La visita, 1963, di Antonio Pietrangeli

Inquadratura del film [Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1738988]
(…) Dovendo invece noi tornare ai primi anni ’60[1], vi torniamo argomentando attorno al terzo film della triade citata all’inizio di questo capitolo, quel La visita, pure del 1963, di Antonio Pietrangeli, tratto da un racconto di Carlo Cassola. Questo, in un clima narrativo che si colloca apparentemente nella più classica commedia, racconta la breve vicenda – una visita, appunto – di un momentaneo, rapido, transitorio connubio.

Ma, al di là della specificità della trama, che tra breve vedremo, ci piace presentare La visita come una sorta di fugace quanto toccante – seppure in definitiva sterile, poiché fortemente costretto e minato dalle reciproche ataviche paure e resistenze dei protagonisti – inizialmente ruvido quindi profondo e vibrante rapporto d’amore tra due opposte solitudini, due galassie che si lambiranno per il solo attimo di conoscere l’esistenza reciproca, scrutandosi profondamente, per poi allontanarsi indefinitamente, decidendo di non fondersi bensì perdendosi negli infiniti e silenziosi spazi delle solitudini cosmiche.

Le due suddette solitudini avranno i volti da una parte della felliniana Sandra Milo, dall’altra del pure ugualmente felliniano Francois Perier.

Sandra Milo – che l’anno precedente aveva dato il proprio espressivo e intenso volto a uno dei personaggi felliniani certamente più schietti quanto vulnerabili, vale a dire la Carla di Otto e ½, maschera tanto grossolana quanto equipaggiata di un candore e di una innocenza simil infantile che la riscattavano, umanamente, in termini di pathos e partecipazione – ne La visita, sarà Pina, l’esteriormente vigorosa quanto nell’intimo fragile piccola imprenditrice in un consorzio agrario in un decentrato abitato emiliano in riva al Po, avanti negli anni e romanticamente desiderosa, nella propria esistenza, di una sistemazione affettiva, laddove dalla piccola-grande folla maschile della collettività locale era, più o meno celatamente e salacemente, appellata come “la bella culandrona”.

Francois Perier, – già sei anni prima il malfido Oscar D’Onofrio nel felliniano Le notti di Cabiria, colui che si approfitta della piccola e ingenua prostituta romana, raggirandola fino a progettare il di lei omicidio e solo alla fine ravvedendosi, dando così luogo a uno dei più poetici epiloghi di film del maestro riminese, ovvero quello di Cabiria che si unisce e segue la gioiosa affabulante banda musicale di guitti – ne La visita darà il suo volto e le sue andature all’altrettanto interessato quanto gretto e meschino Adolfo, cinico ed egoista, impiegato romano, desideroso viceversa, oltre che forse di una compagnia nella vita, certamente ancor più di una sistemazione economica che gli potesse permettere una qualche forma di scalata sociale.

Ecco: Antonio Pietrangeli, con i soggettisti e gli sceneggiatori – in cui tra gli altri figura il futuro regista Ettore Scola[2] – costruisce uno dei più potenti e poetici ritratti societari – sorta di spaccato interiore – della piccola-media borghesia italiana di quegli anni, riuscendo a toccare le giuste corde emotive dello spettatore e dell’umana commedia. Il film, oltre che nei dialoghi, che toccano davvero toni e altezze non sempre consuete, e nelle sapienti sequenze, durante e post incontro tra Pina e Adolfo, sta, o può esser emblematicamente sintetizzato, probabilmente   come i volti dei bambini che scrutano dallo specchio posteriore di un auto il mondo dei grandi – in una delle espressioni finali di quel personaggio comprimario, nella vicenda conosciuto con l’appellativo di Cucaracha, caratterizzante lo “scemo del paese”, – a cui fornisce il necessario demenziale volto l’attore Mario Adorf – quando questi, mentre s’avvia l’auto che porterà Adolfo alla stazione per tornare a Roma, quasi fosse un animale che si risveglia da un apparente letargo, scaglia malevolmente, contro l’auto e implicitamente contro Adolfo, un sasso: è il mondo dei subalterni e dei reietti – del Boom italiano, che, simbolicamente, si risveglia e reagisce contro il mondo degli arrampicatori sociali.

[1] A latere, per la nostra attuale ottica – laddove se ci fossimo viceversa prefissati differenti obiettivi sarebbe naturalmente un tema centrale e fondamentale – va sottolineato che, su Roma e su quel periodo sociale e di costume del ‘60, sempre in quegli anni stava avvenendo una congiunta riflessione di Federico Fellini, insieme al prezioso coautore Ennio Flaiano. Quest’ultimo nel 1960 scriveva la commedia teatrale Un marziano a Roma, riadattandola da un suo precedente racconto. È in questa ironico-amara pièce teatrale che una indiretta considerazione di Ennio Flaiano resta impressa nello spettatore in maniera esemplare: «Roma è una città tale che, se un marziano dovesse un giorno scendere tra gli abitanti, il primo giorno tutti sarebbero stupiti e lo ammirerebbero, il secondo giorno quasi lo ignorerebbero, il terzo giorno lo invocherebbero per dirgli “A marzià, portece dù caffè!”» .

A sua volta fortemente critico, malgrado l’indubbio amore che univa il regista alla città anche nel suo film maggiormente celebrato, La dolce vita del 1960, Fellini riprenderà ulteriormente più volte la sua riflessione e le medesime tematiche, seppure con camuffamenti vari, tanto nel Satyricon, del 1969. che in Roma. del 1972. Nel primo, come già ne La dolce vita, ricorrerà la figura dell’uomo, pio e giusto, che si priverà della vita. In ciò non si può non intravedere una sostanziale continuità, nei decenni e nei vari autori, della dialettica integrazione vs emarginazione, dialettica che, manifesta o latente, interesserà almeno tutti gli anni ’60.

[2] Di lui, seppure ancora solo in termini di soggetto e/o sceneggiatura e non di regia, in quegli anni recano la sua firma, tra le altre, le due commedie all’italiana intitolate Gli anni ruggenti, film del 1962 di Luigi Zampa, e Io la conoscevo bene, del 1965 e ancora di Antonio Pietrangeli. Il primo film, tratto da Gogol’, è un impietoso e satirico affondo storico-sociale nell’Italia del ventennio scrutata in un piccolo centro del Sud attraverso gli occhi, partecipati e ingenui, di un dapprima ignaro ispettore assicurativo, reso da un magnifico Manfredi. Il secondo è ancora una storia di solitudine e tragica disillusione nell’Italia della prima metà del ’60, con al centro il personaggio della giovane aspirante attrice Luciana Zanon, interpretata da Stefania Sandrelli, figura affabulatrice che ritroveremo, ulteriormente centrale, con esiti diversi nel C’eravamo tanto amati del decennio successivo, film stavolta pienamente di Scola anche registicamente.

[Da Il cambio della guardia, di Fabio Sommella, edito da Caosfera Edizioni, Vicenza, 2018]