e al cinema, raccontano: e se questo raccontare assurge a livelli qualitativi autoriali, tanto la narrativa che il cinema quanto anche i fumetti medesimi divengono vere e proprie opere d’arte.

Molti sono, indubbiamente, i fumetti d’autore, o fumetti opere d’arte; tra questi ne annovero alcuni che mi sono particolarmente cari. Rimanendo, qui,  nel panorama italiano, collocandoci nello spazio temporale del secondo ‘900 e, all’interno di questo,  a cavallo dei decenni ’70-’90, senz’altro, tra le saghe di comics di maggior pregio, se ne possono indicare almeno due: a mio avviso la prima è Ken Parker, autori la coppia  Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo; la seconda è La Storia del West, attribuibile, de jure e de facto, al suo padre artistico e spirituale Gino D’Antonio, con cui ovviamente nei decenni hanno collaborato alcuni tra i migliori disegnatori italiani di quegli anni.

Tralasciamo in questa sede, almeno per ora, le avventure – connotate da uno stile asciutto e decisamente postmoderno – di Lungo Fucile – questo l’evocativo nome di battaglia che gli indiani d’America, nella fiction omonima, hanno attribuito a Ken Parker, il generoso antieroe della tarda frontiera americana dal volto preso in prestito dal Robert Redford di Corvo rosso non avrai il mio scalpo. E, viceversa, rivolgiamo la nostra attenzione alla saga de La Storia del West.

Gino D’Antonio crea – partorisce, sarebbe il termine più idoneo – la saga de La Storia del West – dei Mac Donald, potremmo dire, ovvero della famiglia che per tre generazioni compie le proprie gesta, dal 1804 al declinare del secolo, lungo gli sconfinati spazi della frontiera americana – nel 1967 con la Collana Araldo. Questa, per capirci, è la casa editrice milanese che tiene capo al mitico Tex (nato nel 1948 con il volto di Gary Cooper) di Galep-Bonelli (al secolo rispettivamente Aurelio Galeppini e Pierluigi Bonelli, quest’ultimo Bonelli padre). Con uscite saltuarie e irregolari, intervallate da atre pubblicazioni, La Storia del West pubblicherà oltre settanta (76?) fascicoli formato gigante .per tutti gli anni ’70. Tra i principali disegnatori, oltre a sé stesso, a cui Gino D’Antonio farà riferimento in corso d’opera figureranno, tra gli altri, Sergio Tarquinio, Renato Polese, Renzo Calegari.

Nel 1984 sarà la volta della riedizione, in parte ampliata nei primi episodi/fascicoli, della medesima saga de La Storia del West, stavolta edita dalla Cepim.

Per chi ha letto, in parte o totalmente, entrambe le edizioni, rievocarle ha il sapore non della pura e semplice nostalgia giovanile ma rammentare una forma di educazione alla storia, pur in parte rivisitata in chiave finzionale, non priva dei necessari pathos ed empatia per l’esistenza: è questo che l’arte dell’autore Gino D’Antonio è riuscito a infondere  a pressoché ogni episodio della saga de La Storia del West, a ogni pagina, a ogni fumetto.

Un esempio, credo pregnante, è quanto ho recuperato ieri, pensando alla nostra condizione di assediati da Coronavirus; spontaneamente l’ho comparata all’assedio, storico, dei messicani alla fortezza di Alamo nel 1836, in cui erano asserragliati coloni texani. Gino D’Antonio ne parla nel fascicolo N°5 , intitolato appunto Alamo, della riedizione del 1984 de La Storia del West.

Dopo la panoramica a inizio articolo, ne estraggo in dettaglio i 7 fumetti della pagina 55, in cui – con sequenze di tipo filmico, dal momento che vige anche un sapiente campo-controcampo dei due protagonisti – il capostipite Brett Mac Donald dialoga, in modo struggente fino alla commozione, con la moglie indiana Sicaweja, giungendo a rievocare il massacro epico delle Termopili: alto fumetto d’autore dove l’istanza tragica domina incontrastata fino alla catarsi. Senza aggiungere altro, lascio al lettore il gusto di scoprire – o riscoprire – questi piccoli ma grandi gioielli del comics nostrano, con il solo augurio che, presto, per noi tutto termini, catarticamente, con la vittoria degli assediati.

Grazie a Gino D’Antonio e ai suoi collaboratori.

Ad Majora!

[Fabio Sommella, 13 marzo 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Questo virus… un pensiero!

Nella condizione in cui stiamo “vivendo” – in fin di vita, malati, alienati, ansiosi, sospettosi, in palese difficoltà, dubbiosi, esposti, malamente speranzosi, nevrotici…  –  in queste settimane di crescente epidemia da coronavirus, si avverte – credo (perlomeno ciò accade a me) – sempre più l’ingombro della “propria biologia”, del proprio equipaggiamento biofisico. Quest’ultimo non é più veicolo di vita e di comunicazione – in tutte le accezioni, certo fisiche ma anche psicologiche e financo astratte – bensì diviene zavorra, appunto ingombro più che opportunità, come ordinariamente siamo abituati a pensare. Si tratta di una zavorra labile, fragile, misconosciuta, temuta – la cui conoscenza, per formazione e ancor più adesso,  demandiamo a quegli addetti ai lavori denominati medici – attaccabile da agenti patogeni. Così l’insostenibile leggerezza dell’essere, quella alla Milan Kundera – per intenderci un modo di sentire “matrigno” lo stesso esistere, in un’accezione molto simile a quella leopardiana – diviene davvero totalmente insostenibile. Vero è che non possiamo fare a meno di percepire la nostra debolezza – la nostra pochezza – contro tutte le presunte ostinate pretese certezze da noi propagandate nell’ordinarietà dell’esistenza ritenuta “normale”. Un bagno di umiltà molto utile alla maggior parte di noi la cui coscienza potrebbe aprirci alla grandezza: l’incommensurabilmente piccolo, qual noi siamo, versus l’incommensurabilmente grande, misterioso, casuale e incontrollabile dell’esistere. Un augurio per tutti noi.

[Fabio, 11 marzo 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Tra Mito e Antropologia: la Grande Madre e le nostre origini rilette da Cinzia Baldazzi (Festa della Donna 2020)

Suscitando indubbiamente uno spiccato interesse, la critica letteraria Cinzia Baldazzi – nella giornata di ieri, Festa della Donna 2020 – ha ripercorso le origini e le evoluzioni culturali dell’archetipo della Madre prendendo spunto dalla Venere di Willendorf, la steatopigia. A tale scopo l’autrice si è servita, tra gli altri, dei preziosi contributi di Carl Gustav Jung e di Umberto Galimberti.

Cinzia Baldazzi compie un magnifico excursus dalle origini del mito della Grande Madre mostrandoci, pur indirettamente, la nascita del pensiero razionale (il cui merito, giustamente, Galimberti attribuisce a Platone). Ciò comporta, tra l’altro, l’abbandono del Caos per il Cosmo. Attraverso queste biforcazioni, le istanze primordiali verranno “relegate” (per rimanere, noi qui, ancora in Jung) nelle zone e aree d’ombra della coscienza umana: nei riti dionisiaci, questi contrapposti agli apollinei. Per estensione, si pensi all’arte della Grecia Classica e poi, viceversa, a quella Ellenistica, ma anche, in epoche moderne, al concetto di tragico nel pensiero di Nietzsche, a quello dello stesso Jung con i suoi tipi psicologici o, ancora, al Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse.

In definitiva Cinzia Baldazzi, con questo scritto, propone un percorso al contempo di Archeologia e di Antropologia.  Ciò è sfidante e, a latere, non si può non segnalare come queste tematiche dovrebbero essere trattate nelle scuole, almeno dalle Medie,  unitamente all’Educazione Civica e alla Storia, al fine di aprire le menti agli inevitabili e sempiterni dualismi dell’esistenza, così favorendo la comprensione dell’Altro da noi.

Buona lettura, quindi, a chi vorrà cimentarsi con questo breve ma interessante saggio di Cinzia Baldazzi, lasciandosi coinvolgere dalle trasformazioni della Grande Madre.

“La Grande Madre e gli dèi del cielo”, saggio antropologico di Cinzia Baldazzi

[Fabio Sommella, 9 marzo 2020].

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Sulla grandezza, ancora, di Lucio da Poggio Bustone

… e quell’aria de I giardini di marzo, suonata con gli ottoni a mo’ di banda circense felliniana, ha un sapore vetero di post diuvio prossimo-venturo, come se tutto fosse già trascorso in una dimensione di déjà-vu irrecuperabile, consapevole del “Davanti a me c’è un’altra vita / la nostra è già finita…”

[Fabio Sommella, 06 marzo 2020]

… e quell'aria de "I giardini di marzo", suonata con gli ottoni a mo' di banda circense felliniana, ha un sapore…

Pubblicato da Fabio Sommella su Venerdì 6 marzo 2020

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Gli arrangiamenti e le basi musicali: loro possibili definizioni

Due noticine compositivo-musicali, da vecchio saccente innamorato di certe cose e, forse, della vita: se arrangiare un brano musicale è un’esperienza cultural-artistica che – fatica a parte – approssima all’etereo e al sublime, preparare una pur semplice base musicale – anche con un solo strumento polifonico come è la chitarra – significa tessere un tappeto armonico di note che deve lasciar spazio per la futura voce ma che, in alcuni opportuni spazi, lascia posto per picchi, alture, colline melodiche, contrappunti brevi e ardimentosi… perché la musica è il tutto che si manifesta e si gode da più mutevoli e cangianti punti di vista.

[Fabio Sommella, 06 marzo 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Giungere al cuore del lettore (recensione a La donna dai capelli rossi, racconto di Rosanna Sabatini)

È in una dimensione parzialmente altra – tra cui Bastia, Corsica – che la scrittrice romana Rosanna Sabatini – già autrice del pluripremiato Un volo d’aquiloni, Edizioni Thyrus, 2018 – ambienta il suo inedito La donna dai capelli rossi, che tuttavia ha già ricevuto una menzione di merito in un concorso letterario. Il racconto è in bilico fra più ambiti: il management industriale, le agenzie investigative, la cittadina francese e Roma; è forse per questo motivo che, fin dalle prime battute, manifesta una sorta di alone evocativo di atmosfere stranianti, che poi giustamente si trasforma con il procedere della narrazione.

Le due – verosimilmente giovani – amiche Diana e Lisa – probabilmente istanze rispettivamente emotiva e razionale di una medesima entità femminile, chissà quanto e come autobiografica dell’autrice – danno il via a un intreccio in cui un attempato vedovo – Andrea, già nonno e padre di Ada e Paola, quest’ultima affetta da tumore – seppure innamorato, ha da poco interrotto il suo rapporto amoroso con Diana, ciò al fine di stare maggiormente vicino alla figlia malata. L’incipit e il sapiente flashback saranno seguiti poi dagli sviluppi, in effetti densi di relativi colpi di scena; il tutto all’interno di un filo tematico che, a dispetto della realtà spesso fraudolenta in modo sistematico, privilegia gli affetti e le relazioni fondate sulla leggerezza, questa nell’accezione di Italo Calvino, facendolo in modo avvincente. Con il procedere del racconto, altri personaggi entreranno in scena a movimentare e a veicolare i significati – etici – che l’autrice desidera trasmettere al lettore. Ciò viene supportato da una prosa al contempo lineare e musicale, in cui le citate istanze razionale ed emotiva si controbilanciano in un continuo gioco che risulta divertente e gaio, anche quando giunge a lambire i registri se non del tragico, certo del drammatico.

Se il nucleo della narrativa di Rosanna Sabatini – come da lei stessa dichiarato nel corso di colloqui privati, avendo lo scrivente di queste righe il privilegio di conoscerla personalmente – sono il cuore e l’emozione, si deve concordare che l’autrice – anche con questo racconto, decisamente al femminile, solo in apparenza semplice in quanto ricco di suspense e di nodi esistenziali man mano dipanati con abilità e colore – centra il proprio obiettivo facendo uso di un garbato riso e di una sana ironia, sempre utili in un mondo in cui predomina l’inganno. È in questo modo che Rosanna Sabatini riesce a giungere al cuore del lettore e a suscitarne l’emotività.

Rimane da chiedersi: quando e come  La donna dai caoelli rossi sarà pubblicato e fruibile al largo pubblico?

[Fabio Sommella, 15 febbraio 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Quando le Eredità della Storia sono davvero adeguate: il caso di Giuseppe Garibaldi

Ci sono dei casi in cui le Eredità della Storia sono davvero adeguate e degne: uno di questi è anche quello di Giuseppe Garibaldi Junior, che ho avuto l’onore di conoscere di persona, ieri, presso il Museo della Repubblica Romana di Porta San Pancrazio, a Roma (di ciò ringrazio il Centro Romanesco Trilussa, vivace comunità artistica e culturale che frequento da meno di un anno).
Dopo la rievocazione dei fatti della Repubblica Romana del 1849, da parte dell’Associazione Romana Gli Amici di Righetto, ho apprezzato molto il discorso – pacato e sobrio, pur nella sua profondità – di Giuseppe Garibaldi Junior, classe 1947. Egli, tra le altre cose, ha posto l’accento su temi e aspetti di cui sono persuaso da tempo, vale a dire sull’inevitabile e doveroso spostamento della focalizzazione sociale, oggi nel XXI secolo, su differenti punti di attenzione. Tra questi,  indubbiamente un’ottica non più nazionale bensì planetaria, ovvero: guardare al Pianeta piuttosto che solo al pur glorioso storico Risorgimento.
Una splendida persona, un pronipote degno del bisnonno: sono orgoglioso di averlo conosciuto,  avergli parlato e stretto la mano.
Ad Majora!

L'ho conosciuto di persona, ieri, presso il Museo della Repubblica Romana di Porta San Pancrazio, a Roma, dopo il suo…

Pubblicato da Fabio Sommella su Mercoledì 12 febbraio 2020

[Fabio Sommella, 12 febbraio 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

NoiGoliardi, NoiGoliardici, NoiLiceali – 01

Con questo – brevissimo – articolo/raccontino desidero dare il via a categorie di hashtag come quelle riportate nel titolo e meglio indicate qui sotto. Credo che, tali orientamenti, sarebbero coerenti con lo spirito – ovviamente non con la loro grandezza, che è incommensurabile e tutt’altra cosa rispetto al poco che io sono – di un Federico Fellini (!?!) o di un Mario Monicelli (!?!) o di un Luciano De Crescenzo (!?!)
Insomma: con questo articolo voglio presentare una sorta di zingarate, giochi di parole, calembour, boutade di eterni ragazzi che, mi auguro, abbiano un seguito, tantoda parte di chi legge, quanto da parte mia.
Tuttavia, bando alle ciance e… mi si ascolti, prego.
==========================================================
Parlando con il figlio a tavola, facendo riferimento a una sua – ormai conclusa –  pregressa frequentazione femminile, diceva : “Allora, quella signora di Trastevere…”
“Si chiamava Gertrude”, interloquì il figlio.
“No,” prontamente lo corresse lui, “quella non era di Roma ma della Lombardia…”
“Già, vero: si chiamava Rita”, disse il figlio, con l’aria di chi sa quel che dice.
“No, in effetti Rita…”, corresse a sua volta lui, “… never covered!”, con l’aria di voler concludere all’inglese.
E il figlio lo corresse – in modo arguto, sempre all’inglese – affermando: “never covered, yet!!!”
==========================================================
Ahahahahaha
[Fabio, 30 gennaio 2020]
#NoiGoliardi #NoiGoliardici #NoiLiceali

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Il Genio non ha regole accademiche (il caso di Lucio da Poggio Bustone)

Amo tutta la canzone d’autore, italiana e non solo, ma in particolare quella della Grande Stagione che va da inizio ’70 alla metà degli ’80. Amo le voci e gli stili dei maggiori cantautori. Tuttavia, talvolta, ascoltando per ore e ore le canzoni e le musiche di uno solo di loro – inevitabilmente – subentra comunque, in qualche misura, un senso di stanchezza; come se la voce e lo stile di quel pur grande autore – che magari davvero amo moltissimo – si riproponesse pressochè costante e invariata nel tempo, provocando una qualche forma di assuefazione all’ascolto. In questi casi, passo allora ad ascoltare altro autore o altro genere di musica. Ciò mi accade anche con alcuni dei grandi gruppi rock internazionali di quegli anni.

Però non mi accade, devo dire, con la musica di Lucio Battisti.

Ieri infatti, mentre lavoravo ad alcuni documenti, con gli auricolari ho ascoltato per ore e ore – in pratica dal mattino alla sera – le canzoni del nativo di Poggio Bustone, canzoni e composizioni strumentali selezionate casualmente dai motori del web. Non credo sia dipeso da un fortuito  mix randomico delle selezioni; più verosimilmente ritengo dipenda dall’ampia gamma di registri stilistici e arrangiamenti musicali di Lucio. Fatto sta che, in quelle tante ore di ascolto, non ho mai avvertito – pur minimamente – un qualche senso di stanchezza uditiva bensì una continua curiosità di ascolto. Come se, Lucio Battisti, abbia saputo esplorare l’intero universo musicale possibile, variandolo e diversificandolo sapientemente nel corso della sua carriera e produzione, musicale e poetica, dandogli molteplici forme, toni, colori, conferendogli modalità e sonorità che non provocano assuefazione, non inducono ad alcuna forma di stanchezza uditiva o cerebrale… Splendido!

Allora mi sono ricordato di quando – ero appena adolescente – in TV, noi ragazzetti di allora, già ammaliati dalle canzoni e dalle atmosfere di Mogol e Battisti, vedemmo Lucio intervenire in una trasmissione serale in diretta. Era un luglio dei primissimi ’70. La sua apparizione in TV non era per cantare bensì per dirigere un’orchestra (“A luglio si reca a Campione d’Italia per dirigere un’orchestra di 25 elementi nell’esecuzione di 7 agosto di pomeriggio[”, da https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Battisti e anche  https://www.luciobattisti.info/?page_id=1276).

In quella sera d’estate di un inizio ’70, nella TV in bianco e nero di allora, io e mio fratello, emozionati, aspettavamo che Lucio cantasse uno dei suoi brani tradizionali. Invece lui, senza proferir alcuna parola, salì su un palco dinanzi a un’orchestra e a un pubblico. Quindi solo con gesti – che ci apparivano magistrali e misteriosi – lo vedemmo dirigere quegli orchestrali. Si trattava di un brano esclusivamente strumentale: 7 agosto di pomeriggio. Era contenuto nell’album Amore e non amore. Per la musica pop o beat di allora era un brano decisamente d’avanguardia, dissonante… si provi a riascoltarlo anche oggi. Tutto ciò era abbastanza inconsueto, forse per lui ma senza dubbio per noi, che rimanemmo infatti delusi.

Al termine dell’esecuzione, Lucio con rinnovati e sempre essenziali gesti di ringraziamento, continunando a non proferir parola alcuna, si accomiatò da tutti, defilandosi in un nuovo sorprendente e irreprensibile distacco.

Che solennità!

Che mistero!

Che fascino!

Ma, anche, che delusione, per noi fan, ragazzetti di allora.

Solo a distanza di anni ho compreso come, da una parte l’orgoglio artistico di Lucio e dall’altra anche il gioco delle commistioni e contaminazioni culturali dell’epoca, propendessero e facessero sì che si potesse attuare un rituale che definisco totemico-misterico di quella portata e tipologia! 😊

L’arte creativa – polimorfa e, per certi versi, eterea – di Lucio, unita alle disposizioni attitudinali della cultura del tempo, rompeva profondamente – fino a lacerarle, facendole a brandelli – le regole cristallizzate dei conservatori, i loro dogmi e precetti; ne era al di sopra; era oltre; sublimava e travalicava i criteri e le attese della tradizione, li confondeva, li superava. Generava un nuovo alveo in cui la poesia e l’immaginazione dell’autore sovrastavano e subordinavano qualsiasi  possibile e predefinito criterio di scuola o accademia musicale.

L’artista creatore, l’artista a tutto tondo, diveniva divinità – di lì a pochi anni Edoardo Bennato avrebbe incensato/dissacrato sulla figura del Cantautore – a cui tutto era concesso, anche dirigere un’orchestra; e Lucio Battisti, novello demiurgo e deus ex machina, incarnava a pieno questo ruolo e questa figura. In tal modo anticipava in un sol colpo le tendenze della sua – ma non solo – evoluzione  musicale dei vent’anni successivi.

Il Genio non ha età, non ha tempo, non ha luogo, non ha regole accademiche da rispettare ed erompe – anche platealmente – contro e oltre i criteri dei dogmi, degli ordini e delle prescrizioni.

Ci manchi, Lucio: ci manchi! Grazie per averci donato i tuoi ritmi, le tue musiche, le tue intensità compositive, le tue rabbie, le tue voci strozzate, la tua espressività.

Ad Majora!

[Fabio Sommella, 28 gennaio 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)