I processi attentivi nel paradigma cognitivista – Un sommario e una critica

Se i principi che dirigono il processo percettivo (le asimmetrie percettive e le organizzazioni percettive) sono limitati in termini di costi computazionali [Turatto, Massimo. PSICOLOGIA GENERALE – Edizione digitale (Italian Edition), pp.123-124], ciò non è altrettanto vero per i processi attentivi che, necessariamente selettivi rispetto alle informazioni in ingresso, richiedono risorse e stime computazionali con costi elevati [TURATTO, ivi, p. 139].

Si sottolinea ciò per ribadire forse un’ovvietà, ovvero: se percepiamo, potenzialmente, tutto quello che i nostri sensi ricevono in input, in genere facciamo effettivamente attenzione solo a una quantità minima e selezionata di tutto questo. Attestazioni sperimentali di ciò vengono dagli studi sui processi attentivi che fanno capo principalmente ai lavori di Donald Broadbent, Michael Posner, del prematuramente scomparso John Driver insieme a Charles Spence, di O’Craven e collaboratori.

Negli anni ’50 Broadbent, sulla scia dell’effetto cocktail-party molto studiato a quel tempo, aveva proposto la teoria attentiva del filtro precoce (in parte risalente a Titchener), secondo la quale le informazioni a cui non si fa attenzione e che vogliamo ignorare verrebbero filtrate dai meccanismi attentivi e non sarebbero elaborate.  Ma negli anni Sessanta Anne Treisman mostrò come la presenza di un qualche elemento bizzarro nel messaggio da ignorare sia sufficiente affinché si sposti l’attenzione su quell’elemento: secondo Treisman, quindi, l’attenzione non elimina il messaggio da ignorare ma ne attenua soltanto l’elaborazione.

Forse in seguito a ciò negli anni ’60-’70 si distinguevano due differenti livelli processuali di elaborazione dell’informazione: 1) automatico, 2) consapevole. I processi automatici sono rapidi, di breve durata, paralleli, ovvero sono elaborati in contemporanea e indipendentemente fra loro per più parti dello stimolo e per più attributi, risultando pertanto abbastanza impermeabili alla nostra attenzione. I processi consapevoli sono relativamente più lenti, laddove richiedono un tempo di elaborazione più lungo, sono di più lunga durata e sequenziali, cioè richiedono un’elaborazione analitica e successiva degli stimoli.

Negli anni ’80 si diffonde il paradigma sperimentale di studio del suggerimento spaziale, escogitato dallo psicologo statunitense Michael Posner: gli osservatori devono riportare il più velocemente e accuratamente possibile la presenza d’un elemento bersaglio (target) periferico (per esempio, un quadratino nero), la cui comparsa è preceduta da un segnale (cue) presentato centralmente (per esempio una freccia) o perifericamente (per esempio la comparsa improvvisa di un punto luminoso). Il cue può segnalare correttamente o meno la posizione in cui comparirà il target, oppure non fornire indicazioni utili per la localizzazione del target (prove neutre). Il tipico risultato degli studi condotti con questo paradigma evidenzia che l’efficienza della rilevazione dell’elemento target è maggiore nella condizione in cui il cue segnala correttamente rispetto alla situazione neutra e ancor più rispetto alla situazione scorretta.

Il paradigma di Posner viene messo in relazione alle due modalità generali con cui possiamo spostare l’attenzione nello spazio: l’orientamento endogeno e quello esogeno, dove il primo – anche detto volontario, o interno – è la tipologia di orientamento attentivo che si verifica in base a indizi che sono strettamente legati a conoscenze pregresse, motivazioni, aspettative o istruzioni; viceversa il secondo – anche detto automatico, o esterno – è lo spostamento delle risorse di analisi che si verifica in base a indizi legati alla salienza fisica.

Misurando l’attività del cervello in paradigmi di suggerimento spaziale, si è evidenziata la presenza di due circuiti neurali separati che riguardano larghe porzioni delle aree frontali e parietali del cervello; questi spesso interagirebbero tra loro nel modulare il comportamento.

Nella versione multisensoriale del paradigma di Posner, Driver e Spence hanno confermato che l’orientamento dell’attenzione su una modalità spaziale avviene per tutte le modalità coinvolte.

Anche gli studi condotti a partire dalla fine degli anni Novanta mediante neuroimmagini si sono occupati di misurare le attivazioni del cervello conseguenti alla selezione di oggetti. Le ricerche di O’Craven e collaboratori, consistenti nella presentazione di due oggetti sovrapposti al centro dell’immagine (volti o edifici), hanno messo in evidenza che, di volta in volta, solo una categoria era rilevante per il compito e che vengono attivate due aree specifiche della parte posteriore del cervello (per i volti la Fusiform Face Area e per gli edifici o i luoghi la Parahippocampal Place Area).

In definitiva si può affermare che, forse mai come in quest’area di ricerca psicologica, si avverte la mancanza di un comun denominatore interpretativo dei processi allo studio, che possono pertanto apparire molteplici e in parte ancora confusi.

Ma – quando si legge che anche il “padre” della Psicologia Cognitiva, Ulric Neisser, «fondatore del Cognitivismo, assunse in seguito (…) una posizione critica rispetto ad alcune tesi del Cognitivismo stesso (…) evidenziò la distanza dall’esperienza della vita quotidiana delle teorie cognitive (…) sottolineò anche la poca considerazione dell’influenza del fattore ambientale sulle teorie» [TURATTO, ivi, p. 561] – non si può fare a meno di pensare che, forse mai come in questa specifica area di ricerca della psicologia cognitiva, si manifesta la tensione – ossessione? – del cognitivismo di rendere la psicologia una scienza eminentemente empirica a discapito di un approccio ecologico.

[Fabio Sommella, febbraio 2022]

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