Le origini del nazismo: interpretazioni tra psicologia e storia.

In merito alla analisi psicologica delle origini del nazismo, come caso emblematico e fenomeno su larga scala di influenza sociale, la professoressa e ricercatrice Chiara Volpato fa riferimento a tre teorie psicosociali: la teoria del Conflitto Oggettivo di Sherif; quella dell’Identità Sociale di Tajfel; la teoria delle Rappresentazioni Sociali di Moscovici.

Secondo Sherif, 1961, discriminazione e atteggiamenti negativi deriverebbero dalla percezione di conflitti di interesse, quindi dipenderebbero da ragioni oggettive e realistiche. In tal senso Sherif sostiene che la proposta hitleriana avrebbe enfatizzato la presenza di conflitti di interessi tra Ebrei e Tedeschi, rafforzando così la percezione di incompatibilità degli obiettivi materiali.

Tajfel, 1981, afferma che la discriminazione e il favoritismo per l’ingroup derivano unicamente dal bisogno di valorizzare la propria identità sociale attraverso il confronto tra il proprio e altri gruppi. In base a ciò, quindi, la necessità di una propria identità sociale positiva, sottenderebbe i rapporti fra gruppi. Questa teoria non è in conflitto con quella di Sherif ma, semmai, le due sarebbero complementari.

La teoria delle rappresentazioni sociali di Moscovici, 1961, 1976 e 1989, afferma che le rappresentazioni sociali sarebbero grandi sistemi di valori, idee, pratiche le quali fornirebbero un ordine per l’orientamento sociale e faciliterebbero la comunicazione fra persone.  Per Moscovici sarebbe estremamente importante il concetto di ancoraggio, processo per il quale le nuove idee, che tentano di prendere piede nella società, si avvantaggerebbero proprio del loro ancoraggio, in tal modo superando eventuali resistenze, a vecchi schemi e vecchie idee. È in tal modo che si spiegherebbe il cosiddetto anti-tempismo hitleriano e il successo che tale anti-tempismo riscosse negli anni ’30, epoca in cui pressoché ogni famiglia tedesca possedeva una copia del testo di Hitler, testo che profondamente era entrato nel tessuto sociale tedesco svolgendo opera di profonda persuasione.

La teoria delle Rappresentazioni Sociali di Moscovici sostiene quindi che Hitler avrebbe ancorato i propri costrutti a schemi preesistenti, basati sull’antisemitismo e lo storico nazionalismo pangermanista. A riguardo di quest’ultimo è, pur brevemente,  indicativo quanto alla voce pangermanismo è riportato nella enciclopedia Treccani [http://www.treccani.it/enciclopedia/pangermanismo/]: “Movimento il cui scopo era l’unificazione di tutte le genti di lingua tedesca. Sin dal 1848 era sorto nel Parlamento di Francoforte un contrasto sulla soluzione da dare al problema unitario fra i Piccoli Tedeschi (Kleinedeutsche), che auspicavano l’unificazione sotto la direzione della Prussia con l’esclusione dei Tedeschi soggetti all’Impero asburgico, e i Grandi Tedeschi (Grossdeutsche), che volevano l’unificazione sotto la guida degli Asburgo. Uscito sconfitto, il programma grande-tedesco rinacque verso la fine del 19° sec. con la costituzione dell’Alldeutscher Verband e dell’Alldeutsche Vereinigung contro le minoranze alloglotte nell’Impero tedesco e austriaco. Si ebbe anche un p. dottrinale e razzista che dalla proclamazione dell’ineguaglianza delle razze giungeva alla esaltazione di un’unica razza, pura e perfetta, nella quale si volle identificare quella germanica. Antesignani di tale dottrina furono il conte J.-A. de Gobineau e H.S. Chamberlain. Delle loro idee si nutrirono il nazionalsocialismo e il suo teorico A. Rosenberg.

Un connubio, solo in parte contrastante e contraddittorio e per molti versi unificante e anticipante le tre teorie, si può leggere anche nella interpretazione che, della psicologia nazista e delle sue origini, nel 1941 aveva dato Erich Fromm (1900-1980) all’interno del suo testo, cardine anche per tutta la sua successiva produzione, Fuga dalla libertà. Questo testo, incentrato sulla conformistica rinuncia dell’uomo moderno alle proprie responsabilità morali e sociali,  si pone come linea di demarcazione tra  la produzione del Fromm giovanile e quello della maturità. Formatosi intellettualmente sulla triade Talmud – Marx – Freud, integrata dai contributi della Scuola di Francoforte,  Fromm in Sul metodo e il compito di una psicologia socio-analitica del 1932 “approfondisce il nesso fra struttura istintuale e struttura economica” [Erich Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, 1983, pp. 250-251].

Senza pretendere, in questa sede, di ripercorrere tutta l’articolata e profonda argomentazione che Fromm in Fuga dalla libertà formula relativamente alla psicologia del nazismo (si fa qui riferimento alle pp. 181-206 dell’edizione del 1981 pubblicata da Edizioni di Comunità), si riportano alcuni estratti ritenuti salienti e a cui seguirà un tentativo di sintesi e connessione anche con le tre teorie di Sherif, Tajfel e Moscovici.

Il nazismo è un problema psicologico, ma anche i fattori psicologici vengono influenzati dai fattori socio-economici; il nazismo è un problema economico-politico ma la sua presa su un popolo intero dev’essere spiegata dal punto di vista psicologico” [p. 182]

“… ad aggravare la situazione intervennero, oltre a questi fattori economici, dei fattori psicologici. La sconfitta bellica e il crollo della monarchia furono una prima ragione didisorientamento psicologico. La monarchia e lo stato erano stati la solida roccia su cui, psicologicamente parlando, il piccolo borghese aveva costruito la sua esistenza; …  ” [p. 187]

La sconfitta nazionale e il trattato di Versailles divennero i simboli su cui si trasferì la frustrazione reale, che era quella sociale. Si è detto spesso che il trattamento fatto alla Germania nel 1918 dai vincitori è stato una delle ragioni principali dell’affermazione del nazismo. Questo giudizio richiede dei chiarimenti. (…) Il risentimento contro il trattato aveva le sue radici nella classe media inferiore; il risentimento nazionalistico era una razionalizzazione, che proiettava l’inferiorità sociale sul piano nazionale.

Questa proiezione è del tutto evidente nella vicenda personale di Hitler. Egli era il tipico rappresentante della classe media inferiore. Una nullità senza prospettive o possibilità.” [p. 189]

Queste condizioni psicologiche non sono state la «causa» del nazismo. Hanno assicurato quella base umana senza la quale esso non avrebbe potuto svilupparsi,ma l’analisi dell’intero fenomeno dell’ascesa e della vittoria del nazismo deve occuparsi delle condizioni strettamente economiche  e politiche oltre che  di quelle psicologiche.” [p. 190]

Il nazismo ha risuscitato la classe media inferiore psicologicamente, mentre procedeva alla distruzione della sua  precedente situazione socio-economica” [. 192]

… la personalità di Hitler, i suoi insegnamenti e il sistema nazista esprimono in forma esasperata la struttura di carattere che abbiamo definito «autoritaria»” e “proprio per questo fatto egli ha esercitato una potente attrattiva su quei settori della popolazione che più o meno avevano la stessa struttura di carattere” (…) “L’essenza del carattere autoritario è stata descritta come la simultanea presenza diimpulsi sadici e masochistici. Per sadismo abbiamo inteso l’aspirazione ad un potere illimitato su un’altra persona, più o meno commisto alla distruttività; per  masochismo, l’impulso a dissolversi in un potere irresistibile e a partecipare della sua forza e della sua gloria. Entrambe le tendenze si ricollegano all’incapacità dell’individuo isolato di reggersi da solo, e al suo bisogno di un rapporto simbiotico che vinca questa solitudine.” [p. 193]

“… non è stata solo l’ideologia nazista a soddisfare la classe media inferiore; la politica ha realizzato in pratica ciò che l’ideologia prometteva. È stata creata una gerarchia in cui ognuno ha sopra di sé qualcuno a cui sottomettersi, e ha sotto di sé qualcuno verso cui sentirsi potente; colui che sta in cima, il capo, ha il Destino, la Storia, la Natura sopra di sé come potere in cui sommergersi. Perciò l’ideologia e la prassi nazista soddisfano i desideri che scaturiscono dalla struttura di carattere di una parte della popolazione, e danno un indirizzo e orientamento a quelli che, pur non provando piacere a dominare e a sottomettersi, si erano rassegnati  e avevano rinunciato alla fede nella vita, nelle proprie decisioni, in tutto. ” [pp. 204-205]

La fuga nella simbiosi può alleviare per un po’ la sofferenza, ma non la elimina. La storia dell’umanità è la storia dello sviluppo dell’individuazione ma è anche la storia dello sviluppo della libertà. L’aspirazione alla libertà non è una forza metafisica, e non si può spiegarla con la legge naturale; è il risultato necessario del processo di individuazione e dello sviluppo della civiltà. ” [p. 206]

Cercando di sintetizzare quanto estratto dal pensiero di Fromm in merito alla psicologia nazista, tenendo comunque ben salde le radici e motivazioni storico-economiche, si deve dire che simbiosi si pone come antitesi a libertà e che quest’ultima si affianca parallelamente all’individuazione già junghiana; e che, come nello psicologo svizzero vigeva la dialettica estroversione-introversione, nello psicologo di Francoforte vigeva la dialettica, cruciale per l’origine del nazismo e dell’influenza sociale di Hitler, contingente alle fasi storiche di celebrazione dello spirito identitario pangermanista, sadismo-masochismo, nelle chiarissime accezioni che Fromm formula.

A questo punto l’aderenza del pensiero di Sherif, di Tajfel e Moscovici, pertinentemente alle origini psicologiche del nazismo, non appare lontana da quella, pur certamente qui espressa in modo più strutturato, di Fromm. La “percezione di conflitti di interesse”, indicata da Sherif, è ovviamente presente già in Fromm; così come il “bisogno di valorizzare la propria identità sociale attraverso il confronto tra il proprio e altri gruppi”, trova ampio spazio nelle argomentazioni, pure ripetute da Fromm e che qui sono state omesse per ovvi motivi di spazio, che Hitler compie relativamente a tedeschi, ebrei, ecc. .

Probabilmente è rispetto alle rappresentazioni sociali di Moscovici che il pensiero frommiano può apparire, e probabilmente sostanzialmente è, antitetico: laddove infatti Moscovici pone l’accento sul processo di ancoraggio (processo, in sé, in molti casi sicuramente fondato e fondante) allo “storico nazionalismo pangermanista”, di cui pur rapidamente si è cercato di sottolineare l’ampia portata sovra-secolare (essendo ascrivibile almeno alla seconda metà del XVIII secolo con la costituzione della Prussia in stato nazionale e proseguito poi con sempre più ampie trasformazioni e capovolgimenti fino alla Grande Guerra), Fromm viceversa stigmatizza come e quanto il “risentimento contro il trattato aveva le sue radici nella classe media inferiore”, quanto “il risentimento nazionalistico” in realtà fosse “una razionalizzazione, che proiettava l’inferiorità sociale sul piano nazionale”, laddove Hitler, secondo Fromm, “era il tipico rappresentante della classe media inferiore”; pertanto, in realtà nell’ottica di Fromm, se un qualche ancoraggio a vecchie idee di “nazionalismo pangermanista” Hitler avrebbe attuato, ciò sarebbe avvenuto non sulla scia delle medesime ma in maniera storicamente contingente e di comodo, il nazismo avendo sfruttato il proprio nulla identitario nonché la dialettica sado-maso dell’autoritarismo e della fuga nella simbiosi, tutti elementi antitetici alla libertà, alla individuazione e alla civiltà.

[Fabio Sommella, 26 luglio 2015]

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Psicologia sociale e vita: appunti dell’ultima intervista a Erich Fromm

Premessa

Anche in questi giorni del 2022, come già quando ho raccolto questi appunti nel luglio 2015, in cui tragedie nonché stucchevoli e misere celebrazioni di effimero potere occupano – in molti luoghi del mondo – le cronache dei media, forse può fare piacere (a me ha rasserenato) riflettere, pur molto sommariamente,  sui temi del pensiero di uno degli indubbiamente maggiori Maestri del’900, temi raccolti nel corso della citata intervista, probabilmente l’ultima della sua vita.

NB: naturalmente sono responsabile di ogni eventuale imprecisione o errore interpretativo della magnifica intervista!

[Fabio Sommella, 03 novembre 2022]

Erich Fromm

Appunti dall’intervista

Erich Fromm, nato nel 1900 e morto nel 1980, era divenuto psicanalista nel 1925 perché era figlio di una famiglia nevrotica e avvertiva, egli stesso, di avere vari problemi. Non si considerava un filosofo, non si sentiva uno specialista in molti campi; bensì una persona che aveva maturato delle conoscenze, anche imperfette e incomplete, ma in modo  tale che solo la “combinazione di tutti questi fattori …”

Magnifiche, nell’intervista, le sue pause, prolungate, prima di iniziare a rispondere. Mi piace pensare che queste (personalmente ne sono persuaso!) non dipendessero solamente dall’attesa per la traduzione in tedesco, di quanto formulato dal giornalista italiano; bensì rispecchiassero il suo stile  di vita, lo stile di chi ascolta e pondera prima di fornire una risposta, evitando la fretta; così, come la dolcezza profonda del suo sguardo, rispecchiavano il Nathan che Egli era, prima ancora d’essere un Maestro di pensiero. Solo in un’occasione, nel corso dell’intervista, Fromm interrompe deliberatamente il giornalista: ciò avviene quando quest’ultimo rievoca una tragica vicenda della giovinezza di Fromm, pertinente al suicidio di una giovane donna. In un’altra occasione, quando si parla di affetti personali, si vede Fromm che “corre”, con la propria mano (come per “soccorso”), ad afferrare quasi (ma poi rinuncia) la tazza (di pregevole fattura) di tè, o altra bevanda, che egli sorseggiava, di tanto in tanto, durante l’intervista.

Fromm consigliava di leggere Il matriarcato, di Bachofen, testimonianza, negata dalla cultura a lui contemporanea, di un’epoca e un luogo in cui avesse socialmente dominato la donna; ma non la donna “mascolinizzata”, come quella della sua (nonché attuale) contemporaneità, bensì la donna pienamente “femminile”. [NdR: anche l’antropologia culturale, dei primi decenni del 2000, decisamente nega l’esistenza, effettiva e reale, di fasi storiche dominate dal matriarcato, questo inteso nell’accezione di Bachofen e Fromm. Penso valga la pena cercare di leggere l’opera citata di Bachofen, al fine di verificare la veridicità, o fallacia, delle sue teorie!]

L’Umanesimo Socialista, di Erich Fromm, ha l’obiettivo dello sviluppo ottimale  dell’uomo e della sua libertà. Fromm afferma che l’URSS, del suo tempo, fosse enormemente distante dal genuino pensiero di Marx e che, quest’ultimo, fosse stato di fatto bandito dalla società sovietica.

Fromm non reputava essenziale “seguire una religione” quanto, piuttosto, “vivere religiosamente”. Se avesse dovuto dire quale fosse la sua religione, avrebbe indicato il Buddismo: ma erano comunque troppe le differenze  culturali.

Se avesse dovuto indicare delle letture, avrebbe consigliato la Bibbia, Marx, Tommaso D’Aquino.

Egli non si ritenne mai un uomo che avesse attuato un effettivo impegno politico: riteneva di non averne le capacità, sentendosi e definendosi un teorico; ciò a parte le attività pacifiste o i temporanei appoggi ai movimenti per il disarmo nucleare.

Le distanze prese, nel tempo, dai suoi colleghi docenti della storica Scuola di Francoforte (Horkeimer e l’involuzione borghese, da Fromm indicata; Marcuse e il suo aspirato ritorno alla dimensione infantile, piuttosto che la crescita indicata da Fromm; anche Adorno, in qualche misura), sono testimonianza delle divergenze intercorse e avvenute nel loro pensiero, malgrado le vicinanze nei primi anni ’30, prima dell’avvento del nazismo.

Fromm si emoziona alla domanda su Freud, per il legame che lo legava all’anziano maestro: ma risponde che l’uomo di Freud è “un uomo senza amore” e che solo nell’ultima fase del suo pensiero, con la polarità di amore e morte, Freud  modifica la sua concezione.

Fromm giudica Groddeck il maggior psicanalista dopo Freud: di Groddeck ammirava la praticità, l’originalità, l’eleganza e gentilezza dello stile e del pensiero.

La malattia dell’uomo moderno, nonché della moderna società capitalistica, è considerare il profitto (economico/finanziario) il giusto metro del comportamento razionale. Fromm racconta (ma ciò è anche scritto in vari suoi testi) che, fin da bambino, pur essendo figlio di ebrei commercianti (da varie generazioni, molti rabbini), si chiedesse come potessero, tanti uomini, considerare la loro unica finalità, nella vita, quella di guadagnare denaro, guadagnarne il più possibile. Egli, fin da giovane, aveva dedicato la mattina di ogni giorno ad attività creative, non lucrative [Lo so: qualcuno dirà “problemi da ricchi!”]; la psicanalisi coi pazienti la svolgeva nelle ore pomeridiane. A riguardo, in tal senso, compie una profonda considerazione critica sui manager delle moderne aziende.

Infine, suscitando indubbia ilarità, racconta che un suo anziano parente (un nonno, mi pare fosse), persona estremamente colta, leggesse continuamente libri nella sua bottega di commerciante a Monaco di baviera; le letture per il suo anziano parente erano talmente importanti che, quando qualche avventore entrava nel suo negozio, questi lo trattasse male perché si sentiva interrotto nei suoi studi e che pertanto, in modo estremamente seccato, domandasse “Ma non avete un altro negozio in cui andare?”.

Le domande fondamentali, di Erich Fromm [e qui, esulando dall’intervista, mi riferisco a quanto presente in vari suoi testi], erano quale fosse il senso della vita e cosa ne faremmo, delle nostre vite, se non ci fossero problemi sociali ed economici!

[Fabio Sommella, Luglio 2015]

Da http://www.uninettunouniversity.net/it/cyberspazioforumnew.aspx?g=posts&m=51190#post51190

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Psicologia sociale: gli stereotipi negli approcci di due grandi pensatori

Gli stereotipi spesso assolvono la funzione di giustificare uno stato di disuguaglianza tra gruppi sociali, stato di disuguaglianza che in tal modo si contribuirebbe a mantenere costante nel tempo.

Ciò risulta evidente anche prendendo in considerazione i due elementi cardine della Teoria dell’identità sociale di Henry Tajfel, teoria secondo la quale, nei gruppi sociali e più in generale nelle  collettività umane, ciascun membro tenderebbe a differenziarsi dagli altri, favorendo inoltre in modo inevitabile il proprio ingroup. Sarebbe questo un meccanismo abbastanza ampio e universalmente diffuso.

Leggendo queste tutt’altro che improbabili e certamente attuali evidenze sociali – a tal fine basta confrontarsi con la Storia e con l’Attualità – non possono tuttavia non riemergere, nella mente di chi legge, le argomentazioni che, un altro autore senza dubbio di rilievo nell’ambito del pensiero sociale del XX secolo,  quale fu Erich Fromm, ha riportato a più riprese in vari suoi scritti, specie dell’ultimo periodo (anni ’70).

Rammento infatti come in un suo testo, appartenente alle raccolte de L’amore per la vita o a La disobbedienza e altri saggi, Fromm sottolineasse la grande difficoltà di ogni essere umano di essere accogliente e solidale con lo straniero, ovvero verso e nei confronti di colui che non ha alcun elemento in comune, con noi o con il nostro gruppo di appartenenza.

Mi piace concludere con un paio di estratti da un altro importante testo, seppure precedente (1956), sempre dello psicologo di Francoforte: L’arte di amare. L’estratto che riporto è ovviamente in linea col concetto che ho espresso sopra e, in larga misura, lo comprende nonché lo anticipa, abbracciandolo e collocandolo in un contesto certamente più ampio.

«L’amore per una persona implica l’amore per l’uomo come tale. La “divisione del lavoro”, come William James la chiama, per cui un uomo ama la famiglia ma non sente niente per lo “straniero”, è sintomo d’incapacità d’amare. L’amore dell’uomo non è, come generalmente si crede, un’astrazione che viene dopo l’amore per una specifica persona, ma è la sua premessa, sebbene geneticamente la si acquista amando specifici individui.» [Erich Fromm, L’arte d’amare, Il Saggiatore, Ottobre 1980, pp. 77-78 ]

«Non esiste “scissione” tra l’amore per la propria gente e l’amore per lo straniero. Al contrario, la condizione per l’esistenza del primo è l’esistenza del secondo. Accettare questo principio significa apportare un cambiamento radicale nei propri rapporti umani. Mentre per la maggior parte della gente l’amore per il prossimo non è altro che ipocrisia, i nostri rapporti devono basarsi sul principio della sincerità. Sincerità significa non servirsi della frode e dell’usura nello scambio della merce e dei sentimenti. “Io ti do quanto tu mi dai”, in beni materiali come in amore, è la prevalente massima etica della società capitalistica.» [Erich Fromm, L’arte d’amare, Il Saggiatore, Ottobre 1980, p. 161]

Un attestato che certamente esula dalle pertinenze strettamente scientifiche della psicologia sociale ma che risulta un attualissimo monito di speranza, da parte di un Maestro del ‘900, “Affinché l’uomo prevalga”! J

[Fabio Sommella, 03 novembre 2022, (rieditato da versione originaria del 1 giugno 2015, Stereotipi, Tajfel, Fromm – Dagli stereotipi all’Amore per la vita)]

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Politica, Società, Ovvie Verità, Farmacologia – 1° approfondimento

Contemplando l’infinito – 1993

Un – curioso? Ma no, forse neanche – parallelismo fra:

  • le ovvie verità, le osservazioni dei fatti nude e crude, da cui i Soloni della Storia e del Quotidiano hanno preteso e pretendono di estrapolare terapie politiche contro i cancri sociali
  • e i farmaci chemioterapici, che gli oncologi pretendono (?) impiegare per guarire (??) dai cancri cellulari.

Entrambi sono o rilevazioni parziali, o molecole che agiscono in modo parziale. La realtà dei fenomeni e dei processi, in una società globale o in un organismo vivente, é decisamente complessa. Essa è una rete di relazioni semplici, se prese singolarmente, ma che diviene intricata – appunto complessa – nell’insieme, tale da richiedere un approccio sistemicoolistico – in entrambi i contesti. Pena, in caso contrario, sono i fallimenti degli approcci fondati su visioni parziali, riduzioniste, punto-punto, incomplete.

Inoltre il tutto si complica ulteriormente – come la Storia si ostina a insegnare inascoltata – quando i sistemi in questione presi in considerazione non sono elementari servomeccanismi cibernetici artificiali ma sistemi cibernetici naturali, forse (???) più complessi, quali quelli omeostatici, nervosi, di coscienza, della psiche, tali da esser resi ancor più mutevoli dai fattori umani, dalla natura umana, cangevole e instabile nel tempo per definizione, diversificata dalle culture collettive e personali, dalle proprie storie.

Erich Fromm – in Avere o Essere, mi pare – sosteneva che finché le migliori menti si volgeranno solo allo studio della natura o della tecnica dimenticando i sistemi sociali, non ci saranno speranze per reali miglioramenti nelle relazioni umane.

Affermava il poeta brasiliano Vinicius De Moraes che la vita è l’arte dell’incontro; che ciò sia valido e vero anche per la politica? Per le scienze sociali? Per l’oncologia? Che tutte queste – e molte altre discipline pertinenti all’uomo – vadano rilette e agite non in base ai vigenti principi – che appaiono di costrizione o disperazione – bensì di incontro? Che la poesia di Vinicius lanci un implicito e latente ponte alle scienze sociali di Fromm? A un approccio non unicamente chemioterapico bensì sistemico all’organismo in cui si è sviluppata la cellula cancerosa?

C’è chi non ne dubita. Forse sono i medesimi che hanno chiamato questo approccio con i termini di amore, empatia, orientamento all’altro, apertura verso il diverso da noi, verso lo straniero, verso colui che non ha alcun contatto con noi, approccio transculturale.

[Fabio Sommella, 18 gennaio 2020]

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Sgombero del centro rifugiati di Castelnuovo di Porto e relazione tra Furbizia e Intelligenza.

Prendo spunto dalle recenti iniziative del Ministero dell’Interno – lo sgombero del centro rifugiati di Castelnuovo di Porto – e da un interessante thread presente sul Gruppo di Lettere e Filosofia del Social Facebook, pertinente alla relazione tra Furbizia e Intelligenza, per considerazioni in merito e sul presente momento storico.

A tal fine specifico che, qualche giorno fa,  ho preso parte al thread citato – ripeto: Gruppo di Lettere e Filosofia del Social Facebook, pertinente alla relazione tra Furbizia e Intelligenza – inserendovi un paio di miei post.

Li ricapitolo qui, questi miei due post. Seguiranno infine le conclusioni sull’abbinamento delle due tematiche in oggetto.

Nel mio primo post sostenevo che, nell’accezione consueta, entrambe – Furbizia e Intelligenza – implicano processi cognitivi di risoluzione: di problemi, di enigmi, di punti di stallo. Se però la Furbizia é volta a un beneficio strettamente personale, e sovente implica la malizia, l’Intelligenza é generalmente più aperta e non necessariamente egocentrica; é pura, priva di orpelli personalistici, spesso – o possibilmente sempre – collettiva.

In questo senso – ad esempio, volendo semplificare moltissimo – tutte le decisioni e le azioni delle organizzazioni criminali sono da intendersi come furbe e non intelligenti, perché rivolte, con malizia, a esclusivo vantaggio di una ristretta cerchia di parassiti umani e non della più larga collettività dei giusti umani; viceversa le iniziative filantropiche e democratiche… 😊

Tornndo al cuore del tema trattato – la relazione tra Furbizia e Intelligenza – va tuttavia rimarcato che Jean Piaget, padre della psicologia dell’etá evolutiva, in chiave “biologistica” affermava pure, sostanzialmente, che ‘Intelligenza é adattamento a situazioni nuove, continua costruzione di strutture; e qui si torna – molto, direi – alla Furbizia, in questo caso del vivente che deve risolvere problemi pratici nell’ambiente in cui vive. Ergo (come del resto noto): esistono molteplici forme d’Intelligenza, che non é solo quella scolastica o accademica; tra queste la Furbizia.

Nel secondo post, sempre del suddetto thread, specificavo che la relazione tra Furbizia e Intelligenza andrebbe ancora inquadrata in una prospettiva storico-evoluzionistica. Ciò in quanto, estremamente per sommi capi, noi potremmo delieneare il seguente scenario: il primate, o ex-tale, “sceso dall’albero”, che deve fare fronte alla vita sul suolo, lottare contro fiere feroci, sopravvivere, inizialmente vive di caccia e pesca, è nomade; poi, scoprendo – Rivoluzione Neolitica – l’agricoltura e l’allevamento, diviene stanziale. Inizialmente, nella sua vicenda di specie, deve essere necesariamente furbo, pratico, pragmatico. Poi c’è la Storia, che gronda sangue; ma nella quale alcuni illuminati giungeranno a formulare la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo; in molti stati, come in Italia, a promulgare la Costituzione.

Ecco – scrivevo sempre nel secondo post – forse è solo un auspicio, vista la nostra contemporaneità e come i recenti fatti attestano: ma, utopisticamente, ritengo potremmo leggere tutta la vicenda umana come un tentativo, come la ricerca di una forma di transizione – lenta, molto lenta, tortuosa, controversa, contraddittoria – dalla Furbizia biologica alla Intelligenza culturale.

In quest’ottica – e vengo, infine, al dunque – le decisioni e le azioni dell’attuale Ministero dell’Interno – lo sgombero del centro rifugiati di Castelnuovo di Porto – possono essere lette unicamente come Furbizia, pura, rivolta a vantaggio personale di una ristretta collettività – parte della Nazione Italiana – e non come Intelligenza, altrettanto pura, ovvero rivolta a vantaggio della più ampia collettività umana, quella dell’Intero Pianeta.

Ma va detto di più!

Tutte le residuali forme di nazionalismo contemporaneo sono da leggersi ancora come vestigia dell’originaria Furbizia biologica; esse non sono intelligenti, e rimarranno tali fino a che, all’interno delle proprie decisioni e scelte, non si terrà conto non solo degli appartenenti a ciascuna Nazione occidentale (gli italiani, gli spagnoli, i francesi, i tedeschi…) ma anche della più ampia e Intera Collettività Planetaria restante (i libici, gli algerini, i cinesi, i venezuelani…)

Cari tutti, conoscete questi versi? “Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo” [Salvatore Quasimodo, Uomo del mio tempo]. Come non riconoscere, nella sagoma di questo celebre incipit poetico datato 1946, le fisionomie di coloro – siano italiani o spagnoli o francesi o tedeschi o… – che, oggi, nel 2019,  senza indugio alcuno, sull’onda di decisioni furbe e non certo intelligenti,  muovono contro i rifugiati? Contro i rifugiati nel centro di Castelnuovo di Porto? Contro gli immigrati?

Mi sembra utile – nonché interessante – concludere con un estratto da un testo principe. Erich Fromm, poco prima degli ’80 dello scorso secolo, così ammoniva: “Intendo riferirmi all’opinione secondo la quale non avremmo alternative ai modelli del capitalismo aziendale, del socialismo di marca socialdemocratica o sovietica oppure del «fascismo dal volto umano» di matrice tecnocratica. (…) In realtà, finché  problemi della ricostruzione sociale non prenderanno, almeno in parte , il posto dell’interesse per la scienza e per la tecnica che occupano attualmente le migliori menti, la fantasia umana non sarà in grado di dar corpo a nuove e realistiche alternative. ” [Erich Fromm, dall’Introduzione ad Avere o Essere]

Grazie per esser giunti a leggere fin qui.

[Fabio Sommella, 24 gennaio 2019]

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