Leggendo la raccolta poetica di Mario Pizzolon intitolata L’albero delle marasche – Il Leggio Libreria Editrice, collana La Nicchia, 2022, Chioggia (VE) – fin dalle prime liriche si avverte una peculiare sensazione, corroborata poi dalla lettura delle successive composizioni. Con il completamento della lettura dell’intera opera, questa sensazione diviene incontrovertibile e certa: la poesia di Mario sgorga, spontanea, dalla consapevolezza di un ben determinato limen, una soglia culturale ma anche geografica, che differenzia qualitativamente e in modo netto la visione del Mondo dell’autore dal comune sentire della quotidianità, del vivere ordinario, dal non porsi domande esistenziali bensì solo ovvie. Il potere evocativo di ciò può ricondurre il lettore attento alle prime proprie letture della giovinezza, quando i versi dei poeti classici ci facevano avvertire una sorta di arcano distacco dal Mondo, sollevandoci dai nostri affanni contingenti.
L’impatto, sulla coscienza del lettore sensibile, della percezione di questa soglia, di cui è intimamente intrisa la poesia di Mario, è davvero particolare. Esso, in maniera decisa, travalica le istanze temporali della contemporaneità, le diverse generazioni e anche la Storia; si va viceversa a collocare in un territorio e in una dimensione dove tutto appare sovratemporale e postumo, dove tutto è già accaduto. Così restano indelebili i pianti, siano questi quelli del vecchietto che sottrae un sacchetto di marasche all’indomani di un ennesimo piccolo-grande scempio ambientale; o quelli del non vedere più nulla, tantomeno morti, dopo l’apocalisse del Vajont, rammentata con scarni e scabri versi che solo la preghiera della chiosa può tentare di lenire.
È quindi in questa dimensione altra, di sospensione emotiva, in questa nowhere land dal sapore al contempo tanto primigenio quanto da giorno del giudizio, che tutti i protagonisti delle liriche e delle istanze poetiche di Mario si sono – in qualche modo e misura, in qualche luogo non meglio identificato – già incontrati. Essi, si avverte, hanno assimilato la consapevolezza del Vivere, della Natura, del Misticismo, delle domande della Scienza.
Nondimeno, leggendo i versi delle quattro sezioni poetiche, spesso al lettore – forse romantico – sembra di percorrere i silenzi dei lunghi viali di molte città delle tre Venezie, di incappare nei volti – al contempo sobri e coriacei, volitivi e caparbi (uno per tutti, quello di Dino Zoff) – dei suoi nativi, nelle loro anime perennemente sospese fra le memorie di una illustre civiltà contadina e le consapevolezze e curiosità di un futuro iper-tecnologizzato.
In un alveo bipolare, il poetare di Pizzolon, dagli originari e intimi nessi con le radici e i fusti delle piante, diviene bit informatico e sinapsi di neuroscienza, disgregando il proprio universo e disgregandosi a sua volta in dimensioni di quanti informazionali, pacchetti digitali, neuromediatori chimici.
Tutto, nella poesia di Mario, è quindi sondato ed esperito secondo una prospettiva etica postuma, anche il dolore odierno che però non diviene mai sterile rimpianto di un passato agognato o migliore ma lucida visione del suo frantumarsi in schegge di necessità. Queste, nel segno di una impersonale saggezza, mite ma ferma, restano a loro volta sovrastate da altre superiori necessità: dalle domande di un eterno procedere in un processo che non è lineare e che non ha termine – sarebbe fin troppo banale e ciò non appartiene a Mario – ma si autoalimenta degli eterni cicli del vivere, certo al di là dell’esistenza privata dei singoli bensì in un’ottica collettiva che tocca tutti noi.
[Fabio Sommella, 25 luglio – 08 agosto 2022]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)