I conflitti di un Uomo letti nella figlia, ovvero Ultima Stazione di Anna Vasta

In una dimensione tanto meta-narrativa che meta-critica, scenario spesso proprio degli incontri impossibili, Anna Vasta – già affermata poetessa di acuta e incisiva sensibilità, nonché pensatrice di indubbio pregio intellettuale e culturale – ambienta [Anna Vasta, Ultima stazione, in Salvatore Stefanelli (Ed.), Le improbabili, 2023] un pregnante dialogo immaginario tra un padre e una figlia, pur simbolici, nello specifico Lev Tolstoj e una delle sue più apprezzate creature letterarie, vale a dire quell’Anna Karenina che, da quasi centocinquant’anni, affascina e seduce tanto la critica letteraria che la filmografia.

Se anche Anna Vasta sottolinea la convergenza del destino di padre e figlia in quelle pur differenti stazioni ferroviarie che segneranno, tragicamente, gli esiti di entrambi, nel preambolo di questo meraviglioso incontro, ma soprattutto nel cuore del medesimo, ne disegna e ne tesse le forme e gli orditi cesellando il quadro d’insieme con finissime trame critiche e con ulteriori dettagli che, al di là della bellezza intrinseca, esprimono la recondita intesa che, caratterialmente, lega il padre alla figlia, lo scrittore al personaggio, il demiurgo alla propria creatura.

Magnifico è leggere la lunga digressione che la Vasta dedica alle atmosfere drammaturgiche tolstoiane filtrate attraverso la paesaggistica e le ambientazioni russe ottocentesche: “Le immense incolori distese di neve, le betulle spoglie, la luce fioca dei tramonti e il gorgoglio fumante del samovar. Poi le prime crepe nei laghi gelati, i rivoli d’ acqua smeraldina che luccicavano tra i ghiacci. Era il disgelo”. Ma ciò è l’indispensabile background che la poetessa e scrittrice imprime al suo emblematico ed elucubrante racconto breve per sostenere altri significati: l’intimo rapporto che sorregge padre e figlia simbolici, nonché i destini di molti, certo dei medesimi ma, non ultimi, anche quelli di eventuali lettori.

Se con l’altra immensa eroina della propria narrativa – l’irresistibile, per molti di noi lettori soprattutto maschili, Nataša – il Maestro della letteratura russa era stato magnanimo, consegnandola infine a un destino  di caldo tepore famigliare a fianco di uno dei suoi maggiori alter-ego – quel Pierre Bezuchov, personaggio sempre in bilico fra opposte sorti e tensioni nonché pieno rappresentante, insieme al principe Andrej e a Konstantin Levin, dei tormentosi dubbi esistenziali dello scrittore – Tolstoj, con “Annuska” Karenina, inizia in qualche modo a preconizzare anche la propria tragedia. Anna Vasta, nel proprio racconto, attesta questa consapevolezza quando il conte Tolstoj, rivolgendosi alla Karenina, sottolinea che “non potevo cambiare la tua storia e inventarmi per te amori felici, se mai esistono. E comunque non erano nella mia vena.”

Ciò sarà infatti anche per i protagonisti di altre opere come La morte di Ivan Il’ič o Sonata a Kreutzer.

È questo, ci segnala Anna Vasta, l’intimo rapporto che accomuna la protagonista Anna Karenina con il suo creatore; ma anche, aggiungiamo noi, con le altre successive creature letterarie, nonché con molti lettori che hanno amato e amano questi sontuosi affreschi di vita pur romanzata: il conflitto, fino alla rottura estrema comprendente il sacrificio e la rinuncia a ogni forma di esistenziale accondiscendenza, verso le convenzioni e gli obblighi della società del proprio tempo. È in tale ottica che Anna Vasta, quando Anna Karenina si rivolge al conte Tolstoj, le fa dire: “Fui messa al bando dall’ ipocrita, moralista, corrotta società pietroburghese per la mia storia con Alekeij. Voi conoscevate bene quel mondo iniquo e, per quanto uomo di autentici principi cristiani, non avete puntato il dito contro l’adultera.”

Cose dell’Ottocento? Superate? Ovviamente no, o comunque, pur in altra foggia e trasformate dalle diverse culture del tempo e dei luoghi, certo non solo.

Pertanto lode ad Anna Vasta per questo mirabile impossibile dialogo fra un padre e una figlia, fra un Padre e i suoi figli lettori, fra un padre e i suoi più riposti conflitti irrisolti di Uomo.

[Fabio Sommella, 8 aprile 2023]

 

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Un ‘bozzetto metropolitano’, del grande Francesco romano, datato 1978

Questo struggente brano – non una vera e propria canzone, più una breve ma intensa sequenza filmica, di fatto un bozzetto metropolitano tardo anni ’70 – è tra le cose più belle del Francesco romano, il nostro grande Francesco De Gregori (l’altro grande Francesco, non romano bensì dell’Appennino Tosco-Emiliano, naturalizzato bolognese, è naturalmente Francesco Guccini).

Da quando, sul finire del 1978, comprai il LP, mi ha sempre incantato la vena di tenue lirismo, filtrato attraverso lo sguardo malinconico di Stella, la bambina protagonista. Con lei iniziano i versi poetici di questo bozzetto. Lo sguardo di bambina sul mondo – un mondo percettibilmente crudo e violento –  apre, comunque, a una possibilità se non di felicità, certo di distensione. Questa, oltre che dai toni di colore – “la notte è bella, è bella e profumata d’aranciata e di menta” -,  viene espressa dal sommesso canto finale materno (“E mamma lava i piatti e canta piano”), che si esplica articolandosi in un verso musicalmente prolungato e dai voluti toni cantilenanti. Pertanto… è un canto quieto, inconsueto, sorprendente per le due donne protagoniste, la giovanissima figlia e la grande madre. Sembra – per figlia e madre – finalmente un primo momento di inusuale quiete, laddove “Stella è contenta che babbo se n’è andato, che babbo è via lontano”. Pietà pura ed empatia, che Francesco De Gregori riesce a infondere con pochi tratti e pennellate a queste figure. E con l’immagine materna, che lava i piatti cantando placidamente, si chiude il brano, chiusura suffragata da note languide e al contempo essenziali.

Babbo in prigione , questo il “forte” titolo del brano, era sull’abum intitolato Francesco De Gregori, LP del 1978, quello con la foto di Francesco che corre con un pallone ai piedi su un grande prato verde. Un’immagine riecheggiante speranze? Forse si, anche se vicende simili sono state e sono, a oggi, purtroppo sempre attuali.

Lo ripropongo qui, questo brano, in questo mio personale arrangiamento chitarra acustica e voce (poca, in realtà, ma… fa nulla, pazienza!) E lo dedico a una persona lontana. Un testamento spirituale, un  message in a bottle gettato al suo indirizzo nell’oceano di internet. Chissà… le giungerà mai?

[30 novembre 2018]

 

Ad Anna (poesia di Sebastiano Vasta)

Non so più dove ti colsi.
Certo nei prati rilucenti di antichi sogni
distolsi l’oro della tua semente.

Sui rami dei miei nudi inverni
la tua gemma spuntò
come un miracolo
e a nuovo mi vestì la tua speranza.

Le tue carni e l’oro dei capelli
per non sciuparti ho sfiorato
con le mani inasprite dagli anni

Nata dalla mia speranza d’essere
e di non finire, in te
la mia sostanza umana
ad altri sensi rinasce
a nuova vita.

Sebastiano Vasta. L’età del silenzio. Lalli Editore. 1981