L’umana e non cattiva coscienza del dare la vita

Volendo da subito smorzare l’inclemente e provocatoria forza del titolo – Cattiva, romanzo di Rossella Milone, edito da Einaudi nel 2018 – va detto che il personaggio di Emilia, istanza narrante nonché protagonista, non risulta propriamente cattiva quanto, più verosimilmente, solo profondamente umana.

Emilia è una comune trentenne, sufficientemente acculturata che – emerge, col procedere della narrazione – per professione conduce i turisti a scoprire le bellezze dei siti archeologici dell’hinterland napoletano. Quest’ultimo, come tutta la vicenda a cui la protagonista dà voce in prima persona, è descritto con toni sempre asciutti ed essenziali, con un linguaggio quotidiano che conferisce allo stile della narratrice proprio i suoi peculiari colori, struggenti, financo lirici.

Ma Emilia, come quasi tutte le giovani donne, è da subito pure una sorta di trasecolata novizia rispetto all’esperienza della gravidanza, del parto e della maternità, del prima, del durante e del dopo; esperienza questa sì vissuta e raccontata in modo forte, estremo, efferato… ma in fondo così naturale, come l’arte primitiva della sopravvivenza. Ed è forse proprio grazie a questa indicata sorta di noviziato che il breve romanzo – in termini di asciuttezza ed essenzialità di stile, pur nella grande diversità di vicenda e ambientazione – riecheggia e richiama le esperienze umane di Ida, 2013, film di Paweł Pawlikowski.

Tutta la storia di Emilia viene narrata secondo tre assi direzionali: il prima lontano, pertinente al pregresso di Emilia e della sua famiglia; il prima immediato, pertinente al parto; il dopo, pertinente ai primi tempi della maternità. Ciò avviene in un continuo caleidoscopico ribaltamento dei piani temporali, continui salti, inserti e spaccati di vita che, a tratti, possono far ricordare quelli ultradecennali dell’Underworld di Don DeLillo. Senza però la pretesa dei vertiginosi scambi narrativi epocali operati dallo scrittore americano, in Cattiva le vicende della coscienza della protagonista, percorrendo questi tre assi, si approssimano progressivamente al punto di convergenza: il parto propriamente detto. Questo si scinde poi in due attimi: il durante – notevolmente dilatato, in un tempo di coscienza bergsoniano che apre alle infinite sollecitazioni dell’esistenza, del dolore, della Storia – e l’immediato dopo, con finalmente serene e rasserenanti immaginette familiari. È qui che si ha un climax, un acme, la coscienza del momento di nascita altrui – prole – e rinascita di sé stessi – Emilia, il marito Vincenzo… – e del conoscere ciò che, in precedenza, per molti versi era ancora indistinto da sé.

In questo narrare, la costante è sempre la splendida voce autoriale di Rossella Milone, voce di cui solo i grandi scrittori possono disporre. L’autrice disegna immagini evocative di estremo impatto e rara intensità, pur nella loro apparente consuetudine; situazioni universali eppur nuove che lasciano scoprire altro al lettore, quasi anch’egli fosse un turista dei siti archeologici dell’hinterland napoletano. Perché, analogamente a quanto avviene in molti film di Tarantino, la Milone è in grado di raccogliere un ordinario e apparentemente ininfluente dettaglio quotidiano e allargarlo, ampliarlo e sviscerarlo, ricreando o ricuperando, da quel grumo iniziale, un mondo di significati sottaciuti, inespressi, perduti nell’alveo del comune vivere. Non ultima, il lettore avverte affiorare la propria, e quella dei propri affetti, più intima esperienza, la coscienza, biologica e cerebrale, della trasformazione che la gravidanza e la maternità imprimono alle nostre vite.

Attraverso la vividezza di tutti i personaggi – Emilia stessa, il marito Vincenzo, il fratello Daniele, la madre e il padre, la vicina signora Gargiulo, la vaiassa ostetrica Ilaria, il restante personale ospedaliero, la salumiera, i barboni… la nascitura Lucia – noi lettori, si sia madri o padri o figli (ciò non importa), usciamo dall’esperienza di lettura di Cattiva con la consapevolezza – mediata dalla soggettiva prosa narrativa e non dalla oggettiva semplice embriologia – del mutamento che, l’infinità di quegli attimi di parto, provocano irreversibilmente sulle nostre coscienze e identità: ciò che prima era unità e dipendenza, pur sempre più duplice nel suo itinere, diviene infine duplicità piena e autonomia in fieri: “In quel tocco c’era la compiutezza né di me né di lei, ma di un noi, ché io e lei già eravamo due cose diverse, due persone diverse che stavano per conoscersi.” [pp. 87-88]

A latere, il romanzo è anche un’esortazione – quanto sommessa? – a una fiducia decisamente non cattiva bensì umana: “Mia figlia deve sapere che noi siamo quello, che noi siamo uno dentro l’altra, e lei è già sola, come lo sono io con lei, come lo è Vincenzo con me, ma ci sono modi, a volte, ci sono i mezzi per entrare nelle persone e non restare soli.” [p. 67]

Il progetto di arrivo e ripartenza, di cui tutto il romanzo Cattiva è intimamente intriso, coagula nelle parole che quasi concludono il romanzo: “L’espressione che ha Lucia ora non è né mia né di Vincenzo, e questa cosa solo sua è una profezia. È da qui che posso ripartire, da questa immensità. Dalle cose solo sue che devo scoprire per poi farle rimanere solo sue.” [p. 92] È proprio in questo auspicato e ricercato senso d’immensità che anche il lettore, che ha accompagnato Emilia nel suo travaglio e nelle sue peregrinazioni, può e deve avere fiducia: nei “mezzi per entrare nelle persone e non restare soli.”

[Fabio Sommella, 12-14 aprile 2019]

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