Torre Archirafi, ovvero l’irrisolvibile vitale contrasto aperto di Sebastiano Vasta

Il poeta ripostese Sebastiano Vasta

Torre Archirafi – di Sebastiano Vasta

Il sonno dei vicoli si calcina

tra le case basse desolate da tristezze

immemorabili.

Nell’aria che trattiene l’eco

delle parole

e quella più sommessa del mare

si respira il vuoto millenario

di un paese dissepolto.

Il silenzio che non ha peso

qui ha un suono d’ocarina.

Azzurrina l’aria come in attesa

di un grido

d’un richiamo.

Il volo di una rondine si sfibra

nell’arco muto di una campana.

La parola che fa ressa

sulla bocca è una preghiera non detta

sulla fossa aperta dei ricordi.

[Riportata da Anna Vasta: “Mio padre poeta, Sebastiano Vasta”, in L’Età del silenzio-Lalli Editore 1981]

Annotazioni per una critica letteraria – di Fabio Sommella

La scelta del lessico – specie nella prima parte della lirica – è già indicativa di una contestualizzazione in cui, di fianco agli elementi peculiari del vecchio borgo marino, predominano altri elementi d’incertezza temporale e limitatezza spaziale, tutti insieme caratterizzanti un’atmosfera di ottenebrata coscienza, di stato vago e sfumato, in cui il contrasto tra opposti connota l’andamento profondo e lacerato della lirica: “sonno”, “vicoli”, “case basse desolate”, “tristezze immemorabili”, “aria”, “eco“ trattenuto, nonché ancora l’aria “sommessa del mare”, “vuoto millenario”, “paese dissepolto”, “silenzio”, “peso”, “suono d’ocarina”.

Qui, oltre al citato contrasto fra elementi fisici – vicoli e case basse – ed elementi temporali – immemorabili e millenario – è la scelta dei tre principali predicati reggenti – “si calcina”, “trattiene”, “si respira” – che conferisce l’ulteriore contrasto fra la tensione materica e quella aerea (o eterea), contrasto ancora connotato dal “silenzio” e dal “peso”, elementi dialettici che sfociano dapprima nel “suono d’ocarina”.  Ma, in particolare, sono due di quei tre predicati a essere espressione ulteriore di tale contrasto dialettico: il calcinare – fare calce, pur viva, da una pietra calcarea[1] – contrasta con il respirare e questi due estremi sono relazionati dal trattenere, atto compiuto dall’aria nei confronti dell’“eco delle parole”. Ciò tornerà, in altra guisa, nella chiosa della lirica.

È qui che i significati aerei prendono piede aprendo alla seconda parte della lirica dove predominano l’attesa e la leggiadria espressi in varie fogge. La prima è l’”azzurrina” aria che attende “un grido”/”un richiamo”.

Questo elemento ci rimanda ai versi di un altro grande ripostese, quel Franco Battiato che, durante la sua Summer on a solitary beach, cantava di “un grido” che “di tanto in tanto” “copriva le distanze”. Lambendo appena, qui, l’allargamento ulteriore di questo discorso alla trascorsa grande canzone d’autore del nostro Sud – da Battiato, appunto, a Mango, da Daniele ai Bennato, per citarne alcuni dei maggiori – basti qui dire che, anche Sebastiano Vasta, era visceralmente intriso della medesima sensibilità e infinità di umori del nostro migliore Meridione, umori che, tutti isomorfi tra loro, ritroviamo anche in tanta – solo apparentemente distante – storicamente recente arte musical-cantautorale.

In quell’aria azzurrina, ecco che l’attesa per l’agognata leggiadria si concretizza per un attimo sotto forma del “volo di una rondine” che, tuttavia, si “sfibra nell’arco muto di una campana”, campana che, a noi lettori, sembra di vedere, lì, incastonata nella torre campanaria che si staglia contrapposta all’azzurro cielo nell’assolato meriggio. Qui il mare e l’aria annullano le distanze geografiche, oltre a quelle temporali, e confondono il lettore avvicinando il mare e il borgo ripostese di Vasta agli ossi e al muro d’orto della Liguria di Montale.

Analogamente, se il volo della rondine si è sfibrato subito nel muto arco della campana, così “la parola che fa ressa sulla bocca” immediatamente viene taciuta, in ciò Vasta rivelandosi fedele ancora al montaliano “Non chiederci la parola” (ma certo ciò rimanda anche al tanto Non detto, cardine della migliore arte di sceneggiatura e letteraria).

È così che la parola, “preghiera non detta”, si adagia cripticamente “sulla fossa aperta dei ricordi” come un lieve – si colga, ancora qui, la controversa leggiadria – velo di commiato, dove però la “fossa” “dei ricordi” rimane “aperta”, pertanto non tassativamente serrata da una greve pietra tombale ma, probabilmente, disponibile a un ulteriore forma di dialogo.

È una chiosa laica della lirica, volutamente inconclusa, che inanella, in una splendida ghirlanda, tutti gli elementi della prima parte laddove il tacere chiude il cerchio ricongiungendosi al sonno iniziale, all’immemorabile, al millenario… suggellandone, stavolta sì, i significati; come all’inizio l’aria trattiene l’eco delle parole e la calce viva contrasta con il respiro, adesso la ressa delle parole sulla bocca diviene preghiera non detta e la fossa dei ricordi rimane, vitalmente, aperta.

[Fabio Sommella, 16 aprile 2024]

[1] https://www.treccani.it/vocabolario/calcinare/

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