Un cinema perfetto senz’anima: ovvero Mank di David Fincher – Dicembre 2020

Grande opera filmica calligrafica, in stile.  Sontuoso preannuncio di ciò, da subito, appare la sequenza iniziale: una magnifica panoramica orizzontale d’un corteo di auto che si muove da destra a sinistra; ciò quasi a confermare, se ce ne fosse necessità, che lo spettatore sta per esser  catapultato nel cinema classico hollywoodiano, pur rivisitato ottanta o novant’anni dopo, e pertanto tutti i principi del montaggio canonico saranno ritrovati di seguito.

Il protagonista – Herman  J. Manckiewicz, rappresentato come al solito  ottimamente da Gary Oldman  – si cala molto bene in questo tessuto e in queste impalcature. Egli si muove in modo monolitico per tutta la vicenda, tanto nel portamento che nel parlare, malgrado gli eccessi e i perenni alti e bassi esistenziali. È, questo personaggio reso  invecchiato fin da giovane non solo nelle fattezze ma anche nella voce e nell’eloquio, sempre alla ricerca del motto e della provocazione. All’interno di due alternati scorci temporali – anni ’30 e anni ’40 – si  confronta in maniera vana ed esasperata con un cinema a sua volta ora vecchio (Thalberg, Mayer) e ora nuovo (Welles, il fratello Joseph L.); tuttavia non riesce mai a schierarsi, a prendere una vera e propria parte, ad assumere una reale posizione. Non è un rivoluzionario – bella la vicenda concernente Upton Sinclair, che il protagonista in qualche modo e misura condivide – ma  più semplicemente uno stolido ribelle, un Mister No che rifiuta il sistema sempre in maniera eclatante, affogando il proprio scontento egocentrico anarchismo, privo di autentiche valenze sociopolitiche,  nel naufragio alcolico.

David Fincher – riprendendo  un progetto sceneggiato dal padre Jack – si  conferma abile costruttore di suggestive sequenze filmiche che scorrono in un alveo di grande e indubbia classe ma prive di qualsiasi empatia ed emozione, viceversa ricche di algida impersonalità. Un mondo convulso e incerto, ovviamente, la Hollywood e l’America dei ’30 e ’40, ma il sontuoso apparato produttivo e scenico, pur al servizio di una grande prova d’autore, sono esercizio di stile. Ottimo per gli esteti del cinema, per i cultori dei film verità che scandagliano, scindono, deturpano chirurgicamente senza tuttavia far vibrare mai. Film per puristi, che ha scopo di stupire e fare sfoggio di sé stesso, come – pur  se diversi e fatte le debite differenze – lo furono già  Seven e L’amore bugiardo; ovvero: senza toccare corda alcuna dello spettatore fuor dell’effetto raffinato, senza mostrare e trovare mai un’anima autenticamente genuina; del resto come il protagonista di questo film.

Una volontà? Forse, probabilmente dei sistemi produttivi attuali dominanti che avvertono il polso del pubblico, da catapultare nei meandri – pur scevri di apparenti nostalgie – della  storia del cinema occidentale per mostrargli presunte verità nascoste.

Un pregio del nuovo cinema? Dubitiamo. Al di là della bravura degli attori, della stazza appunto monolitica realizzata da Gary Oldman, della macchina produttiva sfarzosa, crediamo che – a  meno di scelte direzionali sociopolitiche deliberate – anche il cinema, per quanto formalmente perfetto, si dovrebbe far carico delle istanze post-postmoderne,  ovvero dell’auspicato   NeoModernismo, che necessita di altre più autentiche espressioni, artistiche e critiche; se non altro di maggior genuinità, specie in un clima culturale – purtroppo  o per fortuna – tuttora sempre più globalizzato.

[Fabio Sommella, 5-11 dicembre 2020]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Dallo stipo all’anima

Si era alzato dal divano. Stare coricato a leggere lo aveva ristorato dal suo stato influenzale che da due giorni lo aveva assalito; e adesso iniziava a smorzarsi. Si scioglieva, stemperava come un disgelo, che lui avvertiva improvviso. Ma, come sempre, in questi casi gli mancava lei.

Si aggirava per le stanze alla ricerca di qualcosa. Ma sapeva che era “qualcuno”, l’assenza: era lei. Perché il rapporto con la tua compagna è il rapporto più completo dell’esistenza. Più di quello con un figlio, o con una madre. Perché li comprende anche, a entrambi. Più di quello con un grande e caro amico. Perché il rapporto con la tua donna – quando non è solo amicizia o solo sesso – è il rapporto totalizzante della vita. E non puoi desiderare di più.

Ma il chiuder d’una porta per le scale, il vociar allegro in strada, il suonar di campane della vicina chiesa… erano presenze evocative.

Sotto questi echi continuò a girovagare senza sosta per le stanze. All’improvviso sostò davanti a quella credenza vintage che tenevano nella sala. Sua moglie ci teneva tanto. Anni fa l’avevano trovata da quell’antiquario e l’avevano acquistata. Ricordava che lei non aveva avuto esitazioni: “Sì, è perfetta per noi”, gli aveva detto. E lui era stato tanto contento per lei. L’antiquario l’aveva lucidata, nessuna opera di gran restauro, e qualche giorno dopo gliela aveva consegnata al loro indirizzo.

Adesso lui sostava lì davanti.

Quanto tempo era che non l’apriva?

Girò la chiavetta, liberò le ante e davanti spuntarono delle bottiglie.

Un marsala all’uovo, consegnatogli da chissà chi. Un mirto, con etichetta scritta a mano, recava la data di dicembre 2016.

E poi, in fondo in fondo a sinistra, quel trebbiano.

Lo riconobbe.

Era l’omaggio che quell’albergo, dove andavano sempre ogni estate da quando loro figlio era piccolo, gli faceva a ogni fine vacanza. E quello era un vino della vendemmia 2013. Lo avevano ricevuto quell’estate 2014, dopo che lei aveva subito già la prima operazione. Era stata la loro ultima vera vacanza lunga. Due settimane, pure se lei aveva dovuto osservare una severa dieta post-operatoria. Fosse almeno servita.

E quella bottiglia, in quello stipo, dimenticata.

Un pezzo di cuore. Un pezzo di anima di lei.

“Quanto mi manchi”, le disse, ad alta voce. Parlando come uno scemo.

La prese, quella bottiglia. La portò di là. La pose sulla scrivania, vicina alla foto di lei. Si sedette. La fotografò. Poi la baciò, stringendola a sé. Come se fosse lei. Perché quella, a suo tempo lì dentro, l’aveva messa lei. E, adesso, quella bottiglia era lei. Un suo pezzo di memoria, di persona, di carne resuscitata dalla cenere. E dal vuoto di quegli anni. Il suo vuoto. Appresso a donne transitorie, casuali, evanescenti, tormentate. Come la sua vita. Come la vita di molti. Di quasi tutti.

Come era stata quella di lei.

Si alzò, ripercorrendo le stanze. Ripose nello stipo, nel suo luogo proprio, quel pezzo di anima.

Spense la luce e al buio tornò di là.

Adesso erano scomparse anche le presenze evocative. Dove erano quei rumori familiari, così rassicuranti? Quei vociare? Quel suon di campane?

Nella sua anima?

Nell’anima di lei?

Il disgelo s’era arrestato. Lento e solenne, prima, adesso era fermo, dopo un contraccolpo. Spuntava un blocco di ghiaccio, rigido e tagliente.

Domani lo avrebbe raccontato a qualcuno. Ora no. Adesso era ora di dormire. Per rincontrare lei. Sperava.

Chissà?

FINE

[Fabio Sommella, 12 ottobre 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Coscienza

Questa labile coscienza
– che non so se
qualche forma d’anima rifletta –
mi porta a dire ognor
– nel mio pensier –
ti amo!

[Fabio, 21 maggio 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Stamane tutto era spento

di Fabio Sommella, 22 maggio 2016

Stamane tutto era spento

nelle stanze

e nessuna luce filtrante

preannunciava la presenza tua,

né medicine né cuscini

eran cesello alle lamentate sofferenze tue,

né il sonno mancato.

 

Il tuo balcone aspettava vanamente

il transitare della sua giardiniera.

 

Mentr’io vagavo alla ricerca di noi,

tu eri polvere impalpabile

spirito

aria

i riposti spazi dell’anima

permeando.