Da “Io e Te, storie di precarietà” (un lavoro futuro: residui, luoghi, non-luoghi, spazi)

Da bambino, quando passavo con mia madre appena fuori della Latina, sentivo che incontravo residui dell’Italia di Pinocchio; sì: quella dell’Ottocento. Dietro alle case antiche, in mattoni grezzi, mi aspettavo di incappare nel Gatto e la Volpe, Mangiafuoco o scorgere Lucignolo divenuto somarello.

Alle scuole medie, area metropolitana, affioravano questi residui, tuttavia frammisti anche ad altri, compresi quelli pasoliniani. Sagome e facciate di comprensori grezzi dove individuavo vecchie e nuove vestigia di precarietà, ibride, non definite in una loro identità chiara, netta. Tanti anni dopo qualcuno avrebbe parlato di non-luoghi, poi di dislocazioni.

Tutto ciò cominciai a trovarlo anche altrove. Era nei weekend quando, con la famiglia, in auto percorrevamo la statale, la lunga strada serpeggiante che conduce al litorale sud. Questa dapprima costeggiava l’area dei Castelli, poi s’inoltrava limitrofa alla piana Pontina, che – mi raccontavano i miei – decenni prima era stata bonificata.

Per il pranzo facevamo sosta in una trattoria. Si trovava in una frazione di quelle cittadine – impressione di precarietà, è? – sorte anch’esse fra le due guerre. In passato quel locale era stato un’osteria, di quelle di Fuori Porta, meta di ciclisti e camionisti. Adesso l’avevano rimodernato, assurgendo alla pretesa di ristorante.

Al locale si accedeva sia dalla strada – la statale – che dal retro, dove alcuni parcheggi auto erano ricavabili. Sul davanti una siepe ben curata, con dei vasi di fiori, faceva da corona all’entrata, di fianco a belle vetrate, quelle dell’annessa sala limitrofa, aperta di recente come salone per banchetti.

Sul retro, invece, confinava con uno sterrato dal quale, oltre ai posti auto, si aprivano nuovi ulteriori spazi per me indefiniti: la facciata di una chiesa perennemente chiusa – forse era stata sconsacrata? –, un orto mal messo, residui di un cantiere edile con ingombranti arnesi in acciaio e annessi calcinacci. Altro ancora.

Tutto ciò riecheggiava gli spazi delle medie, gli spazi dell’infanzia fuori della Latina.

Era in questi spazi – di fatto ridotti ma, nella mia mente, sterminati – che, nelle pause del pranzo o in attesa che i grandi bevessero il caffè e l’amaro, mi piaceva spesso indugiare, inoltrarmi, percorrendoli perimetralmente alla ricerca di un senso, di un confine e di una continuità, nel troppo vago transitorio dei medesimi e del tempo.

Tutto poi si smorzava, o perlomeno sfumava, alla ripresa del viaggio e giungendo infine al mare. Nelle cittadine costiere ritrovavo gli umori della seconda guerra – lo sbarco degli alleati – e certi idiomi del basso Lazio che preludevano a Napoli e a tutto il Sud. E si aprivano grandi orizzonti. Perché il mare, oltre a baluginarmi negli occhi, mi scintillava dento con le sue illusioni di spazi sconfinati, laggiù, sulle opposte coste.

Quando alla sera la TV portatile in bianco e nero erroneamente – o erano mio padre e mio fratello che cercavano quei canali? – si sintonizzava sulla Tunisia e apparivano strani bruni personaggi, presentatori che parlavano in maniera incomprensibile, allora capivo che anche il mio ristretto mondo, lì vicino, era potenzialmente più vasto. Mio fratello mi spiegava che la Tunisia era la discendente di Cartagine, quella che tanto da fare aveva dato a Roma. Il mare diventava allora un sogno, un luogo attraverso il quale fuggire.

Alcuni anni dopo – ma neanche troppi – un poeta li avrebbe cantati, scorgendo tutto ciò e altro ancora in un poster pubblicitario; era dagli spazi angusti che circondavano una panchina fredda di una stazione metro.

Ero stato – o mi trovavo – anch’io seduto su quella medesima panchina?

 

[Fabio Sommella, 14 settembre 2019[

 

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