Milan in my mynd – V02

Sommario
Milan in my mind – V02
Prodromi 1
First time. 2
Poi 3
Occhi 3
Fra tumori e timori 4
Cosa resta?. 5

Milan in my mind – V02

Prodromi

Ventisei anni. Dal ’90 al 2016. Ventisei anni di periodiche – a volte saltuarie, altre più frequenti – trasferte e permanenze a Milano. Tra viaggi di lavoro e nuovi Viaggi della Speranza. Questi ultimi almeno in due tornate. Se non erano di lavoro… due blocchi di viaggi – motivazioni diverse – alla ricerca di guarigioni. Nell’ex capitale morale.

D’altronde, se non per questioni di affari, se non era per cercare possibili guarigioni… a Milano che ci andavi a fare? Il turista? In una città di cui da bambino – a detta di uno dei suoi figli più fedeli, quel Bramieri/Carugati autentico re della barzelletta televisiva – leggesti essere una delle più brutte al Mondo?

Quando eri bambino, Milano erano i monologhi in TV di Walter Chiari. Una città in cui si corre, in cui il traffico è convulso. In cui folle di gente si assiepano perennemente lungo i marciapiedi delle strade, come cantava Memo con “Sapessi com’è strano / Sentirsi innamorati a Milano (…) Fra la gente / Tanta gente”. Altro che il traffico e la folla di Roma!. Milano: intensa e frenetica, come il parlare di Walter, come la sua loquela. Tua madre diceva sempre che non riusciva a seguirlo (Walter): perché raccontava troppe cose e con troppa fretta. Lo ammirava come personaggio, anche se essendo una persona dello spettacolo…

E poi Milano erano i palleggi bianco e nero di Rivera e Mazzola, con le sequenze al San Siro, alla domenica sera, prima della scuola all’indomani. Quasi tutti i tuoi amici tifavano per l’Inter di Herrera. Uno di loro poi ti disse che non avrebbe mai tenuto per l’Inter, che era la squadra dei ragazzini: lui, della Juventus…

Milano era però anche Enzo. Non tanto e non solo il Vengo anch’io… no: piuttosto era quella sua comparsata – proprio in un’osteria dei Navigli – nel film di Lizzani, dal libro di Bianciardi; erano le sue ballate, tristi e allegre al contempo. Tristi perché – fra pali e bande dell’ortica, fra vagabondi che portavano scarpe da tennis e ragazzi padri… – finivano quasi tutte male: arresti, uccisioni, tragedie erano all’ordine del momento. Ma erano anche allegre perché, in quegli eventi tragici, c’era comunque intriso un amore per la vita che… da dove lo ricavava, Enzo? Quel medico cardiochirurgo pareva il succedaneo nostrano di Chris Barnard. Lui e il suo fratello di latte – il grande Giorgio, dapprima di Non arrossire, ma poi di quegli spettacoli teatrali in cui si faceva finta di esser sani e ci si rassegnava a non volare – gigioneggiavano i Blues Brothers denominandosi Ja-Ga-Brothers, chiedendo ossessivamente Una fetta di limone nel tè.

E poi Milano erano le canzoni di quel professore, il Roberto delle luci di San Siro, non quello calcistico ma quello della nebbia e della sua sensibilità, quando lo avevi ascoltato in TV affermare che “La parte migliore di ciascuno di noi è quella femminile.” Tanto che reclamò anche di volere una donna con la gonna!

First time

Quando in quel luglio – a Roma caldissimo – prendi l’aereo da Fiumicino per Milano – ricordi se era Linate o Malpensa? Non importa: ma era il tuo primo aereo della vita, a trentadue anni (fino ad allora solo treni, automobili e metropolitane), mentre tuo figlio lo ha preso a quattro anni – sei come inebetito dall’emozione. Seduto, allacci la cintura di sicurezza. Forse qualcuno ti aiuta. Poggi la testa sullo schienale poco prima del decollo. Già: perché senti il rombo del motore. Parte. Piano. Poi aumenta. Sempre più. All’improvviso avverti una grande potenza che t’innalza. V’innalza a tutti. Osservi fuori dal finestrino – sei comunque vicino al corridoio – e vedi il paesaggio inclinato. Poi cominci a osservare il vuoto, il cielo, l’aria (!?!), le nuvole. Quando il tutto si raddrizza – è avvenuto? – siete ad alta quota. La voce del comandante dagli altoparlanti vi tranquillizza. Rasserena. È una voce amicale. Siete decollati.

La sera gliene parlerai a Lei, al telefono, dalla stanza d’albergo o dalla cabina.

Quando sbarchi all’aeroporto – il tuo bagaglio è a mano, del resto è solo una notte che pernotterai – ti dirigi direttamente ai taxi. La tua destinazione è a Città Studi, vicino piazza Piola, ti han detto. Il residence ComeSiChiamava ti aspetta. Lasci lì il bagaglio. Sono appena le nove del mattino e ti dirigi all’ufficio della tua azienda. Devi supportare le soluzioni sistemistiche dell’informatizzazione del progetto Langhirano. Sì: quelli dei prosciutti. Proprio. In sede incontri la collega che avevi intravisto una volta in ufficio a Roma. Ne approfitti per passare a salutare anche alcuni tuoi colleghi del corso, quello di qualche anno fa. Sai che sono di Milano. Sai che sono lì. Quindi vai. “Ciao, ciao… come state…” Saluti, baci, simpatia. Un po’ di stupore. Con uno vi vedete all’ora di pranzo.

Mangiate un panino a un vicino bar-tavola calda. Ma ciò che ti colpisce è il parlare. Bello? Brutto? Non sai… ma sa tanto della tua Milano , quella che avevi appreso in TV. Ascolti: “Ehi, poi ti porto all’idroscalo…”, fa un avventore – grasso e tondo (a Milano, certo, ci si nutre!), baffuto e capellone – al barista. E in te affiorano idee, ricordi… l’idroscalo di Ostia, quello di Pasolini. Storie di cronaca nera immaginaria ti vengono in mente. In quel viaggio in Liguria, in famiglia di quel tuo amico, al liceo: il padre e lo zio vi raccontavano che – loro, fiorentini – da bambini fantasticavano di vivere avventure criminose nei bassifondi di Milano.

I miti delle generazioni!

Tornato in ufficio, dopo il pasto, insieme alla collega raggiungete il CED per visionare il server: questo dovrà ospitare le applicazioni del progetto. La sala è ghiacciata. Un omino – simpaticissimo, sembra un piccolo Carugati (come diceva Bramieri? “Carugati ha deciso di scendere a Milano per rendere migliore una città altrimenti brutta, una delle più brutte al mondo!”) – vive praticamente lì, ibernato. Dice: “Qui si sta benissimo!” Certo, fuori sono trentacinque gradi – dove è finito il freddo di Milano? Quello di Totò e Peppino? – ma qui saranno dodici… Lo stesso omino aggiunge poi che “Qui, ci si rompe le balle. Io vivo fuori, via di qui, lontano. L’altro giorno, uno, si è gettato da uno di questi palazzi… perché si era rotto le balle!” Tu ascolti. E pensi in effetti al silenzio, al sole, alla desolazione, al deserto che hai visto in quelle strade: alti palazzi, anche belli, ma disadorni. Facciate e facciate, con balconi, piante, foglie e fiori, che… ma chi li cura? Certo: siamo a luglio, la gente sarà anche fuori. Ai laghi, al mare, a Milano Marittima, immagini, come un bambino che perpetua la fantasia.

E ne parli con Lei, alla sera, al telefono, quando ritorni nel tuo residence, prima di andare a mangiare una pizza… in quel bel locale a piazza Leonardo da Vinci? O Leonardo da Vinci era il locale? Boh… fa nulla. Tanto l’indomani si torna.

Così si chiude la tua prima eroica trasferta a Milano, con il battesimo del volo.

Le volte seguenti – tante, in verità – sarai un veterano, tanto del volo che di Milano.

Già dalla volta successiva la trasferta è più turistica. Ci sono altri colleghi. Insieme a loro inizi davvero a girare Milan by night. I Navigli, da Decio Carugati. È la volta del Duomo. Gotico. Neo-gotico. Imponente. Ma, nella piazza, stanno facendo dei lavori. Ci sono alte transenne che occludono gli spazi. E opprimono la vista. Tanto che, la medesima, ti appare – sì, vero – parzialmente angusta. Ma telefoni a Lei, sempre da una cabina (i cellulari sono di là da venire, siamo nel ’90). “Sono al Duomo”, le dici, “e vorrei ci fossi anche tu!”

Ma… ci sarà occasione, non c’è da temere. Intanto, nell’attesa, ti pasci di quella città: altre trasferte, altre escursioni. Che bella… te l’avevano detto nell’infanzia!

Poi

Con Lei – finalmente – vivi una bella trasferta a Milano: voi, insieme al vostro amico Andrea e a sua moglie. È nel ’94. L’occasione è un interessante corso sull’internal di HP-UX – un approfondimento su un importante sistema operativo presso la sede milanese della Hewlett-Packard. Di giorno tu e il tuo amico siete al corso mentre le signore fanno le turiste a Milano e a Pavia; alla sera, tutti e quattro, siete in ristoranti del centro, nonché effettuate escursioni fra Porta Romana e Porta Genova. Persino a Como. E, quando passeggiate per le vie notturne di Milano, in te – è inevitabile, no? – risuonano le note de “Le strade, di notte, mi sembrano più grandi, e forse anche un poco più tristi…” Glielo dici romanticamente a Lei, che cammina al tuo fianco.

Ma di lì in poi, sul finire dei ’90 e i primi del 2000, tu cerchi di migliorare la tua posizione professionale, ponendo l’occhio oltre che al ruolo anche alla retribuzione. Così, in quei due-tre anni, cambi un paio di aziende. Allora sono molteplici le occasioni, ancora e sempre professionali, di viaggio a Milano. Corsi in centro in hotel di lusso – ricordi l’Andrea Doria – e alloggio nella via omonima in strutture di pregio – il Jolly. Spesso cenerai nella pizzeria napoletana di via Pergolesi. In futuro – oltre a condurvi Lei – una volta ci sarà l’occasione di condurci anche tuo padre; lui, in memoria del suo Vomero, familiarizzerà simpaticamente con il proprietario. Questi gli dirà: “Caro amico, al nord la risposta a Napoli è Milano!”

In quell’altra trattoria sui Navigli, Vecchia Milano, famiglia Bugatti, o come si chiamavano, ritroverai poi le atmosfere di Rivera e Mazzola: evocative foto in bianco e nero, nostalgiche, incorniciate e appese alle pareti bianche. Quei tavolini d’altri tempi ti ricordavano le trattorie della tua infanzia, fra Re di Roma e San Giovanni.

Altri corsi li effettuerai presso l’amena sede IBM, nella tenuta boschiva di Novedrate, nel comasco – rammenti quel ponte tibetano? – È tutto un susseguirsi ed escalation di crescita: professionale, economica, relazionale; e inizi a pensare che Milano non sia poi tanto male. Come anche in occasione di quel corso alla CISCO, nei pressi della stazione Garibaldi, con alloggio in via Paolo Sarpi; si è in procinto di passare dalla Lira all’Euro. A Milano è un inverno particolarmente freddo: preludi dei geli futuri?

Occhi

Nel corso dei vari cambi di azienda, inciampi nelle inevitabili visite mediche. Quella oculistica evidenzia i tuoi problemi, a te che da venti anni indossi lenti a contatto morbide idrofile. Ma da qualche tempo…

“Uno dei migliori chirurghi della cornea è a Mestre…”, ti vien sottolineato. Telefoni, prenoti, vai. “Può provare a risolvere i suoi problemi con il suo ottico e le lenti a contatto rigide gas permeabili”, ti dice il professore. A Roma, sperimenti varie soluzioni del genere ma… va bene solo il primo giorno, perché al secondo… un chiodo negli occhi, forse, fa meno male. E tolta la lente, all’inizio non vedi neanche con gli occhiali, in quanto il tuo cheratocono – o degenerazione pellucida che sia – risulta dapprima pericolosamente schiacciato, poi deforma la superficie oculare in modo impredicibile. Alla visita successiva, a Mestre dal professore, procedi con la pianificazione dell’intervento chirurgico. “La farò operare a Milano da mio figlio…”

Così approdi di nuovo nella città di Meneghino. Stavolta per motivi chirurgici. E il chirurgo è figlio d’arte che persegue le orme paterne. “Io e altri colleghi abbiamo imparato facendo le scimmie ammaestrate attorno a mio padre”, ti dice.

Insieme a Lei iniziate la trafila – nuovi Viaggi della Speranza – verso Milano; nello specifico verso il prestigioso polo d’eccellenza del San Raffaele, presieduto da “Don Verzè, sacerdote legato tanto al Vaticano quanto a Fidel Castro”, ti dirà poi – nel corso di uno dei tuoi cinque interventi chirurgici – un simpatico vegliardo produttore di vino del veronese. Nei giorni di ricovero o di Day Hospital si fa inevitabilmente amicizia con gli altri pazienti.

Prima del ricovero tu e Lei alloggiate nella essenziale ma confortevole foresteria del San Raffaele, nei pressi di Milano 2, in quel di Via Olgettina che diverrà famosa per altri futuri trascorsi. Lei vi alloggerà anche nei tuoi giorni di ricovero. È lì che vedrete la prima forma di Metropolitana non presidiata bensì controllata unicamente da sistemi intelligenti automatici: da Cascina Gobba al San Raffaele, meno di sessanta secondi su un binario a porte chiuse che si aprono unicamente in corrispondenza delle entrate dei vagoni, solo quando giunge il treno.

Le trafile di operazioni chirurgiche oculari si svolgeranno fra il 2001 e il 2005. Nel corso di alcune avete modo di visitare la Basilica Romanica di Sant’Ambrogio, “là, fuori di mano”, aveva detto due secoli fa il poeta che – già allora – apriva anche al nemico in segno di una umanità universale… e chissà, oggi, cosa direbbe! E hai modo di gustare – già, proprio così – l’isolamento acustico quando entri nella corte che prelude alla basilica: il rumore del traffico esterno pare dileguarsi, scomparire e dare spazio a un silenzio sovrumano, secolare, in cui c’è posto solo per il volo degli uccelli, lassù, sul campanile.

Altre volte conducete con voi anche vostro figlio. Lui rimarrà entusiasta di alcune specie animali presenti nell’oasi zoologica – non dimenticherà il lama, in quel recinto, con le sue spettacolari emissioni di gas – dell’amena Foresteria. E che bella, anche se disagevole, quella notte a Milano sotto la neve, ricordate?

I Viaggi della Speranza per i tuoi occhi, in quel di Milano, culmineranno con il rigetto corneale all’occhio destro, aumento pressorio e danneggiamento irreversibile al nervo ottico. Le tante visite private dal simpatico e bravo oculista Flavio – specialista dell’ipo-visione e della contattologia – tra Lima e Stazione Centrale, nei pressi di Piazzale Loreto – reminiscenze della Storia ti assalgono – non sortiranno l’effetto desiderato. Ma queste sono altre storie… e purtroppo altri professoroni confermeranno.

Fra tumori e timori

Di altre cose – della futura malattia di Lei, per cui siete tornati a Milano in altri ennesimi Viaggi della Speranza – ne hai già parlato molto. Altrove. Tuttavia, anche qui, in breve qualcosa puoi dire. Già, in quanto, dimenticato e archiviato il problema dei tuoi occhi, alcuni anni dopo, Milano… è anche per Lei…

La trasferta da quel luminare del peritoneo – chirurgo generale e oncologo, originario di Messina ma saldamente trapiantatosi nella città ambrosiana – da principio è, come del resto tutte le altre visite oncologiche, pregna di speranze. Alla fine, però, è densa di delusioni. Oltre ai quattrocento euro della visita, ci sono le illazioni – il suo “Uhm” a sentirne il nome – a   carico del collega di Roma, che avrebbe sbagliato l’intervento; il tutto poi si rivela fallace e probabilmente millantatorio. Ma anche la durezza – tanto epidermica che profonda – del soggetto, avaro di sorrisi, di parole, di speranze: “Dottore, mia moglie guarirà?”, chiedesti; “Non lo so” rispose mentre scriveva i suoi appunti diagnostici, senza sollevare minimamente lo sguardo dal foglio e dalla punta della sua penna. Certo: deformazione professionale… devono difendersi dalle durezze del proprio mestiere, questi specialisti…

Milano, a quel punto, vi pare di conoscerla: per voi è quasi diventato un quartiere della vostra città. Così, ancor più, quando mesi dopo – meno di un anno dopo, nell’ultima disastrosa fase della malattia che segnerà la china irrecuperabile – siete costretti a raggiungere prima lo IEO, fuori città, poi l’INT, nel cuore. A volte Lei andrà sola, in queste trasferte, cocciuta e ostinata come non mai, a fare chemioterapia, controlli: altre volte, per tua insistenza e infine per inequivocabile necessità, l’accompagnerai. E allora saranno i dolori terminali a farsi strada, non lasciandovi in alcun luogo, rimanendo con voi sul tram, sul taxi, all’uscita o all’entrata della Stazione Centrale, lungo quegli scorci cittadini che preludono alla Svizzera, ai Laghi, alle amenità cantautoriali e autoriali, attoriali e barzellettistiche, calcistiche e spettacolari che tu avevi ascoltato e sognato da bambino. E tutto questo ti farà ben sperare: ti illuderà che – no, certo – queste cose non possono tradirti; non possono fare del male a Lei, all’amore tuo. A meno di ascoltare – da fuori della radiologia – le sue urla di dolore quando, pochi giorni prima dell’esito finale, Lei sta effettuando la TAC: la superficie del letto diagnostico è troppo dura e inospitale per le sue lesioni cutanee – a casa dorme si e no due ore a notte nel letto con cinque sei cuscini – che ormai la tormentano e non le danno minima tregua. Come nell’ultima sosta – quasi un frammento di una rediviva vacanza dei tanti decenni precedenti – in quella tavola calda, prima del treno per Roma: pizza, patatine fritte e birra… come foste ancora in uno dei vostri viaggi, vero, amore mio?

Cosa resta?

Resta nulla. E tutto. Il dileguarsi delle cose, delle persone, soprattutto dei medici, dei chirurghi e in particolare degli oncologi. Rimane il ricordo di quando, fuori, lungo il marciapiede dell’INT – tra la tanta gente della Milano della tua infanzia, quella cantata da Memo – Lei ti corre incontro a braccia aperte: è gaia e sorride perché ha appena completato la prima somministrazione del – per Lei – nuovo chemioterapico; ma tu hai la morte nel cuore, perché la responsabile oncologica ti ha appena detto che non c’è speranza, è solo questione di un tempo “X” e allora hai sceso i cinque piani a piedi senza connettere e ti sei attaccato al telefono con i vostri fratelli finché, da lontano, non hai scorto il suo sorriso, il suo volto, i suoi occhi e chiudi la telefonata, le corri incontro, la stringi a te e la baci, con tutta la delicatezza e l’amore del mondo.

“La vita è una cosa sporca”, le dirai la volta successiva, osservando l’innocenza sul suo viso ancora speranzoso, dopo tu aver ricevuto l’estremo commiato (“Non c’è più spazio per alcuna sperimentazione, caro signore”) dalla responsabile, ultimo appiglio e baluardo illusorio.

Il ricordo; tanti ricordi, di Milano nella mente; dal ’90 al 2016. Oggi, come allora; come se insieme – tu e Lei – foste ancora seduti in quel caffè della stazione: quello che le piaceva tanto. Perché, in fondo, malgrado le situazioni, entrambi avevate imparato ad amarla e ad apprezzarla, quella città.

FINE

[Fabio Sommella, marzo 2019]

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