Cultura umanistica e cultura scientifica: un legame tanto ovvio quanto spesso eluso, anche in un dibattito definibile “carino” ma in parte “deludente”

Riempie d’entusiasmo ricevere per email il cortese invito, da parte di uno dei più prestigiosi enti culturali nazionali (ma non solo), al secondo evento di un ciclo di incontri che si svolgono, da marzo a giugno 2025, presso l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.

L’incontro ha per titolo Il legame tra cultura umanistica e scientifica e, come riporta l’email d’invito all’evento, “esplorerà l’interconnessione tra queste due secolari sfere del sapere, spesso considerate distinte ma in realtà profondamente intrecciate. Dalla filosofia alla tecnologia, dalla letteratura alla fisica, il dialogo tra discipline diverse ha dato vita a innovazioni e nuove prospettive sul mondo. Attraverso interventi di esperti, si rifletterà su come superare la tradizionale dicotomia tra scienze e humanities, promuovendo un approccio integrato alla conoscenza”.

Interessantissimo!

L’occasione mi appare particolarmente ghiotta, penso, considerando infatti che proprio pochi giorni prima ho scritto un pur sommario articolo, che verte sui Livelli della Conoscenza, dove cerco d’inquadrare il rapporto fra Istruzione e Cultura, che a mio avviso transita lungo un gradiente, attraversando fasi intermedie identificabili con l’Erudizione e con l’Indottrinamento o la Sapienza, in tal senso sbirciando in qualche modo e misura proprio il rapporto fra le due culture, su cui aveva scritto Charles Percy Snow, quella umanistica e scientifica, di cui personalmente rammento un antico e critico discorso della Docente di Lettere negli ultimi anni di liceo.

L’incontro, fissato per il pomeriggio del 17 aprile 2025, è tenuto da ospiti di rilievo, tra cui Paolo Vineis, Professore ordinario di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra, Monica de Virgiliis,  Presidente di Snam, e Enrico Alleva, noto etologo, Direttore Centro di Riferimento per le Scienze Comportamentali e la Salute Mentale – CE SCIC nell’Istituto Superiore di Sanità, Roma.  Questi relatori “porteranno una visione originale e complementare, arricchendo il dibattito sulla connessione tra questi due mondi.”

È così che, come altra volta, relativamente a limitrofa tematica, anche giovedì 17 aprile 2025 alle ore 17.00 raggiungo la Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana nella sontuosa sede storica di Palazzo Mattei di Paganica, Piazza della Enciclopedia Italiana, 4, in Roma.

Sono naturalmente emozionato di entrare in una location così austera. Chiedo ad una cortese addetta all’evento se posso scattare delle foto. Con garbo mi viene risposto di sì e, quindi, scatto le tre foto che allego a questo mio scritto.

Gli interventi dei tre autorevoli relatori, preceduti da una breve presentazione e poi da una prolusione del Direttore dell’Istituto, necessarie premesse che inquadrano il contesto dell’evento, si svolgono nell’arco di poco più di un’ora e un quarto. i loro contenuti sono molto tecnici, ognuno abbastanza pertinente alle aree di specializzazione specifiche dei relatori. Ciascuno di loro, nel corso delle proprie argomentazioni, lambisce la cultura umanistica, testimoniando quanto essa sia stata e sia rilevante nel proprio lavoro e studio. Ma, purtroppo, devo dire che nessuno di loro ne approfondisce l’eventuale profonda influenza su quella scientifica o anche crea ponti significativi o nessi di rilievo tra la propria disciplina di competenza, tecnico-scientifica, e la cultura umanistica.

Ovvero: al di là dello specifico – indubbiamente coinvolgente, di per sé – ambìto disciplinare di ciascun relatore, è assente, per un evento che si fregia di denominarsi Il legame tra cultura umanistica e scientifica, il necessario approccio filosofico che cerchi di determinare, pur in linea generale, le forme della conoscenza e della cultura, tanto scientifica quanto umanistica.

Riporto, solo a titolo di cronaca e senza alcuna pretesa critica sui contenuti, alcune mie annotazioni, necessariamente sommarie, che ho estrapolato (forse anche travisando) dai contesti tecnici specifici, viceversa articolati e doverosamente illustrati dai relatori, aspetti che tuttavia hanno suscitato il mio interesse e che quindi ho raccolto nel corso dei tre interventi:

  1. Causalità a Rete e Distale, anziché Lineare e Prossimale.
  2. 40 di milioni di visualizzazioni in 4 mesi in Francia su 4 notizie fake generate da AI russa. –> Nullìus in verba
  3. Taiwan: teoria olistica sull’informazione
  4. Echo Chamber Effect, quando ci si rafforza dicendo reciprocamente le medesime tesi
  5. Cross-Pollination, termine biologico citato come sinonimo di Contaminazione
  6. Veglia responsiva vs Stato vegetativo (in alcune scuole di pensiero neurologiche)

Al termine degli interventi – ragionando io, purtroppo, circa come nel secolo XXI sia ancora vigente la distinzione tra due culture – dentro di me, mi son sentito di definire carino tutto il dibattito a cui avevo appena assistito. Ma ero cosciente che, almeno in parte, ne ero stato deluso. Ciò di sicuro non per l’indubbio prestigio dei tre autorevoli relatori quanto, più verosimilmente, per l’impianto stesso dell’evento.

Mi chiedevo infatti dove fosse stata esplorata, all’interno del dibattito a cui avevo appena assistito, “l’interconnessione tra queste due secolari sfere del sapere”? Le pur gustose argomentazioni scientifiche, nel corso delle quali ciascun relatore ha ribadito il proprio personale coinvolgimento anche nella cultura umanistica, quanto hanno a che vedere, in modo stretto, con il tema ispiratore dell’evento medesimo? Vale a dire, dove è stato mostrato l’atteso dialogo tra scienza e humanitas? Ovvero i rapporti tra discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) e quelle comprendenti Letteratura, Storia, Filosofia, Arti e, in generale, le Scienze Umane?

Ci si sarebbe aspettati infatti – attesa delusa – una qualche digressione, da qualcuno dei relatori intervenuti, sulle Forme della Conoscenza, sull’Epistemologia, sui nessi tra Filosofia e Fisica, tra Filosofia e Matematica, tra Neuroscienze e Psicologie. Viceversa, nulla di ciò è affiorato.

Quando, tra le domande e le considerazioni provenienti dalla platea, personalmente ho provato a fornire un contributo dialettico fra Cultura Scientifica e Cultura Classica con alcuni esempi e riferimenti vari – tra cui uno critico-storico su Snow e le sue due culture, sul saggio di filosofia-naturale di Jacques Monod, sulle epigrafi umanistiche che aprivano i capitoli dei manuali delle tecnologie rdbms (nel caso specifico, il manuale di ORACLE,) negli anni ’90, su alcuni attuali orientamenti culturali (comprendenti anche gruppi Social) del tipo Abolire il liceo classico, sulle plausibili ipotetiche differenti ma complementari formae mentis della conoscenza scientifica sperimentale (empirica e induttiva) e della conoscenza umanistica (anche razionale, deduttiva, intuitiva) – non c’è stato sostanzialmente seguito su tali questioni e nessuno dei presenti ha fornito alcun minimo riscontro.

Senza scomodare John Locke o Immanuel Kant o Umberto Eco, rispetto a quanto era scritto nell’email d’invito all’evento, nel dibattito si è avvertita l’assenza di una Figura di Filosofo, della Scienza e della Conoscenza, che, in qualche modo e misura, si rapportasse alle forme che la conoscenza umana può e sa assumere, le forme in cui essa può esplicarsi e attuarsi, al fine di corroborare la plausibile dialettica o complementarietà tra le due culture, tra i loro diversi metodi e linguaggi che, tuttavia, non si escludono ma, probabilmente, rispondono a un’intima e profonda esigenza umana, esigenza combattuta fra due polarità; molti di noi, ma non tutti, privilegiandone prevalentemente solo una.

Al dì là delle peculiarità dei tre settori specialistici degli autorevoli relatori intervenuti – epidemiologia, tecnologia ed etologia – collegati in lieve misura da personali nessi umanistici, tutto ciò è mancato. E, dalle promesse del programma, nonché dal nome Treccani, ci si attendeva qualcosa di più incisivo e pregnante, in linea con il tema ispiratore e la denominazione dell’evento.

Così, ancora una volta, il legame tra cultura umanistica e cultura scientifica, per alcuni di noi tanto ovvio, è stato eluso. Infatti, mentre guadagnavo l’uscita, un distinto signore sorridendomi ha interloquito con me facendomi notare ciò dicendomi: «.Tuttavia, non hanno risposto alla Sua domanda.» Io, a mia volta sorridendo, ho risposto che mancava l’Umberto Eco della situazione!

Aveva forse ragione Charles Percy Snow? No, certamente no; è sufficiente ricordare le parole di Piero Angela: «La Cultura è una sola, è composta da tante cose, in cui c’è la Letteratura, c’è l’Arte, c’è la Scienza, c’è la Tecnologia, direi c’è anche l’Economia che domina certamente i processi della nostra Società. Noi avremmo bisogno, ed è molto difficile questo, di fare un po’ quello che faceva Leonardo, che era un uomo che al tempo stesso dipingeva, scriveva poesie e anche musiche, ma che era un grande scienziato e tecnologo, era anche un costruttore di macchine. Questo è impossibile oggi per qualsiasi individuo. Quello che è importante non è tanto la divulgazione o la conoscenza di nozioni. Per avere una cultura scientifica non è necessario conoscere la matematica, la fisica e la chimica. L’importante è conoscere il senso di queste cose qui, conoscere i metodi della scienza, le esigenze, le incompatibilità, le interconnessioni – questa è cultura scientifica – e saper agire di conseguenza.»

[Fabio Sommella, 19 aprile 2025]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Istruzione, erudizione, sapere, cultura

Leggo, in rete, distinzioni interessanti ma a volte fuorvianti – o addirittura desuete – sui quattro termini: istruzione, erudizione, sapere, cultura. Pertanto cerco qui di delineare in breve quelli che, a mio avviso, sono i loro rapporti da intendere al meglio in un ambito idoneo di conoscenza.

La distinzione fra Cultura e Istruzione è indicativa delle differenze sostanziali che vigono tra i due termini. In particolare, l’etimologia del primo termine (“dal latino colere=coltivare“) ben rende l’idea dell’intimo processo sottostante. Anche il richiamo al fatto che “L’uomo istruito è colui che possiede maggiori informazioni rispetto alla media degli individui, e spesso queste conoscenze sono di origine scolastica”, appare coerente con il distinguo di fondo che si vuole mettere in evidenza.
Ciò che appare inadeguato è il frequente accento su Erudizione e Sapere nelle accezioni secondo cui il primo termine sarebbe fondamentalmente d’impronta e matrice Classica, il secondo viceversa sarebbe di carattere eminentemente scientifico. Questo distinguo appare fuori dal tempo, obsoleto, ancora figlio delle “Due Culture” che, seppure in forma e modi diversi persistono, in un ambito “Culturale” moderno dovrebbe viceversa essere evitato e inquadrato in un’ottica differente.
Dovremmo “vedere” Istruzione, Erudizione, Sapere e Cultura come gradini o tappe di un gradiente, un continuum, ininterrotto – analogamente alla retta dei numeri reali – dove si transita, se si vuole e quando si vuole, per tutta una vita e il transitare comporta il muoversi nonché trasformarsi da una dimensione/visione iniziale puramente epidermica e accidentale a una dimensione/visione finale – di fatto irraggiungibile (ma Leibniz sosteneva che non è importante raggiungere l’Infinito quanto, viceversa, tendervi) – profonda e sostanziale; ovvero: inizialmente ci si mette indosso un abito d’istruzione che ci veste, poi anche degli indumenti di erudizione, quindi delle forme e sostanze di sapere, infine tutto il nostro essere è e sarà visceralmente costituito di cultura.
Dispiace che molte pagine, pur autorevoli, sulla rete, che dovrebbero avere valore Socratico ovvero Maieutico, siano viceversa concepite secondo un’ottica – al più – nozionistica, vecchio stampo, catechetica, alla San Paolo.
L’Istruzione è fondamentalmente pura memoria di dati, di “nozioni”, tanto detestate nei ’70. Qualcuno ha detto che la Cultura è ciò che si sa quando si è dimenticato tutto.

[Fabio Sommella, 23 settembre 2023]

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Lo sapevano i poeti ermetici, lo sapevano i pre-classici… lo sanno gli scienziati (Foglie in autunno)

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” è Soldati, una delle liriche più brevi di Giuseppe Ungaretti che, quando era sul fronte, durante la Grande Guerra – insieme, tra gli altri, anche ai miei nonni, entrambi del ’93 (del XIX ) – spinto dalla pressante tematica cosciente della precarietà della vita in quel contingente contesto, probabilmente ispirò questi suoi versi parafrasandoli da quelli di  Mimnermo, noto poeta greco pre-classico, “pessimista”, che era vissuto in Grecia tra il VII e VI secolo a.C.

In seguito, prima e dopo, altri poeti hanno ripreso le medesime tematiche, in varie forme.

Mimnermo scriveva “Siamo come le foglie”, comparando la condizione umana a quella delle fronde degli alberi che, in autunno, si distaccano dai rami e vengono abbandonate dai medesimi, morendo.

La prima volta che lessi questi versi del poeta pre-classico era sul finire dei ’70. Essi erano in epigrafe a un trattato di chimica del professor Luciano Caglioti: I due volti della chimica. Rimasi piacevolmente colpito circa come, un eminente scienziato, portasse a suffragio o a introduzione o a testimonianza delle proprie argomentazioni il testo lirico di un poeta dell’antica Grecia.

Col tempo ho poi imparato, come sosteneva la nostra docente di Letteratura del Liceo, che non esistono “due culture” – e, se esistono, sono solo nella testa di persone intellettualmente pigre – ma esiste un approccio olistico e integrato, di reciproco supporto tra forme di pensiero solo apparentemente disgiunte e diverse. Infatti, qualche anno dopo, scoprii sempre con piacere che i capitoli del trattato di Microbiologia erano preceduti da epigrafi pure “classiche” (che so: i versi delle satire di Giovenale!) o, ancora tempo dopo (anni ’90), i capitoli del manuale del Database di ORACLE 6, della Oracle Corporation, erano anche preceduti da sontuose ed eminenti citazioni letterarie e teatrali: tutto ciò a significare, simbolicamente o di fatto, l’intimo parallelismo e connubio tra le formae mentis scientifico-tecniche e quelle, cosiddette, letterario-umanistiche.

Ieri c’è stato, nuovo e terribile flagello, il terremoto in Turchia e in Siria, con ripercussioni, notevoli e avvertibili, in molte altre aree del continente dell’Eurasia, Nord e Sud. Si contano già migliaia di morti. E allora viene spontaneo un elementare pensiero.

Rescue teams look for survivors under the rubble of a collapsed building after an earthquake in the regime-controlled northern Syrian city of Aleppo on February 6, 2023. – A 7.8-magnitude earthquake hit Turkey and Syria early on February 6, killing hundreds of people as they slept, levelling buildings and sending tremors that were felt as far away as the island of Cyprus, Egypt and Iraq. (Photo by AFP)

In una dimensione – planetaria – ormai così fragile e labile come quella che riguarda tutti i 7 o 8 miliardi di umani che popolano questa briciola infinitesima di frammento d’universo che è la Terra, alcuni di noi continuano a farsi guerra come nei secoli passati? Con armi che, oltre a uccidere, non possono certo far bene ai già precari equilibri del pianeta. Alle sue faglie già estremamente critiche.

SIamo come le foglie sugli alberi autunnali.

E acceleriamo i nostri autunni!

[Fabio Sommella, 06 febbraio 2023]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Quell’armonica, grido di speranza

Così parlò il Vecchio dell’Alpe, di Vittorio Rombolà (Progetto Cultura, 2022), è uno scritto di carattere teorematico o a tesi, considerabile romanzo breve o racconto lungo, che ruota attorno a due tematiche fondamentali: la prima è la dialettica fra opposti stili di vita nel mondo post-globalizzato e sempre più iper-tecnologizzato; la seconda è il bullismo.

Se i personaggi sono gli elementi di una storia che, insieme agli eventi che li coinvolgono, veicolano i significati della medesima, anche nel caso di questo romanzo i significati emergono grazie ai tre protagonisti: Gabriele, Valeria e Thomas. Quest’ultimo è il Vecchio dell’Alpe che conferisce il titolo al libro. Cercando di non far spoiler alcuno, cerchiamo di vedere come questi tre protagonisti veicolano questi significati.

Relativamente alla prima tematica, Valeria e Thomas sono, almeno inizialmente, figure antitetiche: Valeria è una ancor giovane e rampante professionista dell’informazione mediatica, sempre attiva e connessa (always on, potremmo dire) che, insieme a un operatore video (Gabriele), si reca in un delocalizzato luogo alpino, agli antipodi del mondo frenetico e tecnologizzato delle metropoli globalizzate, per conoscere e intervistare – nell’arco di due-tre giorni – un anziano e disincantato personaggio ancora energico, Thomas appunto.

Premesso che, come sempre nella Storia, il problema non è la Tecnologia in quanto tale bensì l’Uso che se ne fa (il Fattore e la Natura Umana docent), diciamo subito che se il personaggio di Valeria ricorda, come icona umana, la Donna in Carriera degli ’80, il personaggio di Thomas ricorda il Carl Gustav Jung dei ’50 che, negli ultimi anni della sua vita, appena poteva si ritirava nella sua Torre a Bollingen, “rinunciando al riscaldamento e all’acqua corrente, tagliandosi la legna per il fuoco e pompando l’acqua dal pozzo, in quanto questi gesti semplici rendono l’uomo semplice… e quanto è difficile essere semplice!” Ma ciò, ovviamente, mutatis mutandis, è vero solo a un primo livello.

Thomas infatti incarna una saggezza umana sovra secolare, millenaria (il Coriolano della latinità – che, dopo i trionfi militari, decideva di abbandonare i fulgori della gloria per tornare all’ameno suo podere – sovviene alla memoria), e molti sono gli echi anche recenti che si possono rintracciare nel folclore, non ultimo quello della musica popolare. Si pensi infatti al The Fool on the Hill, di beatlesiana memoria che “sees the sun going down and the eyes in his head see the world spinning round”; oppure al Manù di Stefano Rosso, il “gitano vecchio che da sopra la collina prende l’acqua dal suo secchio e c’innaffia la piantina e tra i panni stesi al vento, su due canne di bambù, dice al mostro di cemento tu non prenderai Manù.”

Storie eterne, storie comuni, quanto dissimili, se non per grado d’istruzione, dal sopracitato Carl Gustav Jung?

Si rimarca tutto ciò a significare che la dialettica fra Modernità, incalzante e incipiente, da una parte e, dall’altra, la Nostalgia di una Reale – o Presunta – Dimensione più Umana, in tutti i tempi e a tutte le latitudini è sempre stata avvertita. Si pensi anche all’icona dell’operaio del Charlie Chaplin di Tempi moderni; oppure, non ultimo, al quesito che, nel 1980, Erich Fromm – lo stesso che, nei primi anni ’30, in collaborazione con la Scuola di Francoforte, aveva approfondito il nesso vigente fra Struttura Istintuale e Struttura Economica (Cfr. Metodo e compito di una psicologia sociale-analitica) – si poneva ancora poco prima di morire: “Può un’intera società esser malata?” [https://www.youtube.com/watch?v=79Zp_XG0wmE]

Detto ciò, il primo tema si snoda e sviluppa lungo pagine di prosa ben scritta, attraverso lo sguardo dei due colleghi/collaboratori Valeria e Gabriele, sguardo che ha il sapore di una lunga soggettiva cinematografica dove immagini memorabili si levano potenti – ad esempio il volo dell’aquila – a significare lo spontaneo e naturale avvicinamento dei personaggi, la diminuzione delle distanze, la sintesi – in qualche misura – degli iniziali opposti dialettici.

Relativamente alla seconda tematica, il bullismo, Gabriele e Thomas appaiono non in un rapporto antitetico bensì in un rapporto, seppur indiretto, di Discepolo-Maestro. Gabriele, ora in qualche modo divenuto un valido operatore video, custodisce in sé penosi e dolorosi trascorsi di vittima di bullismo e, come tale, serba memorie lancinanti di annullamento della persona da parte del branco di turno. Di questi personaggi e dei relativi eventi, l’istanza narrante fornisce alcuni sporadici ma comunque fastidiosi spaccati, indugiando in qualche misura – oltremisura? – in dettagli crudi che rasentano l’efferatezza e lo splatter. Se da un lato, circa questa tematica, il lettore può cogliere echi letterari illustri – per citarne due, dal Demian di Hermann Hesse all’Agostino di Alberto Moravia – dall’altro lato il lettore si interroga circa l’integrazione, profonda o viceversa epidermica, di questa tematica con la precedente. Ovvero ci si chiede se la trattazione – ma ancor più il montaggio (in senso filmico-cinematografico) dei passi, degli episodi, degli antefatti, degli spaccati circa la sofferenza del bullizzato da parte degli odiosi bulli, sia opportuna; e non in senso assoluto, ma in modo relativo a quanto viene narrato.

Perché ci si chiede ciò?

Lo si chiede laddove un oggetto, solo apparentemente marginale, – nello specifico un’armonica a bocca – si carica e viene investito di un meraviglioso e solenne nonché sovratemporale significato: il legame e la continuità con il defunto padre biologico e con un, seppur simbolico, ritrovato padre. Questo avviene in una magnifica scena di commiato, da considerarsi a pieno l’acme del romanzo, evento che sarebbe pertanto sufficiente a chiuderlo. Il lettore si chiede viceversa come mai, in chiusura, si indugi di nuovo sulle efferatezze delle memorie del bullizzato, le quali non appaiono funzionali – a meno di altre finalità non colte, forse distrattamente – a veicolare alcunché di nuovo. Perché rimestare e continuare a dissotterrare ennesime memorie dal sottosuolo?

Non si domanda ciò per puro e banale desiderio di un lieto fine; ma perché, pur affascinati da una prosa efficace, in cui l’uso predominante dell’imperfetto conferisce una fluidità continua, ci si interroga circa il grado di effettiva integrazione dei due temi. Non si poteva cercare di renderli più visceralmente integrati, piuttosto che far applicare al racconto/teorema un abito che, almeno in alcuni passi, si avverte posticcio?

Pertanto, in una eventuale trasposizione filmica, al fine di cogliere completamente la più profonda e costruttiva critica alla società e al nostro tempo, si ritiene che la sceneggiatura sarebbe – almeno in parte – da rimontare, terminando con il magnifico episodio della riconsegna dell’armonica, grido di speranza.

Infine, in merito a quale uso di un testo di questa fattura e pretese, nella misura in cui la letteratura può avere valore pedagogico, si ritiene valida la seguente considerazione: se è vero che il problema del bullismo, prima ancor che di pertinenza dei giovani o dei giovanissimi è di pertinenza dei genitori dei medesimi, questo testo, come altri siffatti, attraverso le strutture territoriali di assistenza sociale, sarebbe da indirizzare e da rivolgere innanzitutto alle famiglie e soltanto in un secondo momento direttamente alle scuole.

Una speranza per l’evoluzione di una società comunque globalizzata e multietnica.

[Fabio Sommella, 11 giugno 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Due luoghi e due misure (Contravvenzioni e barbarie)

Ormai Enrico lo sa: c’è solo la scelta. La scelta di sapere come morirà. Se non di covid o di effetti collaterali da vaccino, forse di qualche “brutta” malattia. Oppure d’infarto. Oppure, con buona probabilità, investito. No, non da un’auto, come spesso purtroppo accade, o da una moto o addirittura da una bicicletta (quante, pure, vanno veloci sui marciapiedi? O, sulle piste ciclabili, sfrecciano in barba alla città e ai passanti impreparati?) Ma da un monopattino. Sì, uno di quei “moderni” dispositivi elettrici a due ruote che, giustamente, per snellire il traffico, sono l’ideale. E poi – diciamolo – la tecnologia ben venga, no?

«Sai, ho ricevuto una contravvenzione», gli dice Mariangela.

«Quando?», le risponde Enrico.

«Due mesi fa.»

«E dove eri?»

«Non ti ricordi? Eravamo andati al lago. Percorrevamo la Salaria e…»

«Ah, già… il controllo elettronico della velocità… ma tu vai sempre piano, tanto che dietro a te si forma puntualmente la coda e ti suonano!»

«Già, infatti il mio eccesso di velocità era cinquantacinque – 55 – chilometri orari.»

«Cinquantacinque?»

«Sì: il limite era cinquanta… ma la strada era tutta deserta e non me ne sono accorta!»

«Ma certo, figurati. Che dire? Lasciamo stare…»

«Invece qui, in tutti i quartieri di Roma, hai visto come parcheggiano le auto?»

«Già», risponde lui, «ma dove sono i vigili urbani?»

«E fossero solo le auto sulle strisce: hai visto i monopattini? C’è solo l’imbarazzo della scelta.»

«Ma cos’è? “Parcheggio selvaggio”?»

«Di sera, la mamma di Rosaria, che non vede bene, una volta – era buio – ci ha inciampato.»

«Fosse solo quello: l’altro giorno mi hanno sfiorato e, per poco, non cadevo. Era un deficiente che col suo monopattino è sfrecciato sul marciapiede. Mi ha urtato al braccio e stavo cadendo. Si è appena girato per gridare “Scusa”. Ma scusa a che? Imparasse a vivere.»

«Deve scapparci un altro morto? Come a Parigi, quella povera giovane…»

«Lo so… fa più rabbia o pena? A poco più di trent’anni, morire in quel modo.»

Tacciono, Enrico e Mariangela. Tacciono, rattristati e impotenti. Poi lui riprende: « Quei due ruote elettrici, son stati dati in carico a tante tante persone. E, alcune di queste, sono purtroppo degli emeriti imbecilli, o immaturi o incoscienti, il che fa lo stesso. Come quando ho chiamato i vigili urbani per lamentare quell’ennesimo parcheggio selvaggio d’un monopattino in mezzo al marciapiede. Mi hanno rimbalzato da un numero a un altro e, alla fine, dopo venti minuti, mi hanno chiesto “Chi le ha passato questo numero?” ed è caduta la telefonata. Segnalo gli abusi – perché abusi sono, no? – anche al sito e alle pagine delle autorità senza ricevere alcuna risposta. Gli ho scritto che “non servono denunce ma una campagna capillare di civilizzazione e sensibilizzazione a più livelli e Voi, come Comune, oltre la Scuola – con l’Educazione Civica che non si studia più perché la Società è Globalizzata ma l’Antropologia Culturale neppure perhé è di là da venire – avreste la facoltà e il dovere d’intervenire contro questa ulteriore deriva urbana e, più in generale, della società tutta.” Però mi sa che si sono messi a ridere.»

«Tuttavia la contravvenzione di eccesso di velocità sulla Salaria – cinquantacinque chilometri orari su strada deserta di traffico – arriva puntuale», torna a ribadire Mariangela.

«Eh, ma sai, sono due luoghi diversi; poi una è la polizia stradale d’un territorio – un comune – fuori città, altro sono i quartieri di Roma, affollati, ingorgati di traffico, i vigili urbani che hanno tanto altro da fare…»

«Le contravvenzioni e la barbarie… ma non è sempre lo Stato?», chiede Mariangela.

«Due luoghi e due misure…», chiosa Enrico. «Lo so di cosa moriremo.»

FINE

[Fabio Sommella, 30 novembre 2021]

 

In sottofondo, la mia composizione Tempo di fiabe

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Tra isole e inganni, gli occhi di un adolescente

Serenity – L’isola dell’inganno, 2019, di Steven Knight solo in apparenza si propone come un tradizionale thriller dalle connotazioni torbide e inquietanti, essendo esso un intelligente esempio su come i riferimenti alle tecnologie della contemporaneità – scrutati dal severo sguardo di un adolescente – possano rivisitare e rinforzare i canoni del noir. Senza indugiare oltremisura attorno a questa chiave di lettura, per ovviare a qualsiasi spoiler eventuale, si può e si deve dire che innumerevoli echi, cinematografici ma anche letterari, si possono cogliere nel corso della visione di questo film. Vediamoli un po’, in quanto forse il loro pur rapido esame ci fornisce una comprensione migliore in merito all’ispirazione e al significato di questo lavoro di Knight.

In primis torna alla mente il torbido intreccio de Il postino suona sempre due volte, 1981, di Bob Rafelson, laddove si racconta di una coppia, nuova o vecchia che sia, che escogita un piano: eliminare un terzo incomodo, pacifico o violento che sia. Ma ciò appare solo l’inizio.

L’ambientazione – pescatori di giganteschi tonni e pesci spada al largo di Miami e Cuba, i loro ostentati ritratti fotografici assieme al frutto della loro bramata fatica – rimanda potentemente a quel piccolo/grande capolavoro letterario di Hemingway, Il vecchio e il mare. Ma anche ciò è solo la premessa iniziale.

La non infrequente voce fuori campo, sorta di seconda istanza narrante radiofonica in cui un redivivo lupo solitario scandisce le fasi della giornata a Plymouth, località (fittizia?) in cui si svolge l’azione, riecheggia in modo deciso American Graffiti, 1973, di George Lucas.

Il rapporto fra il protagonista e un suo collaboratore di colore (l’attore Djimon Hounsou), per molti versi nei modi riecheggia quello fra Robin Hood e il suo attendente arabo (l’attore Morgan Freeman) in Robin Hood – Principe dei ladri, 1991, di Kevin Reynolds.

Ma certamente più ghiotti e numerosi divengono gli echi quando, in questo film di Knight, agli occhi dello spettatore comincia a emergere il gioco – ben orchestrato dal regista – fra vita e artefatto, tra realtà e finzione, fra dentro e fuori, fra creatore e creatura, fra regole previste e agognato cambiamento delle medesime. E qui molteplici, pur nelle differenze delle portate dei film, sono le reminiscenze: da Tron, 1982, di Steven Lisberger, a Blade Runner, 1982, di Ridley Scott, da Nirvana, 1997, di Gabriel Salvatores a Matrix, 1999, di Lana e Lilly Wachowski, ma anche al precedente Una pura formalità, 1994, di Giuseppe Tornatore. È l’eterno gioco fra veridicità e camuffamento che, in forme cangianti, si perpetua all’interno delle narrazioni. Perché? Ma perché, probabilmente, esso – tale gioco – è il sale dell’esistenza che ne racchiude i più riposti significati.

Quindi Serenity – L’isola dell’inganno, oltre alle specificità proprie, è anche tutto ciò: un coagulo di temi pregressi, di trame precostituite; il tutto calato nei modi della incipiente galoppante mutevole contemporaneità.

Film utile? Film necessario?

Non sappiamo.

Ma, di certo, a fianco a tanti lamenti auto-celebrativi o a pretesi apologi sul rapporto contemporaneità/tecnologie, il film di Knight , pur collocandosi all’interno di un alveo indubbiamente attento al fattore commerciale, brilla per: buon gusto espressivo, equilibrata conduzione, ben dosato rapporto fra preamboli narrativi e climax, bella fotografia di esotici scenari, misurato senso della nostalgia per un rapporto esistenziale equilibrato che travalichi le tante violenze della quotidianità; oltre che per le convincenti performance degli interpreti, tra cui brilla Matthew McConaughey che dà il suo volto e il suo fisico scolpito al protagonista, duro dal cuore tenero. E ciò non appare poco.

Da non dimenticare che Steven Knight è autore di quell’altro piccolo/grande capolavoro di intimismo ed esistenzialismo che è il suo Locke, 2013, racconto filmico in cui un unico personaggio, il solo fisicamente presente in scena, interpretato magistralmente da Tom Hardy, nello spazio di una notte rivede e si gioca tutta la propria vita, affettiva e professionale, aprendo a nuove impreviste eventualità, solo per esser sé stesso, solo per amore: e anche ciò, decisamente, non è poco!

Lode quindi a Steven Knight e all’apparato produttivo tutto per Serenity – L’isola dell’inganno, intenso noir post-moderno, sempre in bilico tra realtà, gioco e desiderio di una diversa realtà scrutata attraverso gli occhi di un adolescente: laddove, se non una rappresentazione – teatrale, filmica, virtuale, onirica – cosa altro, è l’esistenza?

[Fabio Sommella, 22 luglio 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)