Ricordando quel delicato artista che fu Francesco Nuti

Ieri, 12 giugno 2023, è venuto a mancare Francesco Nuti. Io sono stato un estimatore della sua arte, in particolare del suo film  Tutta colpa del paradiso. Come ho avuto già modo di commentare sui Social, considero questo film un autentico capolavoro di poesia e simbolismi che, di sbagliato, ha solo il titolo e la locandina, i quali traggono in inganno rispetto alla bellezza, garbo e delicatezza dell’opera.

Mi fa piacere quindi pubblicare, qui di seguito, qualche contributo su Francesco e la sua arte.

Il primo è un estratto dal mio libro Il cambio della guardia che, nello scenario dell’evoluzione della Commedia all’Italiana, tratta proprio la mia lettura di Tutta colpa del paradiso.

Il secondo è un bell’intervento, dettagliato e accorato, dell’antropologa e mediatrice culturale Adriana Migliucci all’interno della sua pagina Facebook, intervento che ha stimolato ulteriormente il mio interesse per Francesco e che, pertanto, mi permetto di divulgare a mia volta (spero Adriana non se ne abbia a male ma, conoscendola, penserei davvero di no!) Questo bel contributo è corredato anche di un ulteriore scambio fra me e Adriana.

Non mi resta, quindi, che augurare buona lettura a coloro che vorranno incontrare queste nostre analisi e testimonianze e, rivolgendomi a Francesco con la medesima delicatezza che ha contraddistinto la sua arte, dire “So Long, Francesco: che la terra ti sia lieve!”

Fabio Sommella scrive di Tutta colpa del paradiso

In precedenza si è già accennato a questo film del 1985. Esso reca la firma, oltre che dello stesso Francesco Nuti e di un giovane Giovanni Veronesi, anche di Vincenzo Cerami[1], già autore circa un decennio prima del famoso Un borghese piccolo piccolo, portato sullo schermo da Sordi e Monicelli. Sulla scorta di un sapiente soggetto e di una robusta sceneggiatura, questo film brilla tanto per la coerenza narrativa quanto per il sapiente impiego dei plurimi elementi sottostanti, tutti elementi ruotanti attorno al tema del viaggio alla ricerca di un figlio. Questo itinerario ha però origine da un claustrofobico incipit nel carcere e, attraverso alterne e anche molto ironiche vicende, conduce fino all’allegorica conclusione in vetta al Gran Paradiso. In tutto ciò si ritiene che l’apporto di Cerami sia fondamentale proprio in relazione all’affermazione dei plurimi elementi che, tutti insieme, vanno a costituire l’ampio e articolato preambolo del film.

Ma vediamoli con il dovuto ordine, questi elementi  plurimi!

L’inizio è nel citato carcere, assieme al, da principio, minaccioso compagno (un detenuto incarcerato per un feroce omicidio) di cella del protagonista Romeo Casamonica, interpretato dal medesimo Francesco Nuti (certamente nel suo periodo artistico più smagliante).

Giunge poi il commiato tra i due. Esso sarà di estrema amicizia, con il dono del poster di Fausto Coppi da parte di Romeo all’altro; quest’ultimo ricambierà con l’armonica a bocca, elemento in seguito simbolicamente pregno di vibrati e vibranti significati.

Segue una casa, antica abitazione (di cinque anni prima) non più ritrovata da Romeo: al suo posto ci sono palazzoni[2]. «Qui son passati gli americani», dirà a Romeo uno stravagante stralunato amico netturbino, incontrato nel quartiere, una landa suburbana che rimanda all’aspro e anonimo sapore d’un dormitorio pubblico.

Romeo, alla disperata ricerca di suo figlio Lorenzo  – da recuperare a dispetto di un suo presunto-simbolico crimine di rapina a mano armata[3] – che praticamente non aveva conosciuto, dovrà recuperare i suoi pochi oggetti personali. A tal fine scenderà in una sorta di post-moderni inferi, vale a dire i profondi sotterranei-scantinati dei suddetti palazzoni del quartiere dormitorio. Egli, come un novello Dante il cui tragitto è però capovolto, sarà provvisoriamente accompagnato da una donna-nana, anche lei sorta di Beatrice capovolta. Ma questa non giungerà alla meta con lui, poiché anch’essa teme quelle sordide profondità dove, infine, una schiera di loschi punk  apparentemente lo minacceranno, per poi in realtà lasciargli spazio e recuperare le sue poche e perdute cose, i propri affetti personali.

Ciò fatto e adempiuto, Romeo si recherà presso l’assistente sociale, una dura quanto convincentissima Laura Betti – ormai da tempo “orfana” di Pier Paolo Pasolini – la quale gli negherà la conoscenza del luogo adottivo dove vive adesso suo figlio Lorenzo. Ma ciò è poco male: Romeo è stato in prigione ed è ormai avvezzo alle durezze della vita. Così nottetempo, si introduce negli uffici dell’assistente sociale e, consultando i primi pur rudimentali personal computer, svelerà a sé stesso che il suo Lorenzo è stato adottato da una onesta e ligia famiglia che risiede in Val D’Aosta, sulle amene vette del Gran Paradiso.

Fin qui il preambolo/prologo del racconto, da cui il vero nucleo del film prende poi piede e si sviluppa secondo una forte e poetica quanto umoristica vena, lasciando spazio a plurimi significati, secondo la più nobile e matura Contemporaneità o Postmodernità, nonché naturalmente secondo una romantica vicenda amorosa. Questa avverrà quando Romeo/Nuti raggiungerà il rifugio del Gran Paradiso. Qui egli conoscerà l’affascinante Celeste, impersonata da Ornella Muti, madre adottiva di Lorenzo mentre Alessandro, impersonato da Roberto Alpi, padre adottivo del ragazzo, è un brillante ricercatore in etologia. La nuova famiglia risiede e vive, temporaneamente, sulle vette del Gran Paradiso in quanto il brillante etologo ricerca il “famigerato” stambecco bianco, rarissimo esemplare di una specie animale di cui ne nasce uno ogni cinquecento anni. Esso, lo stambecco bianco, proprio a causa di questa sua anomala e stravagante sembianza, viene bandito fin dalla nascita dal gruppo della sua specie.

La simbologia filmica, ben si comprende, è potente: l‘interscambio e il connubio, immediato, fra il protagonista Romeo e lo stambecco bianco saranno sempre più spinti in avanti e marcati fin quasi a confondersi e sovrapporsi con il prosieguo del racconto. Questo sarà naturalmente inframmezzato da tante gustose annotazioni, tra cui il ripetuto tormento del protagonista da parte di fastidiosi insetti volatili.

Il connubio Romeo/stambecco bianco si avrà poi al termine del racconto, dopo che Romeo, ormai persuaso della sua scelta, avrà rinunciato a “riprendersi” il figlio. Ciò avverrà dopo l’unica e irripetibile notte d’amore con Celeste, notte d’amore di “trasgressione” delle regole approvate dalla comunità, “trasgressione” che in base a un’antica leggenda locale è concessa solo per quella notte dell’anno, festa di fine estate. Sarà questo un episodio connotato dalle vibranti note dell’armonica a bocca di Romeo. Dopo tutto ciò, Romeo lascerà il figlio Lorenzo, sereno e inconsapevole, nella sua – per il ragazzo unica e originaria – magnifica famiglia adottiva.

In definitiva Romeo avrà stabilito con Lorenzo  “solo”  un’intensa e sincera amicizia. Successivamente a evocativi ed eroici echi – inerenti a memorie sportive circa Fausto Coppi, memorie dal sapore epico ed atavico riecheggianti certamente l’infanzia di Nuti stesso – solo Romeo, a dispetto di qualsiasi scientifica ricerca etologica, avvisterà lo stambecco bianco.

I due, Romeo e lo stambecco bianco, comunicheranno all’interno di una splendida sequenza alternata di empatiche inquadrature, laddove i due “volti” – dell’umano e del caprino – si confonderanno in un’unicità di sovrapposizioni ed espressioni: ciò a significare che, in realtà, la natura e l’amore per la vita non hanno confini o separazione nell’umano o nell’animale ma sono, più probabilmente, un eterno e scambievole gioco universale, una eterna ghirlanda brillante, come per altri versi si potrebbe leggere l’importante testo di Douglas Hofstadter[4]. È  questo scambievole gioco universale – paradisiaco –  che si deve saper cogliere con l’anima piuttosto che con la pura e sola razionalità.

L’apporto di questo film di Nuti, insieme a Cerami e a  Veronesi, al cambio della guardia, avvenuto nel grembo della “leggera” Commedia all’Italiana degli anni ’80, appare notevole e non si può trascurare. Emblematico trionfo della Contemporaneità postmoderna sarà infatti la sequenza di chiusura. Qui Romeo, avvistato lo stambecco bianco e avvenuto il connubio con lui, ormai definitivamente avviatosi sulla via del ritorno, la via di discesa dal Paradiso, si è appena staccato dal figlio e dai suoi genitori adottivi, lasciandoli tutti insieme, senza personali remore bensì serenamente,  alla loro vita indipendente e autonoma. È adesso che Romeo, per l’ennesima volta, viene aggredito dai fastidiosi insetti volatili che lo hanno già tormentato. Romeo – e qui si coglie tutta la genialità del meta-linguaggio di Nuti, Cerami e Veronesi – schiaccerà il fastidioso insetto volatile ma lo coglierà non in uno spazio intra-diegetico bensì extra-diegetico, vale a dire proprio sull’obiettivo della camera, da cui, noi spettatori, lo stiamo scrutando; ciò a meta-significare – in una superba coda extra-diegetica – che gli insetti, che hanno tormentato il protagonista in precedenti sequenze, eravamo noi stessi, noi spettatori che non eravamo in grado di approvare l‘operato esistenziale, così altruista e generoso,  del personaggio Romeo. È così che, concedendogli ampio e grande omaggio, il meta-linguaggio e l’extra-diegesi supportano la Contemporaneità postmoderna.

[1] Il quale ritroveremo anche in alcuni dei migliori frutti filmici di Roberto Benigni.

[2] Come, per altri versi nella realtà, nella più antica (vent’anni prima) celentaniana canzone Il ragazzo della via Gluck

[3] Crimine tutto sommato analogo ai simbolici delitti compiuti dal surreale Michele Apicella di Nanni Moretti in Bianca.

[4] Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, 1979.

[Fabio Sommella, Il cambio della guardia, pp. 145-150, Caosfera Editore, Vicenza 2017; Amazon 2019]

Adriana Migliucci scrive di Francesco Nuti

Tra i vari bellissimi strani lavori che ho fatto in ambito audiovisivo c’è stato anche quello di trascrivere al pc un po’ dell’autobiografia di Francesco Nuti mentre lui stesso me la raccontava/dettava andando indietro con i ricordi e dialogando al telefono con il fratello Giovanni. Era il 2005, una delle tante mattine in cui ero lì con lui, era proprio il giorno in cui faceva 50 anni e mi ricordo che gli portai delle pastarelle. Non credevo a me stessa, non poteva essere che ero proprio io lì davanti al mio idolo da adolescente con quella sua fossetta irresistibile sul mento e quegli occhi che non saprei definire, e lui che mi dettava alti e bassi della sua intensa vita fino a quell’anno prima di quella drammatica caduta in casa che gli ha cambiato la vita. Alti e bassi della sua vita, altissimi e bassissimi, tra film, amori, struggente affetto paterno e cose molto pesanti che mi dettava raccontando con una voce triste e tenera e che per me era davvero duro battere sulla tastiera e rileggerglielo quando mi chiedeva di tornarci su per correggere qualcosa o aggiungere altro.
Dei cinema in cui ho visto – e molto spesso rivisto – quasi tutti dei suoi film mi sa che purtroppo non c’è ne è rimasto nessuno aperto, di quella ragazza che ero stata nel buio di quelle sale con il suo volto a tutto schermo sicuramente mi porto dentro qualcosa, di quelle mattine con la sua vita tra le mie dita mi rimane una traccia indelebile di profonda sfaccettata umanità. Grazie alla vita che mi ha fatto sognare e ridere con i suoi film e che me l’ha fatto incontrare così intensamente!

 

Fabio Sommella –> Adriana Migliucci

Se tu non ci fossi, si avrebbe il dovere d’inventarti!!! 😅 Scherzi a parte, il ricordo di cui ci partecipi, ma soprattutto l’espressione dei tuoi stati d’animo a quell’esperienza, sono di una levità e sacralità umane molto rare davvero. Io, oltre ai film (in primis quel Paradiso, pure rarissimo come poeticità e simbolismo), credo di aver percepito Francesco in alcune interviste, sui giornali e in TV, nel corso degli aneddoti ufficiali in cui, come anche nelle sue migliori opere, emergeva il “non detto”, i silenzi, il “sottratto”. Uno degli elementi della sua poetica era l’oscurità, il notturno, espressione di un profondo senso di solitudine che s’incarnava nella cella d’un carcere o, all’opposto, nelle vette del Gran Paradiso, dove uno stambecco bianco – “Ne nasce uno ogni 500 anni’ – fa scorribande notturne, e infine si manifesta e si specchia in lui – due sguardi isomorfi che rispecchiano più profonde similitudini – a dispetto di ogni etologo e ricercatore di professione.

È la storia di un ragazzetto che nelle province toscane giocava al calcio, segnando molto, ma che poi fu offuscato da uno di un paese vicino, tal Paolo Rossi 🤣.
Storie di amore per la vita: sarebbe bello parlarne.
PS: ma il tuo dattiloscritto della biografia di Francesco, ha avuto un seguito? È stato pubblicato?

 

Adriana Migliucci –> Fabio Sommella 

Grazie di cuore per le tue parole su di me e concordo pienamente con quanto scrivi della sua arte e umanità. Tutta colpa del paradiso credo che sia un capolavoro assoluto e so che c’è quel film dietro alla scelta del nome di molti quarantenni-trentenni di oggi che si chiamano Lorenzo!

Quando ebbe l’incidente del 2006, ovviamente il suo progetto dell’auto biografia si bloccò e io non l’ho più potuto incontrare perdendo anche i contatti con chi me l’aveva fatto conoscere, ma sono molto contenta di aver scoperto proprio in questi due giorni che poi l’aveva ripreso scrivendola in fiorentino, pubblicata con Rizzoli ed è stata portata anche a teatro con le musiche del fratello. https://www.rizzolilibri.it/libri/sono-un-bravo-ragazzo/
Sono un bravo ragazzo - Rizzoli Libri
RIZZOLILIBRI.IT
Sono un bravo ragazzo – Rizzoli Libri

[Adriana Migliucci, Tra i vari bellissimi strani lavori che ho… – Adriana Migliucci | Facebook]

 

[A cura di Fabio Sommella, 13 giugno 2023]

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Il luogo della libertà, ovvero il palcoscenico dei De Filippo

Eduardo Scarpetta con Luisa De Filippo e i loro figli Eduardo, Titina e Peppino.
Qui rido io, film del 2021 di Mario Martone, è un’intensa e acuta parabola umana e artistica (magnifica l’ambientazione, splendide la fotografia e le riprese, serrato e avvincente il ritmo narrativo scandito anche dal susseguirsi delle struggenti canzoni del repertorio storico partenopeo) della vita, pubblica e privata, del commediografo napoletano Eduardo Scsrpetta. Tuttavia il film – che si avvale di formidabili attori tra cui, ovviamente, brilla per istrionismo Tony Servillo nel ruolo del protagonista, padre-padrone d’una atipica famiglia allargata d’inizio secolo – è soprattutto un omaggio alle origini e alle emblematiche premesse, ancora umane e artistiche, di Eduardo De Filippo e dei suoi sorella e fratello Titina e Peppino. È la sottesa, implicita, dialettica fra i due Eduardo – Scarpetta senior e De Filippo – che fa vibrare le corde emotive e intellettuali di tutta la vicenda. L’analisi dei caratteri e gli intrecci esistenziali sono resi magistralmente da Martone ma l’acme di tutto il racconto filmico sta nel drammatico ausilio che il giovane Eduardo dà all’ancora piccolo Peppino quando quest’ultimo, disperato, vuole fuggire verso una non meglio anelata libertà. In quel frangente Eduardo blocca il fratellino indicandogli il palcoscenico e dicendogli: “Vuoi la libertà; è lì sopra, la nostra libertà!” In questa maniera Martone – riecheggiando nobili precedenti figure cinematografiche, che vanno dal padre di Fanny e Alexander di Bergman (che nel suo teatro trovava un luogo certo e riparatore rispetto alla convulsa vita quotidiana) al pianista sull’oceano di Baricco/Tornatore (che rifuggiva l’aperto mondo in luogo dello spazio conchiuso eppur in qualche modo infinito della tastiera del suo pianoforte) – lascia che la vicenda, pur intrigante di una comunque ordinaria saga famigliare d’inizio secolo, si apra alla leggenda, toccando le vette dell’elegia e del sublime. Il “vecchio”, incarnato in Scarpetta, ancora vincolato e ben saldo alle maschere se non di Pulcinella certo a quelle della sua creatura Felice Sciosciammocca, subordinato alle egide culturali dannunziane e crociane di cui, pur in modo diverso, era succube, lascia il posto e prelude al “nuovo”, incarnato nel giovanissimo Eduardo (di cui conosciamo la futura non subordinazione al pur grandissimo Pirandello). In quell’acme, attimo d’intenso soccorso dialogico fra i giovanissimi Eduardo e Peppino, Martone annuncia il futuro e restituisce, a noi spettatori, la profondità ma anche il sapore agro-dolce di quella che sarà parte della grande storia teatrale e dello spettacolo italiano, ma non solo, del ‘900.
[Fabio Sommella, 22 maggio 2023]

 

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Pretese barriere linguistiche vs contaminazioni culturali

Davvero perplesso, financo offeso, rifletto.

Ormai da tanto tempo – decenni? – non faccio distinzione “nazionale” tra la musica di Puccini e quella di Mozart, la canzone di De André o di Paul Simon, fra il cinema di Fellini o di Bergman, l’attorialità di Totò o di Chaplin… amandoli io tutti, indistintamente, come opere d’arte e produzioni del genio umano, dei figli di questo pianeta.

Viceversa penso, vedo, sento, avverto, percepisco… come, nella coscienza comune e pubblica, il dictat (!?) di quel tal attuale ministro di questo governo pesi al punto da impedire a tanti, pena millantate multe, di pronunciare – in maniera, ad esser generosi, davvero ridicola – termini anglofoni o d’altra lingua “non nazionale”, in nome di non so quale preteso desueto purismo linguistico e culturale, dimenticando – il ministro, il governo, nonché coloro che li hanno votati – che l’interculturalità (leggasi  L’instaurazione e il mantenimento di rapporti culturali come forme di dialogo, di confronto e di reciproco scambio di conoscenze tra paesi o istituzioni o movimenti diversi.) è insita nella vita e nel Mondo Futuro, al di là delle ridicole pretese barriere politiche, specie per chi ha formazione transdisciplinare, lavora con i computer, ha lavorato nell’IT, naviga su internet e studiando, anche l’antropologia culturale, si è sollevato dagli infimi provincialismi di cui è intrisa la loro mente.

Signor ministro, ha mai sentito parlare di Melting Pot?

Una risata vi seppellirà 🤣 

A riguardo, oltre alla simpatica locandina qui sotto (ma gli esempi sono naturalmente molteplici), si veda anche qui e qui.

#ApriteviAlleContaminazioniCulturali
#ApertiAlleContaminazioniCulturali
[Fabio Sommella, 21 maggio 2023]

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I conflitti di un Uomo letti nella figlia, ovvero Ultima Stazione di Anna Vasta

In una dimensione tanto meta-narrativa che meta-critica, scenario spesso proprio degli incontri impossibili, Anna Vasta – già affermata poetessa di acuta e incisiva sensibilità, nonché pensatrice di indubbio pregio intellettuale e culturale – ambienta [Anna Vasta, Ultima stazione, in Salvatore Stefanelli (Ed.), Le improbabili, 2023] un pregnante dialogo immaginario tra un padre e una figlia, pur simbolici, nello specifico Lev Tolstoj e una delle sue più apprezzate creature letterarie, vale a dire quell’Anna Karenina che, da quasi centocinquant’anni, affascina e seduce tanto la critica letteraria che la filmografia.

Se anche Anna Vasta sottolinea la convergenza del destino di padre e figlia in quelle pur differenti stazioni ferroviarie che segneranno, tragicamente, gli esiti di entrambi, nel preambolo di questo meraviglioso incontro, ma soprattutto nel cuore del medesimo, ne disegna e ne tesse le forme e gli orditi cesellando il quadro d’insieme con finissime trame critiche e con ulteriori dettagli che, al di là della bellezza intrinseca, esprimono la recondita intesa che, caratterialmente, lega il padre alla figlia, lo scrittore al personaggio, il demiurgo alla propria creatura.

Magnifico è leggere la lunga digressione che la Vasta dedica alle atmosfere drammaturgiche tolstoiane filtrate attraverso la paesaggistica e le ambientazioni russe ottocentesche: “Le immense incolori distese di neve, le betulle spoglie, la luce fioca dei tramonti e il gorgoglio fumante del samovar. Poi le prime crepe nei laghi gelati, i rivoli d’ acqua smeraldina che luccicavano tra i ghiacci. Era il disgelo”. Ma ciò è l’indispensabile background che la poetessa e scrittrice imprime al suo emblematico ed elucubrante racconto breve per sostenere altri significati: l’intimo rapporto che sorregge padre e figlia simbolici, nonché i destini di molti, certo dei medesimi ma, non ultimi, anche quelli di eventuali lettori.

Se con l’altra immensa eroina della propria narrativa – l’irresistibile, per molti di noi lettori soprattutto maschili, Nataša – il Maestro della letteratura russa era stato magnanimo, consegnandola infine a un destino  di caldo tepore famigliare a fianco di uno dei suoi maggiori alter-ego – quel Pierre Bezuchov, personaggio sempre in bilico fra opposte sorti e tensioni nonché pieno rappresentante, insieme al principe Andrej e a Konstantin Levin, dei tormentosi dubbi esistenziali dello scrittore – Tolstoj, con “Annuska” Karenina, inizia in qualche modo a preconizzare anche la propria tragedia. Anna Vasta, nel proprio racconto, attesta questa consapevolezza quando il conte Tolstoj, rivolgendosi alla Karenina, sottolinea che “non potevo cambiare la tua storia e inventarmi per te amori felici, se mai esistono. E comunque non erano nella mia vena.”

Ciò sarà infatti anche per i protagonisti di altre opere come La morte di Ivan Il’ič o Sonata a Kreutzer.

È questo, ci segnala Anna Vasta, l’intimo rapporto che accomuna la protagonista Anna Karenina con il suo creatore; ma anche, aggiungiamo noi, con le altre successive creature letterarie, nonché con molti lettori che hanno amato e amano questi sontuosi affreschi di vita pur romanzata: il conflitto, fino alla rottura estrema comprendente il sacrificio e la rinuncia a ogni forma di esistenziale accondiscendenza, verso le convenzioni e gli obblighi della società del proprio tempo. È in tale ottica che Anna Vasta, quando Anna Karenina si rivolge al conte Tolstoj, le fa dire: “Fui messa al bando dall’ ipocrita, moralista, corrotta società pietroburghese per la mia storia con Alekeij. Voi conoscevate bene quel mondo iniquo e, per quanto uomo di autentici principi cristiani, non avete puntato il dito contro l’adultera.”

Cose dell’Ottocento? Superate? Ovviamente no, o comunque, pur in altra foggia e trasformate dalle diverse culture del tempo e dei luoghi, certo non solo.

Pertanto lode ad Anna Vasta per questo mirabile impossibile dialogo fra un padre e una figlia, fra un Padre e i suoi figli lettori, fra un padre e i suoi più riposti conflitti irrisolti di Uomo.

[Fabio Sommella, 8 aprile 2023]

 

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Lo sapevano i poeti ermetici, lo sapevano i pre-classici… lo sanno gli scienziati (Foglie in autunno)

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” è Soldati, una delle liriche più brevi di Giuseppe Ungaretti che, quando era sul fronte, durante la Grande Guerra – insieme, tra gli altri, anche ai miei nonni, entrambi del ’93 (del XIX ) – spinto dalla pressante tematica cosciente della precarietà della vita in quel contingente contesto, probabilmente ispirò questi suoi versi parafrasandoli da quelli di  Mimnermo, noto poeta greco pre-classico, “pessimista”, che era vissuto in Grecia tra il VII e VI secolo a.C.

In seguito, prima e dopo, altri poeti hanno ripreso le medesime tematiche, in varie forme.

Mimnermo scriveva “Siamo come le foglie”, comparando la condizione umana a quella delle fronde degli alberi che, in autunno, si distaccano dai rami e vengono abbandonate dai medesimi, morendo.

La prima volta che lessi questi versi del poeta pre-classico era sul finire dei ’70. Essi erano in epigrafe a un trattato di chimica del professor Luciano Caglioti: I due volti della chimica. Rimasi piacevolmente colpito circa come, un eminente scienziato, portasse a suffragio o a introduzione o a testimonianza delle proprie argomentazioni il testo lirico di un poeta dell’antica Grecia.

Col tempo ho poi imparato, come sosteneva la nostra docente di Letteratura del Liceo, che non esistono “due culture” – e, se esistono, sono solo nella testa di persone intellettualmente pigre – ma esiste un approccio olistico e integrato, di reciproco supporto tra forme di pensiero solo apparentemente disgiunte e diverse. Infatti, qualche anno dopo, scoprii sempre con piacere che i capitoli del trattato di Microbiologia erano preceduti da epigrafi pure “classiche” (che so: i versi delle satire di Giovenale!) o, ancora tempo dopo (anni ’90), i capitoli del manuale del Database di ORACLE 6, della Oracle Corporation, erano anche preceduti da sontuose ed eminenti citazioni letterarie e teatrali: tutto ciò a significare, simbolicamente o di fatto, l’intimo parallelismo e connubio tra le formae mentis scientifico-tecniche e quelle, cosiddette, letterario-umanistiche.

Ieri c’è stato, nuovo e terribile flagello, il terremoto in Turchia e in Siria, con ripercussioni, notevoli e avvertibili, in molte altre aree del continente dell’Eurasia, Nord e Sud. Si contano già migliaia di morti. E allora viene spontaneo un elementare pensiero.

Rescue teams look for survivors under the rubble of a collapsed building after an earthquake in the regime-controlled northern Syrian city of Aleppo on February 6, 2023. – A 7.8-magnitude earthquake hit Turkey and Syria early on February 6, killing hundreds of people as they slept, levelling buildings and sending tremors that were felt as far away as the island of Cyprus, Egypt and Iraq. (Photo by AFP)

In una dimensione – planetaria – ormai così fragile e labile come quella che riguarda tutti i 7 o 8 miliardi di umani che popolano questa briciola infinitesima di frammento d’universo che è la Terra, alcuni di noi continuano a farsi guerra come nei secoli passati? Con armi che, oltre a uccidere, non possono certo far bene ai già precari equilibri del pianeta. Alle sue faglie già estremamente critiche.

SIamo come le foglie sugli alberi autunnali.

E acceleriamo i nostri autunni!

[Fabio Sommella, 06 febbraio 2023]

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Tra Attualità ed Eredità (Culturali): parallelismi nelle Memorie e Coscienze Collettive

In qualità di abbonato, io, a Repubblica Online, leggo la Prima Pagina, in NewsLetter, di Maurizio Molinari e – come da sempre mi accade fin da quando, allora poco più d’un ragazzino, leggevo il Messaggero che mio padre, alla sera, portava a casa – avverto un inevitabile capogiro di fronte alla varietà e all’imponenza, spesso funesta, delle notizie dell’attualità provenienti dal Mondo: “la svolta sull’invio dei carri armati per l’Ucraina”, con “il via libera definitivo della Camera italiana al decreto Ucraina” che “proroga al 31 dicembre 2023 la cessione da parte di Roma di materiali militari a Kiev”; “Il Bollettino degli scienziati atomici” secondo cui la “fine del mondo” è ora “ad appena 90 secondi dalla simbolica mezzanotte che indica il traguardo dei tempi”; la conferma dello “sciopero dei benzinai” per cui gli “impianti di rifornimento carburanti rimarranno per lo più chiusi – compresi i self service – per 48 ore consecutive”; la notizia che nei “giorni caldi della giustizia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella difende la magistratura finita nel mirino del ministro Carlo Nordio”; le “Acque agitate a Roma in Fratelli d’Italia“, per cui la “premier e leader commissaria la federazione cittadina scontrandosi con il suo vecchio mentore”; “la fenomenologia di Salvatore Baiardo”; il racconto de “l’Agnelli americano”, laddove – sottolinea il giornalista – “a vent’anni dalla sua morte, il ricordo di ‘Gianni’ – qui a New York nessuno lo chiama l’Avvocato – sia sempre vivo, affettuoso, nostalgico”; “le candidature per gli Oscar 2023” che “premiano il cinema delle grandi storie.”

Insomma: di fronte all’ampiezza e alla numerosità delle informazioni che ci sovrastano, la mente – il cervello? – non può che vacillare.

Sarà forse per questo che la mia mente, nella congerie di tali e tante notizie, imbocca una strada a latere, quasi in disparte, rifugiandosi – sorta di novello o perenne Elogio della Fuga di Henri Laborit – in una dimensione sovratemporale, di difesa.

Infatti il ventennale della morte di Giovanni Agnelli – il ricordo di ‘Gianni’, citato nella suddetta Prima Pagina – lascia affiorare nella mia memoria la dichiarazione in TV di un intervistato, presso il Lingotto di Torino, all’indomani del decesso dell’Avvocato; proprio in quell’occasione, qualcuno aveva sentenziato: “È morto l’ultimo Principe del Rinascimento!” Oggi non ritrovo la dichiarazione precisa ma solo qualcosa di similare, tra cui quanto riportato qui.

Altrove, viceversa e precisamente qui, trovo una decisa critica, indicata come erronea e fallace, a questa immagine “rinascimentale”, sorta di simbolico e contemporaneo AntiRinascimento.

Ma non è questo il punto, perché – stavolta senz’altro a ragione – mi viene subito in mente la dichiarazione di Nino Manfredi all’indomani della morte di Totò: “È morta l’ultima delle grandi maschere della commedia dell’arte”.

E allora penso a come e a quanto, il nostro comune sentire di persone della Modernità, o Post-Modernità, sia legato e agganciato strettamente – in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole, cullandone amorevolmente i criteri e i dettami comparativi – alle memorie storico-culturali: nei casi di Agnelli e Totò rispettivamente il Rinascimento, vero o presunto tale, e la Commedia dell’Arte, probabilmente più aderente alla comparazione proposta; ciò laddove le eredità, culturali, di queste fasi storiche, sebbene lontane e ultrasecolari, pur subliminalmente si dipanano nel tempo, continuandosi, perpetuandosi e giungendo fino alle nostre coscienze.

E infatti penso a quando personalmente, alcuni anni fa, ho ipotizzato un intimo – pur sotterraneo – nesso fra la rappresentazione della donna nella lirica due-trecentesca da una parte e, dall’altra, la rappresentazione della medesima in certa raffinata canzone d’autore.

Se gli esempi del parallelismo, vigente tra forme dell’attualità e forme artistico-culturali storiche, potrebbero essere ulteriori (ma ci fermiamo qui e le tralasciamo, almeno per ora 😊), va altresì rimarcato un semplice fatto: le nostre Coscienze Collettive, di moderni e/o post-moderni uomini del XX e del XXI, sono incontrovertibilmente e  intimamente connesse alle nostre Memorie Collettive Culturali, le prime facendo uso continuo, consapevole o meno, delle seconde.

E questo – a dispetto di ogni capogiro e vacillar della mente di fronte alla varietà e all’imponenza delle notizie dal Mondo, spesso funeste e ignobili – mi fa star inspiegabilmente bene, in qualche modo e misura lenendo il cruccio, il dolore, la paura; relativizzandoli, forse!

[Fabio Sommella, 25 gennaio 2023]

 

Le origini del nazismo: interpretazioni tra psicologia e storia.

In merito alla analisi psicologica delle origini del nazismo, come caso emblematico e fenomeno su larga scala di influenza sociale, la professoressa e ricercatrice Chiara Volpato fa riferimento a tre teorie psicosociali: la teoria del Conflitto Oggettivo di Sherif; quella dell’Identità Sociale di Tajfel; la teoria delle Rappresentazioni Sociali di Moscovici.

Secondo Sherif, 1961, discriminazione e atteggiamenti negativi deriverebbero dalla percezione di conflitti di interesse, quindi dipenderebbero da ragioni oggettive e realistiche. In tal senso Sherif sostiene che la proposta hitleriana avrebbe enfatizzato la presenza di conflitti di interessi tra Ebrei e Tedeschi, rafforzando così la percezione di incompatibilità degli obiettivi materiali.

Tajfel, 1981, afferma che la discriminazione e il favoritismo per l’ingroup derivano unicamente dal bisogno di valorizzare la propria identità sociale attraverso il confronto tra il proprio e altri gruppi. In base a ciò, quindi, la necessità di una propria identità sociale positiva, sottenderebbe i rapporti fra gruppi. Questa teoria non è in conflitto con quella di Sherif ma, semmai, le due sarebbero complementari.

La teoria delle rappresentazioni sociali di Moscovici, 1961, 1976 e 1989, afferma che le rappresentazioni sociali sarebbero grandi sistemi di valori, idee, pratiche le quali fornirebbero un ordine per l’orientamento sociale e faciliterebbero la comunicazione fra persone.  Per Moscovici sarebbe estremamente importante il concetto di ancoraggio, processo per il quale le nuove idee, che tentano di prendere piede nella società, si avvantaggerebbero proprio del loro ancoraggio, in tal modo superando eventuali resistenze, a vecchi schemi e vecchie idee. È in tal modo che si spiegherebbe il cosiddetto anti-tempismo hitleriano e il successo che tale anti-tempismo riscosse negli anni ’30, epoca in cui pressoché ogni famiglia tedesca possedeva una copia del testo di Hitler, testo che profondamente era entrato nel tessuto sociale tedesco svolgendo opera di profonda persuasione.

La teoria delle Rappresentazioni Sociali di Moscovici sostiene quindi che Hitler avrebbe ancorato i propri costrutti a schemi preesistenti, basati sull’antisemitismo e lo storico nazionalismo pangermanista. A riguardo di quest’ultimo è, pur brevemente,  indicativo quanto alla voce pangermanismo è riportato nella enciclopedia Treccani [http://www.treccani.it/enciclopedia/pangermanismo/]: “Movimento il cui scopo era l’unificazione di tutte le genti di lingua tedesca. Sin dal 1848 era sorto nel Parlamento di Francoforte un contrasto sulla soluzione da dare al problema unitario fra i Piccoli Tedeschi (Kleinedeutsche), che auspicavano l’unificazione sotto la direzione della Prussia con l’esclusione dei Tedeschi soggetti all’Impero asburgico, e i Grandi Tedeschi (Grossdeutsche), che volevano l’unificazione sotto la guida degli Asburgo. Uscito sconfitto, il programma grande-tedesco rinacque verso la fine del 19° sec. con la costituzione dell’Alldeutscher Verband e dell’Alldeutsche Vereinigung contro le minoranze alloglotte nell’Impero tedesco e austriaco. Si ebbe anche un p. dottrinale e razzista che dalla proclamazione dell’ineguaglianza delle razze giungeva alla esaltazione di un’unica razza, pura e perfetta, nella quale si volle identificare quella germanica. Antesignani di tale dottrina furono il conte J.-A. de Gobineau e H.S. Chamberlain. Delle loro idee si nutrirono il nazionalsocialismo e il suo teorico A. Rosenberg.

Un connubio, solo in parte contrastante e contraddittorio e per molti versi unificante e anticipante le tre teorie, si può leggere anche nella interpretazione che, della psicologia nazista e delle sue origini, nel 1941 aveva dato Erich Fromm (1900-1980) all’interno del suo testo, cardine anche per tutta la sua successiva produzione, Fuga dalla libertà. Questo testo, incentrato sulla conformistica rinuncia dell’uomo moderno alle proprie responsabilità morali e sociali,  si pone come linea di demarcazione tra  la produzione del Fromm giovanile e quello della maturità. Formatosi intellettualmente sulla triade Talmud – Marx – Freud, integrata dai contributi della Scuola di Francoforte,  Fromm in Sul metodo e il compito di una psicologia socio-analitica del 1932 “approfondisce il nesso fra struttura istintuale e struttura economica” [Erich Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, 1983, pp. 250-251].

Senza pretendere, in questa sede, di ripercorrere tutta l’articolata e profonda argomentazione che Fromm in Fuga dalla libertà formula relativamente alla psicologia del nazismo (si fa qui riferimento alle pp. 181-206 dell’edizione del 1981 pubblicata da Edizioni di Comunità), si riportano alcuni estratti ritenuti salienti e a cui seguirà un tentativo di sintesi e connessione anche con le tre teorie di Sherif, Tajfel e Moscovici.

Il nazismo è un problema psicologico, ma anche i fattori psicologici vengono influenzati dai fattori socio-economici; il nazismo è un problema economico-politico ma la sua presa su un popolo intero dev’essere spiegata dal punto di vista psicologico” [p. 182]

“… ad aggravare la situazione intervennero, oltre a questi fattori economici, dei fattori psicologici. La sconfitta bellica e il crollo della monarchia furono una prima ragione didisorientamento psicologico. La monarchia e lo stato erano stati la solida roccia su cui, psicologicamente parlando, il piccolo borghese aveva costruito la sua esistenza; …  ” [p. 187]

La sconfitta nazionale e il trattato di Versailles divennero i simboli su cui si trasferì la frustrazione reale, che era quella sociale. Si è detto spesso che il trattamento fatto alla Germania nel 1918 dai vincitori è stato una delle ragioni principali dell’affermazione del nazismo. Questo giudizio richiede dei chiarimenti. (…) Il risentimento contro il trattato aveva le sue radici nella classe media inferiore; il risentimento nazionalistico era una razionalizzazione, che proiettava l’inferiorità sociale sul piano nazionale.

Questa proiezione è del tutto evidente nella vicenda personale di Hitler. Egli era il tipico rappresentante della classe media inferiore. Una nullità senza prospettive o possibilità.” [p. 189]

Queste condizioni psicologiche non sono state la «causa» del nazismo. Hanno assicurato quella base umana senza la quale esso non avrebbe potuto svilupparsi,ma l’analisi dell’intero fenomeno dell’ascesa e della vittoria del nazismo deve occuparsi delle condizioni strettamente economiche  e politiche oltre che  di quelle psicologiche.” [p. 190]

Il nazismo ha risuscitato la classe media inferiore psicologicamente, mentre procedeva alla distruzione della sua  precedente situazione socio-economica” [. 192]

… la personalità di Hitler, i suoi insegnamenti e il sistema nazista esprimono in forma esasperata la struttura di carattere che abbiamo definito «autoritaria»” e “proprio per questo fatto egli ha esercitato una potente attrattiva su quei settori della popolazione che più o meno avevano la stessa struttura di carattere” (…) “L’essenza del carattere autoritario è stata descritta come la simultanea presenza diimpulsi sadici e masochistici. Per sadismo abbiamo inteso l’aspirazione ad un potere illimitato su un’altra persona, più o meno commisto alla distruttività; per  masochismo, l’impulso a dissolversi in un potere irresistibile e a partecipare della sua forza e della sua gloria. Entrambe le tendenze si ricollegano all’incapacità dell’individuo isolato di reggersi da solo, e al suo bisogno di un rapporto simbiotico che vinca questa solitudine.” [p. 193]

“… non è stata solo l’ideologia nazista a soddisfare la classe media inferiore; la politica ha realizzato in pratica ciò che l’ideologia prometteva. È stata creata una gerarchia in cui ognuno ha sopra di sé qualcuno a cui sottomettersi, e ha sotto di sé qualcuno verso cui sentirsi potente; colui che sta in cima, il capo, ha il Destino, la Storia, la Natura sopra di sé come potere in cui sommergersi. Perciò l’ideologia e la prassi nazista soddisfano i desideri che scaturiscono dalla struttura di carattere di una parte della popolazione, e danno un indirizzo e orientamento a quelli che, pur non provando piacere a dominare e a sottomettersi, si erano rassegnati  e avevano rinunciato alla fede nella vita, nelle proprie decisioni, in tutto. ” [pp. 204-205]

La fuga nella simbiosi può alleviare per un po’ la sofferenza, ma non la elimina. La storia dell’umanità è la storia dello sviluppo dell’individuazione ma è anche la storia dello sviluppo della libertà. L’aspirazione alla libertà non è una forza metafisica, e non si può spiegarla con la legge naturale; è il risultato necessario del processo di individuazione e dello sviluppo della civiltà. ” [p. 206]

Cercando di sintetizzare quanto estratto dal pensiero di Fromm in merito alla psicologia nazista, tenendo comunque ben salde le radici e motivazioni storico-economiche, si deve dire che simbiosi si pone come antitesi a libertà e che quest’ultima si affianca parallelamente all’individuazione già junghiana; e che, come nello psicologo svizzero vigeva la dialettica estroversione-introversione, nello psicologo di Francoforte vigeva la dialettica, cruciale per l’origine del nazismo e dell’influenza sociale di Hitler, contingente alle fasi storiche di celebrazione dello spirito identitario pangermanista, sadismo-masochismo, nelle chiarissime accezioni che Fromm formula.

A questo punto l’aderenza del pensiero di Sherif, di Tajfel e Moscovici, pertinentemente alle origini psicologiche del nazismo, non appare lontana da quella, pur certamente qui espressa in modo più strutturato, di Fromm. La “percezione di conflitti di interesse”, indicata da Sherif, è ovviamente presente già in Fromm; così come il “bisogno di valorizzare la propria identità sociale attraverso il confronto tra il proprio e altri gruppi”, trova ampio spazio nelle argomentazioni, pure ripetute da Fromm e che qui sono state omesse per ovvi motivi di spazio, che Hitler compie relativamente a tedeschi, ebrei, ecc. .

Probabilmente è rispetto alle rappresentazioni sociali di Moscovici che il pensiero frommiano può apparire, e probabilmente sostanzialmente è, antitetico: laddove infatti Moscovici pone l’accento sul processo di ancoraggio (processo, in sé, in molti casi sicuramente fondato e fondante) allo “storico nazionalismo pangermanista”, di cui pur rapidamente si è cercato di sottolineare l’ampia portata sovra-secolare (essendo ascrivibile almeno alla seconda metà del XVIII secolo con la costituzione della Prussia in stato nazionale e proseguito poi con sempre più ampie trasformazioni e capovolgimenti fino alla Grande Guerra), Fromm viceversa stigmatizza come e quanto il “risentimento contro il trattato aveva le sue radici nella classe media inferiore”, quanto “il risentimento nazionalistico” in realtà fosse “una razionalizzazione, che proiettava l’inferiorità sociale sul piano nazionale”, laddove Hitler, secondo Fromm, “era il tipico rappresentante della classe media inferiore”; pertanto, in realtà nell’ottica di Fromm, se un qualche ancoraggio a vecchie idee di “nazionalismo pangermanista” Hitler avrebbe attuato, ciò sarebbe avvenuto non sulla scia delle medesime ma in maniera storicamente contingente e di comodo, il nazismo avendo sfruttato il proprio nulla identitario nonché la dialettica sado-maso dell’autoritarismo e della fuga nella simbiosi, tutti elementi antitetici alla libertà, alla individuazione e alla civiltà.

[Fabio Sommella, 26 luglio 2015]

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Psicologia sociale e vita: appunti dell’ultima intervista a Erich Fromm

Premessa

Anche in questi giorni del 2022, come già quando ho raccolto questi appunti nel luglio 2015, in cui tragedie nonché stucchevoli e misere celebrazioni di effimero potere occupano – in molti luoghi del mondo – le cronache dei media, forse può fare piacere (a me ha rasserenato) riflettere, pur molto sommariamente,  sui temi del pensiero di uno degli indubbiamente maggiori Maestri del’900, temi raccolti nel corso della citata intervista, probabilmente l’ultima della sua vita.

NB: naturalmente sono responsabile di ogni eventuale imprecisione o errore interpretativo della magnifica intervista!

[Fabio Sommella, 03 novembre 2022]

Erich Fromm

Appunti dall’intervista

Erich Fromm, nato nel 1900 e morto nel 1980, era divenuto psicanalista nel 1925 perché era figlio di una famiglia nevrotica e avvertiva, egli stesso, di avere vari problemi. Non si considerava un filosofo, non si sentiva uno specialista in molti campi; bensì una persona che aveva maturato delle conoscenze, anche imperfette e incomplete, ma in modo  tale che solo la “combinazione di tutti questi fattori …”

Magnifiche, nell’intervista, le sue pause, prolungate, prima di iniziare a rispondere. Mi piace pensare che queste (personalmente ne sono persuaso!) non dipendessero solamente dall’attesa per la traduzione in tedesco, di quanto formulato dal giornalista italiano; bensì rispecchiassero il suo stile  di vita, lo stile di chi ascolta e pondera prima di fornire una risposta, evitando la fretta; così, come la dolcezza profonda del suo sguardo, rispecchiavano il Nathan che Egli era, prima ancora d’essere un Maestro di pensiero. Solo in un’occasione, nel corso dell’intervista, Fromm interrompe deliberatamente il giornalista: ciò avviene quando quest’ultimo rievoca una tragica vicenda della giovinezza di Fromm, pertinente al suicidio di una giovane donna. In un’altra occasione, quando si parla di affetti personali, si vede Fromm che “corre”, con la propria mano (come per “soccorso”), ad afferrare quasi (ma poi rinuncia) la tazza (di pregevole fattura) di tè, o altra bevanda, che egli sorseggiava, di tanto in tanto, durante l’intervista.

Fromm consigliava di leggere Il matriarcato, di Bachofen, testimonianza, negata dalla cultura a lui contemporanea, di un’epoca e un luogo in cui avesse socialmente dominato la donna; ma non la donna “mascolinizzata”, come quella della sua (nonché attuale) contemporaneità, bensì la donna pienamente “femminile”. [NdR: anche l’antropologia culturale, dei primi decenni del 2000, decisamente nega l’esistenza, effettiva e reale, di fasi storiche dominate dal matriarcato, questo inteso nell’accezione di Bachofen e Fromm. Penso valga la pena cercare di leggere l’opera citata di Bachofen, al fine di verificare la veridicità, o fallacia, delle sue teorie!]

L’Umanesimo Socialista, di Erich Fromm, ha l’obiettivo dello sviluppo ottimale  dell’uomo e della sua libertà. Fromm afferma che l’URSS, del suo tempo, fosse enormemente distante dal genuino pensiero di Marx e che, quest’ultimo, fosse stato di fatto bandito dalla società sovietica.

Fromm non reputava essenziale “seguire una religione” quanto, piuttosto, “vivere religiosamente”. Se avesse dovuto dire quale fosse la sua religione, avrebbe indicato il Buddismo: ma erano comunque troppe le differenze  culturali.

Se avesse dovuto indicare delle letture, avrebbe consigliato la Bibbia, Marx, Tommaso D’Aquino.

Egli non si ritenne mai un uomo che avesse attuato un effettivo impegno politico: riteneva di non averne le capacità, sentendosi e definendosi un teorico; ciò a parte le attività pacifiste o i temporanei appoggi ai movimenti per il disarmo nucleare.

Le distanze prese, nel tempo, dai suoi colleghi docenti della storica Scuola di Francoforte (Horkeimer e l’involuzione borghese, da Fromm indicata; Marcuse e il suo aspirato ritorno alla dimensione infantile, piuttosto che la crescita indicata da Fromm; anche Adorno, in qualche misura), sono testimonianza delle divergenze intercorse e avvenute nel loro pensiero, malgrado le vicinanze nei primi anni ’30, prima dell’avvento del nazismo.

Fromm si emoziona alla domanda su Freud, per il legame che lo legava all’anziano maestro: ma risponde che l’uomo di Freud è “un uomo senza amore” e che solo nell’ultima fase del suo pensiero, con la polarità di amore e morte, Freud  modifica la sua concezione.

Fromm giudica Groddeck il maggior psicanalista dopo Freud: di Groddeck ammirava la praticità, l’originalità, l’eleganza e gentilezza dello stile e del pensiero.

La malattia dell’uomo moderno, nonché della moderna società capitalistica, è considerare il profitto (economico/finanziario) il giusto metro del comportamento razionale. Fromm racconta (ma ciò è anche scritto in vari suoi testi) che, fin da bambino, pur essendo figlio di ebrei commercianti (da varie generazioni, molti rabbini), si chiedesse come potessero, tanti uomini, considerare la loro unica finalità, nella vita, quella di guadagnare denaro, guadagnarne il più possibile. Egli, fin da giovane, aveva dedicato la mattina di ogni giorno ad attività creative, non lucrative [Lo so: qualcuno dirà “problemi da ricchi!”]; la psicanalisi coi pazienti la svolgeva nelle ore pomeridiane. A riguardo, in tal senso, compie una profonda considerazione critica sui manager delle moderne aziende.

Infine, suscitando indubbia ilarità, racconta che un suo anziano parente (un nonno, mi pare fosse), persona estremamente colta, leggesse continuamente libri nella sua bottega di commerciante a Monaco di baviera; le letture per il suo anziano parente erano talmente importanti che, quando qualche avventore entrava nel suo negozio, questi lo trattasse male perché si sentiva interrotto nei suoi studi e che pertanto, in modo estremamente seccato, domandasse “Ma non avete un altro negozio in cui andare?”.

Le domande fondamentali, di Erich Fromm [e qui, esulando dall’intervista, mi riferisco a quanto presente in vari suoi testi], erano quale fosse il senso della vita e cosa ne faremmo, delle nostre vite, se non ci fossero problemi sociali ed economici!

[Fabio Sommella, Luglio 2015]

Da http://www.uninettunouniversity.net/it/cyberspazioforumnew.aspx?g=posts&m=51190#post51190

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Psicologia sociale e arte: le minoranze come dissonanze sociali (tra psicologia e composizione musicale)

In Psicologia Sociale la dissonanza cognitiva, che fu teorizzata da Leon Festinger,  svolge per la psiche un affascinante ruolo di ricerca di stabilità che, consciamente o inconsciamente o, ancora, per rimozione o per dissociazione, operiamo al fine di sottrarci all’ostinato, o naturale, cambiamento del nostro agire o sentire, con la probabile finalità di mantenimento o evoluzione del nostro Sé in un possibile stato di equilibrio e anelata coerenza.

La dissonanza cognitiva può esser paragonata alla dissonanza in altri ambiti di conoscenza, specificamente quello musicale per il quale, il compositore e maestro Roman Vlad, sosteneva che essa fosse “motore dell’evoluzione musicale”.

A tutto ciò si affianca, stavolta in ambito squisitamente di psicologia sociale, il ruolo che, secondo Serge Moscovici, le minoranze svolgono nell’evoluzione sociale. L’evoluzione costante è, a parere di Moscovici, dovuta soprattutto all’influenza delle minoranze, da principio inascoltate e dissidenti, poi incidenti nell’evoluzione sociale.

Mi sembra possa avere importanza rimarcare che le minoranze, indicate da Serge Moscovici, svolgono un ruolo nel sociale analogo a quello che la dissonanza svolge nella cognizione; e che di nuovo, a questo punto, si potrebbe stilare anche una seconda proporzione: le minoranze stanno alla costante evoluzione sociale come la dissonanza, stavolta armonico-melodica indicata da Roman Vlad , sta nuovamente all’evoluzione musicale.

Pertanto potremmo dire che, decisamente, siano le note stonate, o quelle che in certe fasi storiche appaiono tali, – tanto socialmente quanto cognitivamente, quanto ancora musicalmente – a fornire energia al motore evolutivo in ogni ambito.

In questo scenario “gnoseologico”, forse non è marginale osservare che Festinger, pur nato a New York, era figlio di immigrati ebrei russi; Moscovici e Vlad erano entrambi romeni, il primo naturalizzato francese e il secondo naturalizzato italiano. Inoltre Festinger e Vlad erano entrambi del 1919 mentre Moscovici, poco più giovane, del 1925. Tutto ciò lascia intuire un similare analogo fervore intellettuale e culturale, epocale, originantesi dall’Europa dell’Est, macro-area per certi versi “minoritaria e dissonante”.

[Fabio Sommella, 03 novembre 2022, (rieditato da versione originaria del 1 giugno 2015, Stereotipi, Tajfel, Fromm – Dagli stereotipi all’Amore per la vita)]

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Psicologia sociale: gli stereotipi negli approcci di due grandi pensatori

Gli stereotipi spesso assolvono la funzione di giustificare uno stato di disuguaglianza tra gruppi sociali, stato di disuguaglianza che in tal modo si contribuirebbe a mantenere costante nel tempo.

Ciò risulta evidente anche prendendo in considerazione i due elementi cardine della Teoria dell’identità sociale di Henry Tajfel, teoria secondo la quale, nei gruppi sociali e più in generale nelle  collettività umane, ciascun membro tenderebbe a differenziarsi dagli altri, favorendo inoltre in modo inevitabile il proprio ingroup. Sarebbe questo un meccanismo abbastanza ampio e universalmente diffuso.

Leggendo queste tutt’altro che improbabili e certamente attuali evidenze sociali – a tal fine basta confrontarsi con la Storia e con l’Attualità – non possono tuttavia non riemergere, nella mente di chi legge, le argomentazioni che, un altro autore senza dubbio di rilievo nell’ambito del pensiero sociale del XX secolo,  quale fu Erich Fromm, ha riportato a più riprese in vari suoi scritti, specie dell’ultimo periodo (anni ’70).

Rammento infatti come in un suo testo, appartenente alle raccolte de L’amore per la vita o a La disobbedienza e altri saggi, Fromm sottolineasse la grande difficoltà di ogni essere umano di essere accogliente e solidale con lo straniero, ovvero verso e nei confronti di colui che non ha alcun elemento in comune, con noi o con il nostro gruppo di appartenenza.

Mi piace concludere con un paio di estratti da un altro importante testo, seppure precedente (1956), sempre dello psicologo di Francoforte: L’arte di amare. L’estratto che riporto è ovviamente in linea col concetto che ho espresso sopra e, in larga misura, lo comprende nonché lo anticipa, abbracciandolo e collocandolo in un contesto certamente più ampio.

«L’amore per una persona implica l’amore per l’uomo come tale. La “divisione del lavoro”, come William James la chiama, per cui un uomo ama la famiglia ma non sente niente per lo “straniero”, è sintomo d’incapacità d’amare. L’amore dell’uomo non è, come generalmente si crede, un’astrazione che viene dopo l’amore per una specifica persona, ma è la sua premessa, sebbene geneticamente la si acquista amando specifici individui.» [Erich Fromm, L’arte d’amare, Il Saggiatore, Ottobre 1980, pp. 77-78 ]

«Non esiste “scissione” tra l’amore per la propria gente e l’amore per lo straniero. Al contrario, la condizione per l’esistenza del primo è l’esistenza del secondo. Accettare questo principio significa apportare un cambiamento radicale nei propri rapporti umani. Mentre per la maggior parte della gente l’amore per il prossimo non è altro che ipocrisia, i nostri rapporti devono basarsi sul principio della sincerità. Sincerità significa non servirsi della frode e dell’usura nello scambio della merce e dei sentimenti. “Io ti do quanto tu mi dai”, in beni materiali come in amore, è la prevalente massima etica della società capitalistica.» [Erich Fromm, L’arte d’amare, Il Saggiatore, Ottobre 1980, p. 161]

Un attestato che certamente esula dalle pertinenze strettamente scientifiche della psicologia sociale ma che risulta un attualissimo monito di speranza, da parte di un Maestro del ‘900, “Affinché l’uomo prevalga”! J

[Fabio Sommella, 03 novembre 2022, (rieditato da versione originaria del 1 giugno 2015, Stereotipi, Tajfel, Fromm – Dagli stereotipi all’Amore per la vita)]

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