Tra Mito e Antropologia: la Grande Madre e le nostre origini rilette da Cinzia Baldazzi (Festa della Donna 2020)

Suscitando indubbiamente uno spiccato interesse, la critica letteraria Cinzia Baldazzi – nella giornata di ieri, Festa della Donna 2020 – ha ripercorso le origini e le evoluzioni culturali dell’archetipo della Madre prendendo spunto dalla Venere di Willendorf, la steatopigia. A tale scopo l’autrice si è servita, tra gli altri, dei preziosi contributi di Carl Gustav Jung e di Umberto Galimberti.

Cinzia Baldazzi compie un magnifico excursus dalle origini del mito della Grande Madre mostrandoci, pur indirettamente, la nascita del pensiero razionale (il cui merito, giustamente, Galimberti attribuisce a Platone). Ciò comporta, tra l’altro, l’abbandono del Caos per il Cosmo. Attraverso queste biforcazioni, le istanze primordiali verranno “relegate” (per rimanere, noi qui, ancora in Jung) nelle zone e aree d’ombra della coscienza umana: nei riti dionisiaci, questi contrapposti agli apollinei. Per estensione, si pensi all’arte della Grecia Classica e poi, viceversa, a quella Ellenistica, ma anche, in epoche moderne, al concetto di tragico nel pensiero di Nietzsche, a quello dello stesso Jung con i suoi tipi psicologici o, ancora, al Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse.

In definitiva Cinzia Baldazzi, con questo scritto, propone un percorso al contempo di Archeologia e di Antropologia.  Ciò è sfidante e, a latere, non si può non segnalare come queste tematiche dovrebbero essere trattate nelle scuole, almeno dalle Medie,  unitamente all’Educazione Civica e alla Storia, al fine di aprire le menti agli inevitabili e sempiterni dualismi dell’esistenza, così favorendo la comprensione dell’Altro da noi.

Buona lettura, quindi, a chi vorrà cimentarsi con questo breve ma interessante saggio di Cinzia Baldazzi, lasciandosi coinvolgere dalle trasformazioni della Grande Madre.

“La Grande Madre e gli dèi del cielo”, saggio antropologico di Cinzia Baldazzi

[Fabio Sommella, 9 marzo 2020].

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Abir (Mostra un luogo o uno spazio con gli occhi di un altro)

Abir era sceso dal furgone. Era stato sballottato insieme ai suoi sette compagni di viaggio da Salerno a Roma. Per quante ore? Quattro? Cinque? Gli sembravano un’infinità. Gli avevano detto che quella era la stazione Termini. Era già in centro. Doveva raggiungere i suoi cugini, ai Monti Tiburtini. Ma prima, allora, voleva vederla un po’, quella città.

Quella era Roma? Si aspettava di arrivare alla stazione Tiburtina. Suo cugino Amur gli aveva detto che non era distante da casa sua, ma doveva prendere la metropolitana. A poca distanza avrebbe visto una grande strada in alto e, più in là, un grande cimitero. Monumentale, lo avevano definito. Ma di monumentale lui ricordava le rovine romane della sua Tunisia. Quelle a El Jem, a Sbejtla, dove era andato a far pagare le foto agli italiani, turisti distratti e allocchi che lì venivano a cercare un’altra Roma. E lui, che aveva vagato dalla città sacra ai deserti di sale fino alle oasi, per tornare sui litorali di Hammamet e Sidi Bu Said, non poteva scordare le impressioni di Cartagine. Il padre gli aveva raccontato che, quando c’era Ben Alì, era tutta un’altra cosa. Ma adesso… Allora aveva deciso di venire a cercare Roma e i suoi turisti a Roma. Coi suoi vent’anni, si sentiva forte e abbastanza furbo per sopravvivere: a quel nuovo viaggio, al mare, poi al caporalato e infine alla Capitale. Voleva vederla, questa Roma. Sì: coi cugini sarebbe andato a vendere calzini e libri in centro. Gli avevano detto che fuori alle librerie riesci a piazzare libri sul suo paese, se sei abbastanza affabile e cordiale. Devi dare la mano e chiamare tutti “Amico”. Poi sorridere, sempre. «Come facevo coi turisti allocchi che venivano a casa mia.»

Ora stava qui. Dove l’aria era pure densa di odori, col caldo di giugno. Chi aveva detto che a Roma non faceva caldo? Certo, non come nella medina di Sousse, quando bambino chiedeva alle turiste le sigarette e le penne tictac. Perché lui portava ancora nel naso gli odori dei suoi luoghi; quando le masse di carne erano lasciate appese fuori delle botteghe, al sole. Poi aveva visto la Sicilia. E dopo, di corsa, Salerno. Un po’ di pomodori, quanto basta per non morire di fame. Ma lui voleva arrivare qui, a Roma. Dove adesso camminava tra i marciapiedi affollati di gente chiassosa, i rumori, le voci, i clacson e le file di autobus. Con la giusta strafottenza del suo spirito ribelle. «Eccole, le prime rovine romane. Come si chiamano? Terme… Diocleziano… e guarda quella piazza, laggiù: enorme, con quegli spruzzi di fontane al centro. E quelle colonne attorno. Imbocco questa strada grande… Nazionale. Sembra quella del centro di Tunisi, quando rubavamo le borse. Certo, qui, quanto lusso. Eleganza.»

Cammina, Abir, cammina. Ci sarà un posto anche per lui? Il cugino Amur gli ha detto di sì. Lui, che sta qui da un anno, lo sa. «E io, son forte e bello. In queste strade, così grandi, troverò la mia nuova Tunisi o la nuova Kairouan.»

[Fabio Sommella, Maggio 2018]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)