Figure

Tre personaggi – bozzetti reali e irreali – che, per motivi diversi, mi hanno colpito nelle loro storie. Sono il frutto di ascolto di racconti di amici, congiunzioni e contaminazioni di storie con altri racconti, nonché di osservazioni.

Un lui bambino, romano ieri

Era quando il padre lo portava dal nonno, che era uscere al Messaggero. Ma non era un uscere qualsiasi: era l’equivalente, oggi, del Punto d’Attenzione di un’azienda. In questo caso del Giornale. Smistava, dirigeva, indirizzava, consigliava.

Col padre attraversavano il traffico di via del Tritone, provenendo loro da Porta Pia e via XX Settembre. Altre volte provenivano dal Traforo di Via Nazionale; si, perché allora venivano da Testaccio. E, in questo caso, attraversavano Piazza Venezia. Che da Testaccio, gettavano il cappello e stavano lì.

Quando entravano il padre lasciava lui dal nonno. Questi se lo prendeva fra le braccia e gli diceva: «Bello de nonno, adesso nonno te fa vedé la Storia de Roma, quella dell’urtimi cento anni, circa.» E lo portava verso il suo sgabellone, dietro al banco. Lo metteva lì sopra e si assentava per un breve tempo. Entrava velocemente in un retrobottega. Lui lo vedeva scomparire per qualche attimo dietro a una porta grigia e grossa. Poco dopo il nonno ne tornava con due o tre grossi libri – poi seppe da grande si chiamassero faldoni – . Questi avevano pure delle copertine grigie e, sul lato, delle grosse etichette bianche con delle scritte. Lui non sapeva cosa ci fosse scritto ma era davvero incuriosito. Il nonno gli diceva: «Adesso aprili e guarda quante cose.» Lui, con la manina, iniziava a sollevare quella che era la pesante copertina di cartone pressato. Poi c’erano dei fogli bianchi con poche scritte in mezzo alle pagine. Ma, poco dopo, iniziavano le immagini. Grandi. Erano quasi tutte bianco e nero. Ed erano sormontate, in alto, da una grande scritta. Era quella del giornale di nonno suo: Il Messaggero, appunto. E gli piaceva quella scritta perché era fatta con caratteri strani. Gli ricordava i film di Robin Hood che vedeva in TV. «Sono gotici», gli aveva detto il nonno. Gotici? Ma che vuol dire? Lui non sapeva cosa era gotico e cosa no. Ma quei caratteri – tipografici, seppe poi, sempre da grande – erano troppo belli davvero. Sicuramente pure Robin Hood ci aveva collaborato. E, in quelle pagine, tra le tante immagini, c’erano colonne scritte fitte fitte. E sfogliava. Sfogliava. E immaginava storie. E arrivava alla pagina del pallone. E poi a quella dei cinema. Si, perché parlava dei cinema della città di Roma. La sua città. Lui, che conosceva tanto Montesacro quanto Testaccio.

A volte, infatti, il padre lo portava lì da Testaccio E gli diceva: «Adesso ti porto da nonno, perché papà deve fare dei lavori negli uffici del Messaggero. Poi a ritorno, se fai il bravo, ci fermiamo a prendere il gelato da Zì Elena.» E lui si divertiva troppo. Davvero. Perché gli piacevano quelle storie. Quei cinema. Quelle storie di calciatori. Quelle immagini. Gli piaceva suo padre. Gli piaceva suo nonno. Con le storie, che con loro s’immaginava.

Un lui adulto, romano, ieri

E quello che gli era rimasto in mente, dopo che si era sposato e aveva portato la moglie a vivere a Testaccio, era lo stupore di lei. Lei era abituata alla piazza del suo paese, ad Avellino. Come diceva quell’antica canzone che gli cantava la madre? «Pa a strada sulitaria d’Avellino nun sta passanno manco nu traino.» Si, era la storia dello zampognaro innamorato, dell’ottocento. O forse ancora prima. Lo zampognaro innamorato che, dal paesello della provincia, giungeva a Napoli, nella grande città. E lì, più che dalle bellezze e dalle ricchezze dei palazzi, rimaneva incantato dagli occhi. Gli occhi della signora presso cui si era recato a suonare. «Ma chiù lui s’incantò de ‘sti bellizze, dell’uocchie da signra e delli trezze.»

Adesso invece era Roma, lo stupore. Roma, Testaccio, erano lo stupore per sua moglie e – in qualche maniera – anche per lui. Pure se lui ci era nato e cresciuto. Perché amava il suo rione. Ma, adesso che c’era lei e che avevano avuto il loro bambino, amava ancora di più tutto quello che , lì, li circondava. Amava quando salivano su, all’Aventino. Portavano il pupo in carrozzina. Avevano attraversato via Marmorata, da via Bodoni. E avevano percorso le graziose salite, tra le residenze signorili e le abitazioni dei divi. Ma poi erano giunti su, a Santa Sabina. Il silenzio regnava sovrano. Gli echi della città sottostante, coi suoi rumori, sembravano lontanissimi. Inesistenti, qui. E percorrevano tranquilli quelle strade. Giungevano a Piazza dei Cavalieri di Malta. Sbirciavano il cupolone dalla serratura del portale. S’affacciavano su Sant’Anselmo. E respiravano l’aria dei secoli trascorsi.

Quando si incamminavano per ridiscendere, si sentivano i rumori, piano piano, ricomparire: di lontano il transito delle auto, i clacson, la voce del tram sulla via centrale. Riscorgevano le luci dei semafori. Era la vita – altra – che ritornava pulsante. Lei se lo guardava, quasi stupita. Lui lo sapeva: la moglie andava comparando tutto quel fermento urbano al suo paesino. Perché, nella loro immaginazione, era ancora come nella canzone che le loro madri cantavano: «Pa a strada sulitaria d’Avellino nun sta passanno manco nu traino.»

Una lei romana oggi

Sta lì, seduta al posto in metro, e parla concitata. Strascicata? Un po’. Dice: «Si, oggi, lui è partito pe’ la crociera. Nel Mediterraneo. Indovina ‘ndo va? Se ferma a Ibiza. A Formentera. Io ce vojo annà pur’io, ‘ngiorno, a Formentera.» Te la guardi. Fiera nel suo portamento. Si alza, sempre col telefonino all’orecchio, e noti. Noti come, ella, faccia bella mostra del suo pantalone: un maculato leopardato tutto “aggressive”, vèèèro. Come dire: «Maschio, occhio, che io me te magno. Oh yeah!»