La Prefazione ad Analisi semantica di quattro film – Edizione 2015

Analisi semantica di quattro film è un mio libello (pamphlet) comprendente quattro articolate riflessioni –  originatesi in un arco di tempo di oltre vent’anni  (dagli ’80 ai primi 2000) – attorno a quattro grandi film d’autore.

Analisi semantica di quattro film - Ristampa 2015

La prima edizione, cartacea, edita da Boopen, risale al 2008; la ristampa, ebook (PDF), con LULU è del 2015.

Successivamente, alcuni corposi contenuti – quelli pertinenti a C’eravamo tanto amati e a La meglio gioventù – sono confluiti, pur riveduti e ampliati, nel mio Il cambio della guardia pubblicato dapprima da Caosfera nel 2016 (edizione oggi fuori catalogo) e poi pubblicato e inserito nella mia vetrina Amazon nel 2019.

Qui di seguito propongo la Prefazione ad Analisi semantica di quattro film, ristampa 2015 [il libro in formato ebook PDF è acquistabile al link Analisi semantica di quattro film – Ristampa 2015 (lulu.com)] Oggi probabilmente rivedrei la forma, per renderla più snella, ma il contenuto credo sia sempre valido. Pertanto auguro, a chi vorrà, di nuovo

buona lettura.

Fabio Sommella, 23 agosto 2021

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  • 1 Prefazione
    Parafrasando(1) H. Tajfel e C. Fraser, che a riguardo della loro
    disciplina sottolineavano la competenza in certa misura
    acquisita da parte dell’uomo comune (anche Sigmund Freud(2),
    nel loro carteggio epistolare, appellava “fortunato” il professor
    Albert Einstein in quanto nessun uomo, che non conosceva la
    fisica, si sarebbe mai permesso di giudicare la sua opera;
    viceversa tutti si permettevano di criticare la Psicoanalisi),
    possiamo affermare che siamo tutti cinèfili o, pur
    impropriamente ma in modo più circostanziato, amanti dei film
    (certamente il primo termine appare senz’altro più nobile).
    Ovvero: tutti, o quasi, siamo perennemente, o frequentemente,
    attratti dalla magia del cinema.
    Tuttavia, più probabilmente e in generale, oltre che dalla
    congerie di elementi tecnico-spettacolari di “quell’enorme
    baraccone chiamato cinema”, ciò che più ci attrae nei film sono
    i racconti, le storie, i personaggi, i simboli, manifesti o celati, e
    quindi, in una parola, i significati che questi, nonché le loro
    vicende, incarnano e rappresentano. Così come giungono a noi
    i lontani miti e le favole/fiabe che le nostre mamme e nonne, e
    poi le tradizioni popolari e letterarie dei diversi popoli, ci
    hanno trasmesso e si tramandano da quando esiste l’uomo (e,
    forse, ancor prima), così nel nostro cuore, perenni bambini mai
    cresciuti, seppure adulti abbiamo necessità e ci nutriamo dei
    moderni percorsi dei protagonisti di storie di qualsiasi natura:
    narrativa, poetica, figurativa, musicale, teatrale,
    cinematografica, fumettistica, iconografica, multimediale …
    (aggiungerei anche matematica, ma …); e così sarà, per noi,
    per la nostra coscienza e la nostra psiche più profonda, finché
    non calerà il sipario (e, ancora forse, anche oltre).
    Ne consegue che, in base ai convincimenti di cui sopra, un
    lettore/fruitore di queste storie non può non porsi anche di
    fronte ai film, perlomeno ad un certo tipo di film, in modo non
    dissimile a quello con cui si pone di fronte alla letteratura o ad
    altri dei suddetti generi, espressioni tutte dell’arte di
    “raccontare”, pur con differenti linguaggi e metodi.
    Da queste premesse sono nate, negli ultimi quindici anni, le qui
    presenti mie quattro analisi semantiche dei seguenti film:
  • Otto e ½ – di Federico Fellini (1963)
  • C’eravamo tanto amati – di Ettore Scola (1974)
  • Luna di Fiele – di Roman Polanski (1992)
  • La meglio gioventù – di Marco Tullio Giordana (2003)
    Non me ne vogliano gli autori, con i quali innanzitutto (pur
    indirettamente) mi scuso, se un non addetto ai lavori si è
    permesso di esaminare, con l’approccio ed un fare ed un dire
    del critico del settore, alcune delle loro più pregiate opere
    (senz’altro questo è stato fatto con estremo amore e
    ammirazione e per puro spirito costruttivo e conoscitivo).
    Troppo ghiotte, dall’inizio della mia età matura, mi sono
    sembrate le varie occasioni di cimentar me stesso, “olistico
    ricercatore” in vari ambiti e settori, con i significati che a me,
    spettatore/lettore di queste opere/racconti, apparivano così
    prepotentemente fuoriuscire da loro stesse. La loro forza
    poetica, esistenziale, psichica, politica, culturale, storica,
    simbolica, onirica, planetaria, sovratemporale … trapelava ad
    ogni, spesso, ripetuta visione; vi emanava come maggiori
    entità, presenze naturali o sovrannaturali che, attraverso questi
    film, mi parlavano di una saggezza, pur nascosta e segreta,
    profonda ed eterna che, appunto, travalica lo spazio ed il
    tempo, hic et nunc, durante la visione e ancor lungamente
    permanente successivamente ad essa. Come raccontava il
    grande Massimo Troisi: da giovane egli era rimasto affascinato
    dalla visione del film “Medea” di Pier Paolo Pasolini, pur,
    precisava sempre Troisi, non avendone capito quasi nulla; così,
    o analoga mi sento di affermare, era stato il mio sentire
    all’uscita del cinema Metropolitan di Roma dopo la visione di
    “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola. Una sorta di
    folgorazione, una fascinazione profonda attorno alla storia, alla
    narrazione, ai personaggi, alle loro vicissitudini e alle loro, pur
    tristi e amare, evoluzioni (tant’è che, ogni volta con maggior
    piacere “filmico”, negli anni seguenti rividi lo stesso film
    almeno altre dieci volte in altrettanti cinema).
    Sono queste cose, queste presenze, questi umori-fermenti ed
    elementi poetico/razionali, definiti-indefiniti, che, mi auguro
    con un buon livello di analisi semantica ed espressione critica,
    ho cercato, naturalmente e istintivamente ma accompagnati
    dall’analisi delle strutture e delle relazioni narrate, di
    imprimere ed esprimere in questi quattro, più o meno brevi (le
    sezioni relative a “C’eravamo tanto amati” e “La meglio
    gioventù” sono senz’altro quelle di più ampio respiro), saggi
    critici. E, malgrado l’indubbio interesse che mi suscitò
    all’epoca, almeno coscientemente poco è valso, o poco è stato
    utile nel preparare il presente lavoro, il corso di
    alfabetizzazione/critica da me frequentato nell’anno 1996
    presso la sede AIACE di Roma: senz’altro utilissimo a
    comprendere le basi fondamentali del linguaggio
    cinematografico (inquadratura, sequenza, il montaggio come
    grammatica delle frasi del cinema, …); ma qui, senza nulla
    togliere a quanto appena citato ma senza neanche voler
    sminuire la portata del mio lavoro, si parla quasi di altro. Per
    comprendere pienamente ciò che si intende, vale quanto cito in
    una nota successiva: “(…) saggio critico su un film visto da un
    non addetto ai lavori; un oggetto d’arte, un mezzo espressivo
    (al di fuori della tecnica cinematografica ma dentro la
    letteratura)”.
    Naturalmente, non si pretende certo di aver esaurito i significati
    intrinseci a queste opere; sarebbe, si perdoni il paragone, come
    se si intendesse esaurire la simbologia dantesca o omerica con
    una lettura critica di qualche decina di pagine. Nondimeno, si è
    certi d’aver colto e trattato almeno alcuni dei principali
    elementi semantici e poetici di queste opere. Laddove si era
    consapevoli di non aver effettuato tutto il percorso critico, si
    sono lasciati volontariamente aperti, anche solo accennati,
    alcuni sentieri ulteriori. E chissà se in seguito, magari a fianco
    di un’analisi semantica di “Fanny e Alexander” (storico
    capolavoro di Ingmar Bergman, summa di tutte le principali
    tematiche, e significati, dell’opera cinematografica del maestro
    svedese) questi non vengano ripresi e approfonditi
    ulteriormente.
    Tutto ciò premesso, mi auguro che il lettore faccia uso di tale
    approccio metodologico: ciò che parla, in questo lavoro, è lo
    spirito dello spettatore che viene colpito, in positivo, dalla
    forza delle vicende che si svolgono all’interno di questi quattro
    film. Come è già capitato di sostenere e scrivere (ma non sono
    certo il primo né sarò l’ultimo ad affermare ciò), ogni
    spettatore/lettore/fruitore, completa, con la propria esperienza,
    l’opera d’arte e ne osserva e trae significati spesso anche ignoti
    agli autori stessi: del resto, a mio avviso, non è ininfluente
    affermare che uno dei mestieri più affascinanti sia quello del
    critico letterario (a dispetto di quanto a volte sostenuto anche
    da qualche grande protagonista del teatro del secondo
    novecento; ma, in tal caso, subentravano probabilmente “fattori
    di disturbo esterni” quali, non ultimi, i rapporti conflittuali nei
    confronti della critica cosiddetta “togata”), almeno di colui che
    svolge tale attività, creatività critica, affiancandola alla
    creatività creatrice delle opere (un modello, in tal senso, è stato
    senz’altro Ugo Foscolo, sia autore di letteratura che critico
    letterario).
    Alla luce di questi elementi, e premettendo che per
    comprendere, concordare o dissentire con quanto ho scritto, è
    necessario aver visionato e, almeno un pò, amato i film qui
    presi in esame, auguro di cuore buona lettura e buona “discesa”
    nei significati di questi quattro, a mio avviso grandi, racconti
    filmici.
    Fabio Sommella
    Roma, 13 gennaio 2008

(1) Henri Tajfel, Colin Fraser: Introduzione alla psicologia sociale; Il Mulino, Bologna, 1984,
pagina 15: “Siamo tutti psicologi sociali. (…)”.
(2) Albert Einstein: Il lato umano; Einaudi, 1980, Seconda edizione, pagine 33-34.

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Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Lo stupore della gioia – V03.3

Volti che ti piacciono. Li osservi, anonimi e seri, sconosciuti e compassati: gli occhi, inespressivi; le guance, distese prive d’emozioni, avulse di smorfie di riso o di pianto; le bocche, chiuse in un’assente attesa. Il rombo della metro, la voce, neutra e metallica che avvisa: “Prossima fermata …”.

Eppure ti piacciono, quei volti: non belli, hai deciso, semmai disarmonici, come un prato in periferia. Lamiere, baracche disarticolate tra pali d’elettricità, Scorcio di borgata, in lontananza, marca tempo con luce; poi una marrana scandisce un flusso allegorico. È un Tevere, un Danubio dei poveri; sono redivive improbabili care fresche e dolci acque, in cui nessuna pulzella bagnerebbe la propria beltà. Arquà, Avignone, Fontainebleau: reminiscenze recondite si affollano. E quegli occhi, come non perdersi in quegli occhi, come non perdersi nel più bel paesaggio della mente, in quelli della compagna di viaggio.

Un sobbalzo più brusco, sulla incerta pedana tra i vagoni; la ragazza asiatica tiene in mano il suo videogioco che emette ritmici trilli ostinati, tra le dita che si muovono veloci; la borsa vicina t’invade il fianco; persone in più flussi s’affollano in avanti e poi indietro.

Roma: pensi alla storia di una città trionfante e depressa, tra i volti che ti piacciono.

Eri lì, nell’aula delle medie, alla lezione d’inglese, leggendo dell’english way and style of life. La professoressa leggeva, o tu leggevi: tutti leggevate. Trafalgar Square: guardavi fuori, della vetrata: quelle belle finestre (eran belle?): la piazza sotto, con la rotonda, ti pareva la tua Trafalgar Square, la vostra Trafalgar Square. Il mondo gravitava intorno come quelle auto lungo la rotonda della piazza e in mezzo i giardinetti, che vedevi, che sapevi, che scrutavi pei vetri: alberi, fronde, panchine, ghiaia, sterrato, prato, fili d’erba la gente che si muove; la osservavi, la guardavi: corpi e volti che ti piacciono così come la vita; come la vita doveva essere: serena, misurata, compassata, equilibrata, senza corsa, scientifica, certa, sicura e moderna, poetica e luminosa, il cielo celeste che miravi oltre i vetri, dove piazza e città giravano come Londra.

Poi vi trasferirono: da quello splendido edificio, sul crocevia della piazza, al vecchio collegio, monumento retrostante la chiesa: maestosità, antichi spazi diroccati e semidistrutti.

Attenzione al piano superiore; non passate al centro del pavimento; camminate lungo i bordi, di lato vicino ai muri.

Salivate i quattro scalini della porta minuscola e vi ritrovavate nei corridoi che risuonavano di voci. Avevano messo i turni, alla media. La finestra della classe si affacciava sul campo più interno; mura alte, pure diroccate.

All’ora di Ginnastica o di Applicazioni, tutti nel cortile, a correre e a giocare a palla.

Le squadre!

Una volta il capitano ti ha scelto per primo (avevi fatto un magnifico goal di testa, l’altro giorno.).

E la scuola inglese?

Via.

Scomparsa.

Sparita nel gergo e nel gorgo pasoliniano, tra i fumi di sigarette e le gesta dei ripetenti.

“Professore, potiamo prendere …”

Ti scappò da ridere.

“Che ‘tte ridi, ah quattrò?”

Sapesti anni dopo della sua morte.

Il crollo dell’inglese, la tua Roma, tra i flutti delle marrane: caccia alle bisce e alle rane, con la fionda e i sassi: come quella dell’emigrato Renzo, dai Parioli alle praterie del Tiburtino; negli anni ’80 li avrebbe scandagliati, gli ultimi romani, come degli indiani in una riserva, stretti tra le mura del Verano e quelle dell’università.

La giostra in costruzione, nell’officina sotto casa; ragazzi che sanno la vita, amici diversi e sofferti.

Il lungo terrazzo: spaziare degli occhi, da San Pietro agli Albani: Castello, Marino, il Cavo Monte, Frascati.

Uno scorrer di auto, dopo il goal di Rivera, in attesa di Pele e Giggi Riva.

Dlen dlen, risuona la chitarra sotto le dita delle incerte accordature.

E il tuo braccio diventa chitarra, estensione di mano e di dita.

La lampada sulla scrivania, nella stanza in penombra, disegna la sagoma alla parete di fronte: gigante, nella nebbia e nel sogno, sui fianchi del colle, come il cugino di Cesare, tornato dai mari del sud; attenderà poi sei ore, nella pioggia, invocando la sua ballerina.

Come si può esser felici?

No, non cerco la felicità che non ho.

La provo.

La trovo.

La esperimento, la esperisco, ora e qui, adesso in questo momento e…

Me ne stupisco.

Me ne vergogno.

Come Giorgio, pudico e ramingo, seduto nell’auto, al mattino alle sei, fermo ai margini delle tangenziali del milanese hinterland.

Come si può esser felici?

Silenzioso solitario, mentre auto lontane rombano, egli sa del male del mondo eppur prova gioia, e se ne vergogna, candido come una collegiale che arrossisce al pensier d’un amore adombrato e lì fuori l’universo patisce: lo senti soffrire, arrancare, macchiarsi di sangue, levarsi al dolore, nella sua cognizione, subire il denaro, il lavoro gabella, la crisi, nell’eterne carenze del mondo.

I preti di Fellini, non ritrovano la strada e si perdono nella caccia alla Saraghina, lì, nei meandri tra le rovine della spiaggia, alla sera.

Le dita scorrono, veloci ed eleganti, duttili e armoniose, tra i tasti e le corde: gli accordi si formano e le melodie svaporano suadenti: ti muovi lungo le distese erbose di John Denver, le highway degli America, del wonderful world di Thiele e Armstrong evitando gli scoppi del Vietnam di Robin Williams; ora in quei segnali di vita, colti all’imbrunire nei cortili e attraverso i vetri delle case: rimandano alle celesti meccaniche dei poeti e dei filosofi, come la legge morale; ora è l’aria, densa e madida di sali e di odori di una città di mare, sospesa tra l’ieri e ‘l domani: Genova? Rimini? Napoli? Marsiglia? Rio?.

Ma come può essersi fondato tutto questo, essere sorto anche l’amore, appassionato, per Roma, per le serenate a Maria, per le fontane e i pini di Roma, quando Roma era vessata dai papi o dai romani?

Posso capire il nostalgico canto siderale di Pink Floyd ma, chiedo: come quella perennemente accorata serenata di notturni vicoli romaneschi? Come può esser la poesia, pur nella sofferenza?

La storia è una distesa, pressoché ininterrotta, di eventi luttuosi, dolorosi: morti violente, torture e storture, empi soprusi.

Pensa ai longobardi, o a Carlo Magno.

Oppure ai tiranni ateniesi; o agli spartani.

Si, va bene: Pericle, Augusto, Lorenzo …

Ma pensa ai micenei.

O ancora a Carlo V.

Pover’uomo: dopo il sacco, ancora qualche decennio e poi … il forzato, malinconico, mistico autoesilio spagnolo.

O a Clemente VIII, che al rogo mandò Giordano.

O al colto Urbano VIII, che non avrebbe rifiutato d’altrettanto far a Galileo.

Eppur si muove!

Eppur si muove l’ininterrotta radice della gioia.

Eppure, in questo corso di orrori, il vento soffia ancora, diceva l’altro poeta.

Grazie, meno male.

Pur meravigliandoti che in questo mare, in cui non sai se scoprirai quale sia la stella, ci sia sempre qualcuno che canta, facendo passar la tristezza alla barchetta, traballante e incerta, mal posta, nel mezzo del mare.

E la gioia poi sgorga e ti lascia stupito, in quegli accordi, in quei passaggi, morbidi, sulla tastiera; accompagna la garbata e pudica felicità di Giorgio, ai margini dell’autostrada dell’hinterland di Milano.

La festa da vivere, insieme lungo la passerella di Nino e di Federico, mentre i suoi preti ritornano di là del malchiuso portone e, oltre di esso infine, spicca il giallo dei limoni.

La ragazza asiatica depone il suo videogame; la borsa cessa di tormentare i tuoi fianchi.

Quei volti.

Che belli quei volti, anche inespressivi.

E quegli occhi infossati, anonimi, assenti ma profondi, sui vagoni del mondo.

Che dicono?

Voragini, amarezze, speranze, attese, stupore pel grappolo insperato d’improvvisa gioia rapita, razionalmente impossibile ma ch’eppur si muove viva.

Si muove nel collegio, nelle sue sale vuote, sui pavimenti incerti, lungo i corridoi scrostati; nella piazza lontana, notturna e deserta. Più in là, sparuto, il suono d’un menestrello canta “l’universo e la piazza”; nella Londra perduta e contro la negazione voluta da chi, nel rogo della dannazione, vorrebbe arder la vita.

[Fabio Sommella – 18-01-2014 (2019), estratto da Dal cosmo al caos II Edizione, Amazon, 2019, già 3° classificato tra gli inediti al II Premio Salvatore Quasimodo (2016-2017)]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)