Quell’albero delle marasche, soglia etica e postuma oltre la Storia

A destra Mario Pizzolon, 21 luglio 2022 [Fonte https://www.facebook.com/photo/?fbid=1800744480317522&set=a.239222236469762]
Leggendo la raccolta poetica di Mario Pizzolon intitolata L’albero delle marasche – Il Leggio Libreria Editrice, collana La Nicchia, 2022, Chioggia (VE) – fin dalle prime liriche si avverte una peculiare sensazione, corroborata poi dalla lettura delle successive composizioni. Con il completamento della lettura dell’intera opera, questa sensazione diviene incontrovertibile e certa: la poesia di Mario sgorga, spontanea, dalla consapevolezza di un ben determinato limen, una soglia culturale ma anche geografica, che differenzia qualitativamente e in modo netto la visione del Mondo dell’autore dal comune sentire della quotidianità, del vivere ordinario, dal non porsi domande esistenziali bensì solo ovvie. Il potere evocativo di ciò può ricondurre il lettore attento alle prime proprie letture della giovinezza, quando i versi dei poeti classici ci facevano avvertire una sorta di arcano distacco dal Mondo, sollevandoci dai nostri affanni contingenti.

L’impatto, sulla coscienza del lettore sensibile, della percezione di questa soglia, di cui è intimamente intrisa la poesia di Mario, è davvero particolare. Esso, in maniera decisa, travalica le istanze temporali della contemporaneità, le diverse generazioni e anche la Storia; si va viceversa a collocare in un territorio e in una dimensione dove tutto appare sovratemporale e postumo, dove tutto è già accaduto. Così restano indelebili i pianti, siano questi quelli del vecchietto che sottrae un sacchetto di marasche all’indomani di un ennesimo piccolo-grande scempio ambientale; o quelli del non vedere più nulla, tantomeno morti, dopo l’apocalisse del Vajont, rammentata con scarni e scabri versi che solo la preghiera della chiosa può tentare di lenire.

È quindi in questa dimensione altra, di sospensione emotiva, in questa nowhere land dal sapore al contempo tanto primigenio quanto da giorno del giudizio, che tutti i protagonisti delle liriche e delle istanze poetiche di Mario si sono – in qualche modo e misura, in qualche luogo non meglio identificato – già incontrati. Essi, si avverte, hanno assimilato la consapevolezza del Vivere, della Natura, del Misticismo, delle domande della Scienza.

Nondimeno, leggendo i versi delle quattro sezioni poetiche, spesso al lettore – forse romantico – sembra di percorrere i silenzi dei lunghi viali di molte città delle tre Venezie, di incappare nei volti – al contempo sobri e coriacei, volitivi e caparbi (uno per tutti, quello di Dino Zoff) – dei suoi nativi, nelle loro anime perennemente sospese fra le memorie di una illustre civiltà contadina e le consapevolezze e curiosità di un futuro iper-tecnologizzato.

In un alveo bipolare, il poetare di Pizzolon, dagli originari e intimi nessi con le radici e i fusti delle piante, diviene bit informatico e sinapsi di neuroscienza, disgregando il proprio universo e disgregandosi a sua volta in dimensioni di quanti informazionali, pacchetti digitali, neuromediatori chimici.

Tutto, nella poesia di Mario, è quindi sondato ed esperito secondo una prospettiva etica postuma, anche il dolore odierno che però non diviene mai sterile rimpianto di un passato agognato o migliore ma lucida visione del suo frantumarsi in schegge di necessità. Queste, nel segno di una impersonale saggezza, mite ma ferma, restano a loro volta sovrastate da altre superiori necessità: dalle domande di un eterno procedere in un processo che non è lineare e che non ha termine – sarebbe fin troppo banale e ciò non appartiene a Mario – ma si autoalimenta degli eterni cicli del vivere, certo al di là dell’esistenza privata dei singoli bensì in un’ottica collettiva che tocca tutti noi.

La copertina de L’albero delle marasche

[Fabio Sommella, 25 luglio – 08 agosto 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Il personale Leggere e Scrivere: un susino con foglia, forse frutti se il sole…

La metafora brechtiana del susino, a cui – sapientemente e metodologicamente – ricorre Cinzia Baldazzi per significare la rilevanza del Leggere e dello Scrivere, è di una bellezza e delicatezza particolari.

In questo modo la scrittrice e critica letteraria ci permette di irradiare di nuova energia la nostra mente, specie in questi giorni di cupo e forzato isolamento casalingo da Covid-19.

Allo scopo Cinzia Baldazzi prende dapprima spunto dagli scritti estetici di Benedetto Croce,  dove idealisticamente si afferma che “Ogni schietta rappresentazione artistica è in se stessa l’universo ”

Subito dopo, al fine di  suffragare ulteriormente ciò, non rinuncia a far ricorso ai propri consueti riferimenti kantiani, in questo caso quelli estetici,  evidenziando che “non si dovrebbe dare il nome di arte se non alla produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni”.

Infine Cinzia Baldazzi si premura di fissare bene la produzione libera attraverso “qualcosa di costretto (…)  un meccanismo, senza il quale lo spirito, che nell’arte deve essere libero e che solo anima l’opera, non acquisterebbe corpo e svaporerebbe interamente”.

Come dire, quindi, che nell’arte sono fondamentali, certo, la libertà e il genio ma non – o, perlomeno, non solo – la sregolatezza quanto, piuttosto, anche il rigore.

Una ricetta e un metodo utili anche per noi, anche alla nostra quotidianità, al fine di non disperderci specie – ma, anche qui, non solo – in questi giorni di maggior possibilità di riflessione, elucubrazione, lettura, elaborazione, scrittura; affinché pervenga un po’ di sole al nostro personale susino brechtiano, oggi avente una foglia e, in molti casi, niente frutti.

Facciamone tesoro, noi che possiamo!

[Fabio Sommella, 21 marzo 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)