Cosa si intende per patrimonio immateriale?

Il termine “patrimonio immateriale”, in ambito culturale, è un’acquisizione abbastanza recente, maturatosi ufficialmente negli ultimi decenni del secolo/millennio scorso (di fatto, più o meno contemporaneamente anche al concetto di “Biologia Teorica”, che in precedenza era inesistente essendo, ad esempio negli anni ’70-’80, la biologia da interpretarsi unicamente ed eminentemente in chiave sperimentale; ciò segno, inequivocabile, di come almeno in certi ambiti le culture, tanto l’arte quanto la scienza, a fine millennio siano state scosse e sottoposte a nuove ardite sollecitazioni intellettuali).

L’acquisizione indicata riflette tuttavia un’esigenza probabilmente già serpeggiante nei decenni precedenti e di fatto solamente consolidatasi sul finire del ‘900. L’esigenza era già avvertita in quanto densi di presenze e contributi erano indubbiamente molti patrimoni artistici popolari, spesso definiti “etnici”, che non avevano ancora usufruito di riconoscimenti di rango compatibile con le forme classiche e accademiche; si pensi alla musica appunto popolare, come il canto a tenore sardo, rispetto a quella classica, o ad altre forme di arte non codificata nelle modalità canoniche o magari tramandata per tradizione orale, come ad esempio quella teatrale appartenente alle migliori genuine tradizioni dei pupari siciliani.

Specificando che col termine “patrimonio immateriale” si intende l’insieme dei beni culturali di indubbia rilevanza artistica che tuttavia non presentano un necessario e indispensabile corrispettivo nella fisicità materiale, quali viceversa hanno le più tradizionali arti plastiche o grafiche, come l’architettura,   la scultura, la pittura, o anche le arti visive o non visive codificate; all’interno dei beni culturali che competono al patrimonio immateriale vengono catalogate le tradizioni, le conoscenze, le usanze, nonché i rituali, i canti, le musiche, i testi non necessariamente formalizzate/i secondo modalità tangibili o scritte.

Il procedere di un processo storico, in Italia ma sicuramente appartenente al più ampio contesto internazionale, era visibile nelle progressive trasformazioni delle terminologie che attenevano agli oggetti dell’arte: da semplici, nonché grossolane da un punto di vista lessicale, “cose” culturali riferite nella prima metà del ‘900, si era passati ai “beni” culturali nella seconda metà, per giungere appunto al concetto, comprendente tanto la materialità che l’immaterialità/astrattezza, di “patrimonio” culturale; pertanto un continuo e inarrestabile allargamento dell’orizzonte che voleva comprendere, nel suo tutto, le testimonianze di civiltà dell’umanità. La Convenzione UNESCO del 2003, che ha stabilito e ufficializzato la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, è stato il momento di chiusura di un processo secolare, nonché ovviamente di apertura di ulteriori strade.

Leggendo le analisi e le prospettive, curate da Chiara Bortolotto relative proprio al patrimonio immateriale secondo l’UNESCO, non si è potuto fare a meno di riflettere ulteriormente sul percorso semantico già citato sopra: la partenza storica dalle generiche e tangibili “Cose culturali”, menzionate ad esempio nella monumentale legge italiana 1089/1939 (ma che avevano radici secolari); il passaggio attraverso i “Beni culturali”, di cui sempre in Italia si tratta nelle altrettanto storiche Commissioni Franceschini e Papaldo rispettivamente degli anni 1963 e 1968; il saldo orientamento finale verso l’evocativo quanto indicativo concetto di “Patrimonio culturale”.

Ciò che già si è sottolineato altrove, è che se la Cultura, intesa nell’accezione più ampia e generale possibile come eterogeneo e multiforme sistema di ordini di idee, credenze, usanze e tecniche umane volte a favorire e facilitare la comprensione nonché la possibile gestione del mondo, rappresenta una speranza per l’umanità tutta in una vita migliore, coerentemente ai presupposti su cui nel 1945 è nato l’UNESCO tra i cui obiettivi c’è la pace nell’animo degli uomini (sorta della già citata “Pacem in terris” dei giornalisti De Fornari / De Antoni), allora nel suddetto e faticoso passaggio da “Cose” a “Beni” a “Patrimonio” si evidenzia una altrettanto tangibile e non immateriale speranza, seppure apparentemente labile, per un contingente e futuro processo culturale, capillare e planetario attuabile attraverso la “Noosfera” di Teilhard de Chardin: che malgrado la frammentazione in cui versano il pianeta e i suoi abitanti, soggiacenti a necessità mediate dalle “controculture” dei poteri forti delle multinazionali e delle finanze, tale processo culturale si possa far veicolo di nuovi aggreganti miglioramenti negli stili di vita societari, a dispetto di qualsiasi disgregazione, isolamento, soggettività esasperata, globalizzazione o nomadismo contemporaneo, pur nelle difficoltà delle dislocazioni, dei meticciati e delle contaminazioni culturali. Il patrimonio immateriale, solo apparentemente da intendersi come “vuoti a perdere”, è viceversa da salvaguardare in termini di stili di vita, “lessico, abitudini, modi di relazionarsi, ospitalità”, in perenne e autentica autorigenerazione.

Come dire che se per l’uomo contemporaneo esiste una speranza, che vada oltre le stolide logiche del profitto e dell’avidità (a questo punto da intendere come prodotti culturali piuttosto che come forze naturali!) fine a se stesse come obiettivi dell’esistenza, essa vige nella trasmissibile salvaguardia invece che nella semplice protezione, nell’esperienza rigeneratrice delle attività umane piuttosto che nella pura perpetuazione e conservazione della materia, sia essa un’opera d’arte, beni materiali, risorse o denaro. Gli esempi provenienti anche dalla conoscenza delle altre culture, del “diverso da sé”, ci aprono ulteriori scenari: che sia la tradizione di demolizione/ricostruzione del tempio scintoista, tesa a perpetuare la forma piuttosto che la materia, o quella dei pupari siciliani o dei canti a tenore sardi, l’atto creativo che ne è alla radice non è dissimile da quello che ha dato luogo alla grandezza delle intuizioni e realizzazioni di Dante o Michelangelo o Tolstoj. E in ciò gli approcci trasversali e olistici dell’antropologia culturale, con la sua molteplicità di paradigmi al contempo forza e debolezza della disciplina, hanno un ruolo di guida.