Il richiamo della strada

Il richiamo della strada – 17 maggio 2019

Dovevo avere non più di sei o sette anni. A quel tempo nostro padre, alla domenica mattina, era solito portarci spesso – a me e a mio fratello più grande – a vedere delle partite di calcio. Erano quelle partite che si svolgevano nei campi di periferia, ma talvolta anche in zone centrali. A nostro padre piaceva il calcio. Da giovane raccontava che era stato dirigente della squadra aziendale. Adesso, con noi e con mamma, si dedicava solamente al lavoro, tutta la settimana. Ma, al sabato sera, quando usciva dall’ufficio, aveva tempo di portarci tutti insieme a mangiare la pizza a Piazza Re di Roma. E la domenica mattina, mentre nostra madre preparava il pranzo, ci portava a vedere delle partire dilettantistiche o di semiprofessionisti.

Io allora andavo ancora a scuola alle elementari, dalle suore. Mio fratello, no: lui aveva già iniziato le medie. Io ero ancora uno studente modello; mio fratello già aveva avuto modo di deragliare. Sì: deragliare un po’, rispetto all’iter scolastico precedente, verso i confini della vita. Perché lui alle medie di via Fortifiocca stava in classe anche con alcuni che facevano scherzi pesanti al telefono alle persone, alle donne anziane; frequentava ragazzi più grandi e – come dire? – un po’ difficili, che dicevano pure parolacce.

Io no: io ero ancora tutto d’un pezzo. Casa e scuola, casa e chiesa – in verità, quest’ultima, molto poco o affatto, dal momento che i miei non erano praticanti; e ciò mi generava un certo disagio verso la suora che ci insegnava e anche verso gli altri miei compagni e compagne di classe. Insomma: andavo in una scuola religiosa ma, in effetti, tanto religioso non ero.

Tuttavia, mi pareva di star bene.

Anche quella domenica mattina papà, come spesso accadeva, ci condusse a un campo sportivo che stava non distante dal Colosseo. Rammento l’emozione di quando le due squadre erano entrate sul terreno di gioco: una era in tenuta completamente rossa, l’altra verde; per me quelle erano le squadre della Roma e del Venezia. Mio fratello mi corresse, ma io ne ero certo: lo sapevo dalle figurine!

Ricordo che, su quegli spalti, facemmo amicizia con un altro ragazzo. Doveva avere un’età fra me e mio fratello. Era molto garbato e compito, tanto che nostro padre si era messo a parlare con suo padre e noi ci eravamo leggermente allontanati di qualche gradino sugli spalti; insomma: eravamo io, mio fratello e quel ragazzo. Con lui trascorremmo piacevolmente quella ora circa di partita, a guardare le prodezze dei giocatori in campo dalla nostra piccola tribuna, da quegli spalti che mi sembravano così pieni di vita e accoglienti.

A un certo punto, io, inebriato dal fervore e dal colore della folla attorno, fui ulteriormente colpito da un’espressione che proveniva da dietro e più in alto di noi: qualcuno, in un impeto che a me sembrò così bello, aveva esclamato qualcosa del tipo: “A stroooonzoooo!” Non so a chi si rivolgesse, probabilmente a qualcun’altro che occupava il terreno di gioco, così mi parve di capire; o forse a qualche suo amico, che voleva salutare con simpatia – mi pareva davvero gioviale, quel modo inconsueto di salutare – o, pensai, all’arbitro, quel signore che, vestito di nero, sul campo da gioco si distingueva chiaramente da tutti gli altri. Fatto sta che, quell’urlo, quel gesto, quel modo di gridare, quella parola, mi erano sembrati così affascinanti che, poco dopo, presi a ripetere anch’io quella medesima parola. Ma non nello stesso modo, no: la gridai qualche volta senza riferirmi a nessuno in particolare ma solo per scena, moda, per farmi bello nei confronti di non so chi. Probabilmente di me stesso. Tanto che, il nostro amico, mi disse: “Ma che dici? Se ti sente tuo padre!” E che mi fa?”, domandai io in tutta risposta. Fatto sta che, in quella mia nuova momentanea euforia, trascorsi il restante tempo fino al termine della partita. Io e mio fratello fummo poi raggiunti da nostro padre, salutammo il nostro amico e tornammo a casa per il pranzo.

Alla sera, dopo cena, mia madre, che mi stava lavando e preparando per la notte, mi chiese: “Vi siete divertiti stamattina al campo sportivo con vostro padre?” “Certo”, risposi io pronto, “abbiamo detto pure «Stronzo!»” “Cosa?”, mi chiese mia madre. “Sì”, le risposi, “l’abbiamo sentito lì che lo diceva un signore del pubblico.” Vidi mia madre stranamente inebetita che si alzò, uscì dal bagno e andò in salotto, dove mio padre stava vedendo ancora la TV, e gli chiese: “Peppino, ma cosa hai fatto dire ai ragazzi stamattina?” Mio padre, sorpreso, rimase frastornato dal tono di mia madre. Lei gli disse meglio. Mio padre mi chiese. Io a mia volta spiegai che avevo ripetuto quella parola udita da me e detta da qualcuno in mezzo alla folla degli spalti. Loro sorrisero e poi mi dissero che comunque non dovevo dire quella parola, perché non si diceva, e che non tutto ciò che si ascolta in un luogo va ripetuto, che non tutto è buono. Io imparai, con molta tranquillità. Loro non furono affatto duri o severi, con me. Però mi aveva colpito il loro stupore, di mia madre in particolare.

L’episodio si può dire che terminò lì: tuttavia mi ritornò in mente quando, qualche tempo dopo – ma neanche troppo –, allo Stadio Olimpico, in occasione di un Lazio-Napoli, udii un terzetto di persone esclamare ripetutamente “Mortacci sua!” Ma ormai, pur senza ben comprenderne il senso, avevo appreso che quel richiamo – il richiamo della strada, capii quando divenni più grande – non era sempre da seguire in modo passivo ma che richiedeva una forma di consapevolezza a me, allora, ancora sconosciuta.

FINE

[Fabio Sommella, 17 maggio 2019]

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