Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini: riflessi dell’anima nella loro arte e specchi societari (V02)

Osservando due delle immagini giovanili dei principali artisti del Barocco romano e italiano, ma – ovviamente – non solo, ci si può chiedere quanto e come, dale medesime e fin da subito (certo: a posteriori appare semplice!), si sarebbero potuti evincere gli sviluppi successivi delle loro vite.

Volitivo e incisivo il Bernini, tenace e introspettivo il Borromini; il primo dai profondi occhi scrutanti e consapevoli; il secondo dagli occhi sfuggenti, inquieti, come cercanti un inappagato remoto lido di redenzione.

Certamente, se ciò fosse stato possibile, anche stavolta C. G. Jung, all’interno dei suoi emblematici Tipi psicologici le cui polarità sono riconducili agli stilemi apollineo e dionisiaco, avrebbe parlato (e chissà se non lo abbia poi mai fatto, anche per questi due grandi della nostra arte) di personalità estroversa, convincentemente volitiva, orientata alla luce e alla vittoria per Gian Lorenzo; viceversa di personalità introversa e come circondata da un alone irrazionalistico per Francesco, seppure adlerianamente attaccata a, e pervasa da, una pervicace volontà di potenza, che lo avrebbe per qualche tempo psicologicamente affrancato dalle senza dubbio più umili origini, lasciandolo infine deflagrare in un estremo gesto disperato.

Le loro antitetiche anime si sarebbero inevitabilmente proiettate, poi concretizzandosi magnificamente, negli stili e nelle manifestazioni, più ostentate ed evidenti, delle loro opere artistiche: Bernini negli Apolli e Dafne, colti in attimi metamorfici, nelle solarità dei tripudi ed estasi, nelle cattedre del primo vescovo della chiesa, nei sepolcrali monumenti papali e nei colonnati avvolgenti la convocata umanità, dei fedeli e non, pretendendo di abbracciarla secondo un totale progetto di globalizzazione ante-litteram; Borromini negli interni di raffinatissime cupole prospettiche, riecheggianti le geometriche strutture naturali della biologia, nelle articolate e armoniose facciate di palazzi e chiese, nei loro ricercati curvilinei ritmi dialettici, nei trucchi visivi, eloquenti rivelazioni circa la fallacia del mondo, certamente anche sulla scia di altri grandi che lo avevano preceduto ma, egli, con una personalizzazione degli elementi compositivi estremamente genuina e pregnante.

La durezza e frivolezza di un ennesimo angusto secolo, apertosi con il rogo del Bruno ed emblematicamente stigmatizzato dall’abiura galileiana costretta nel 1633 proprio sotto il pontificato del papa “umanista” e mecenate Urbano VIII, sarebbero trascorse su entrambi loro, con gli inevitabili opposti epiloghi esistenziali, sostanzialmente compiendo e concludendo un sovra-secolare ciclo di programmi papali; tutto ciò mentre, in aree europee e in particolare in quelle anglosassoni, si preparavano le premesse di ciò che, nel XVIII secolo, sarebbe stato chiamato Illuminismo.

[Fabio Sommella, 23 settembre 2012 (rev. 16 luglio 2020)]

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