L’Herbaria, di Elena Vannimartini, Kubera Edizioni

Alla sua prima esperienza di pubblicazione di un libro di prosa narrativa, edito da Kubera Edizioni in questo inizio di 2019, Elena Vannimartini è autrice de L’Herbaria. Diciamo subito che è un lavoro semi-narrativo, collocandosi esso in uno spazio intermedio, vale a dire fra rivisitazione finzionale di un evento di fitoterapia naturale e fedele resoconto del medesimo.

In una dimensione fortemente alternativa rispetto alla cultura dominante – verde, come l’ambita magia stregonesca dell’autrice, nonché protagonista – densa di pur vaghe evocazioni di figlia dei fiori neosessantottina del nuovo millennio, con legittime velleità culturali di collocarsi fra mitologia e antropologia, tra sapori di pozioni, infusi e decotti alla Merlino e alla Morgana, all’interno di una pretesa linearità volutamente didascalico-pedagogica, l’autrice esplica e raccoglie una serie di appunti sul campo di latente impronta, appunto, antropologica. Ma se, mentre si scorrono le pagine successive a quelle dialogiche iniziali, echi del castanediano A scuola dallo stregone lambiscono la mente del lettore, non si possono neanche escludere reminiscenze del monicelliano Speriamo che sia femmina, specie nelle parti relative all’evento vero e proprio. L’incontro con la Maestra Erborista e con la piccola comunità femminile che fa da pubblico e coro, suggellerà e fregerà infine Elena della qualifica, come recita il titolo del libro, di Herbaria, vale a dire di medichessa delle erbe e delle loro proprietà cosmetico-salutari. In questo modo prende piede, si consolida e viene simpaticamente resocontata un’esperienza tutta al femminile. Corollario sono le ricette e l’utile glossario finale.

Intrisa di una certo non nuova ma comunque speranzosa utopia della contemporaneità, L’Herbaria è un sogno lungo un giorno, a cui si augurerebbe di cuore di avere ulteriori e fecondi seguiti; ma è comunque una collocazione temporanea che rivela velleità mai sopite da parte di un’indole caparbia, che non si placa, ammirevole per la propria testardaggine e per il suo amore per la natura: gli animali, i cani, l’aia, l’orto… Ma il lettore volenteroso può leggerci anche un ininterrotto sogno trans-generazionale e di genere che si perpetua nel tempo: una gaia carezza – sorridente e solare – che si distende sulla coscienza, abbracciandola come in una nuova Sweet Water di leoniana memoria – racconto filmico che consacrava appunto i cambiamenti epocali a cavallo del ’68 – ai confini di una frontiera esistenziale che, anche in questo nostro tempo, è sempre di là dall’essere superata e risolta.

[Fabio Sommella, 20 marzo 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

Era

Era il digradare d’un quartiere urbano – una volta periferico, poi semicentrale – verso l’agro romano. Questo era stato caro al poeta tedesco, tanto da cantarlo in qualche sua opera. Laggiù, tra quei saliscendi verdi, m’aspettavo sempre d’incontrare qualche legionario romano, scappato non si sa come al Tempo e alla Storia. In quel frammento di consolare poi – tra Re di Roma e Colli Albani, dove da principio s’aspettava anche il pullman pei Castelli – annusai e concepii il mio concetto di città. Ma di lì a breve furono lunghi decenni nell’area metropolitana, tra i vagheggiati ricordi, nuove e diverse esperienze, amicizie, immaginazioni. Frascati crebbe nel cuore, mentre pure comparivano piaghe e ferite. L’università romana sembrava lontana, come se fosse vissuta dall’esterno. L’incontro con lei fu la giovinezza, prima quasi negata, poi cedette alla maturità. Pertanto la vita divennero i tanti lavori, le varie aziende, le diverse sedi. Così furono nuovi sfasci, nel cuore e nella mente, ma imparai che anche Milano – al di là del mito – non è poi così male. E ancora sole, pioggia, vento, insieme a lei e poi a un magnifico figlio. Ma giunsero inesorabili nuovi conti, alcuni attesi, sebbene più in là; altri… sì… davvero insospettati, tremendi. Fra i peggiori. L’universo, più volte, sembrò implodere facendomi interrogare circa il senso. Fino alle rinascite. In questo festoso, ininterrotto, fluire.

[Fabio, 14 marzo 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Sui film d’azione

Non ho mai amato troppo il cinema d’azione. Sì: il genere avventuroso, spettacolare e quant’altro di simile. Ho sempre prediletto – alla Moretti, direi – il cinema d’idee, d’atmosfere, introspettivo.
Ma anche nella pletora di registi di film d’azione – più o meno recenti – nel bene figurano alcuni che, all’interno di quel genere, sanno o hanno saputo sapientemente ritagliare spazi introspettivi, intimistici, profondi. Due per tutti – tralasciando coloro che ricevono molti riconoscimenti e si ostinano a far solo ed esclusivamente quel genere e a non parlare mai d’altro, anche disponendo degli spazi – sono: Michael Mann fra gli stranieri; un altro è stato il nostro Damiano Damiani. Sono questi due,registi che hanno o hanno avuto una “loro propria e originale voce”.
Il primo – Mann – anche in film eminentemente d’azione o epici, come Heat – La sfida, Collateral o L’ultimo dei mohicani, riesce a creare spazi di riflessione, allargandoli sapientemente, toccando vette poetiche non ordinarie; esempi: il dialogo fra i personaggi di De Niro e Al Pacino in Heat…; l’epica e intensa sequenza finale, sull’orlo del baratro, ne … i Mohicani; l’intimismo misterico/poetico in sequenze di Collateral.
Damiano Damiani è stato invece, a mio avviso, uno dei pochissimi autori in grado di realizzare film sulla malavita organizzata, sulla mafia, senza annoiare mai, senza mai cadere nella retorica, nelle ovvietà. Pizza Connection, Un uomo d’onore, La piovra 1 restano rari esempi di come si debbano realizzare lungometraggi o fiction d’azione e spettacolari, “d’avventura”, senza mai eccedere nel fine a se stesso bensì accelerando quando si deve, rallentando quando è sentito, ampliando gli spazi del sociale, politico, poetico, intimista in modo convincente, avvincente, concertato fra tutti gli ingredienti del raccontare filmico. Damiani, tra le altre opere, è stato anche autore de La rimpatriata, 1963, e de L’inchiesta, 1986; questi, nei loro differenti generi, sono autentici capolavori.
Senza nominarli, altri registi, nel genere film d’azione/spettacolare, hanno un’unica omogenea e uniforme monotona voce, priva di qualsiasi originallità.

[Fabio Sommella, 12 marzo 2019]

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Saggezze e Cultura – Ciao, Pino

Lo rammento, nei suoi primi spettacoli televisivi (La domenica è un’altra cosa? No, ma il titolo era qualcosa di similare) nei tardi ’60, nel cabaret TV insieme a Gabriella Ferri e ad altri valenti colleghi, poi più di recente in film come La matassa, con Ficarra&Picone. Sempre intelligente e acuto osservatore della realtà.
Ma il Suo ricordo più marcato, a mio avviso, rimane una Sua attenta intervista all’indomani del Mundial ’82. In quella sede, Pino Caruso, disse (più o meno): “Bene: la nazionale italiana di calcio ha vinto il Campionato del Mondo; ma sarebbe bene che ognuno di noi vincesse il proprio Campionato del Mondo!” ILLUMINANTE! Quella sua considerazione era un coagulo di saggezza, profondità, storia, mito, cultura e psicologia. Con questa Sua dichiarazione colpì positivamente anche Marco Tardelli, uno degli “eroi” di quell’impresa calcistica, che giorni dopo commentò ammirato a sua volta tutto ciò.
R.I.P., amico Pino.
[Fabio, 8 marzo 2019]

Quando canzoni divengon emozioni

Nella seconda metà dei ’70, tra i cantori d’una Roma popolaresca, c’era pure Lui. Molti se lo ricorderanno per quell’Ammazzate oh, che faceva il matching con il “Tacci tua” del duo de I Frascati.
Questo brano invece – che intreccia tempi di valzer a tempi di marcetta e altro – è decisamente gustoso e melanconico, forse solo come le vere ispirazioni popolaresche sanno essere. A me, Luciano Rossi – da non confondersi col trasteverino e compianto Stefano Rossi in arte Rosso – rammenta effettivamente Roma. Ma non la Roma “canonica” o monumentale; bensì quella semiperiferica: la Roma “daa Casilina“, “der Prenestino“, “daaa Tiburtina“, oppure quella centrale odierna ma – come diceva Renzo Vespignani – racchiusa e serrata fra le splendide mura del Verano e dell’Università.
Insomma questo Amore bello – pure da non confondersi con quello precedente del Claudio romano – è, secondo me, davvero bello!!!

“… Si quella bambina t’ha detto me spiace, un’artra domani te dice me piace me piace me piace quer modo strano che c’hai da dì a tutto er monno che ce stai solo Tu…” 😉

Amore bello di Luciano Rossi

Perché lo sai bene che Lei – come lo scoglio di Battisti e Mogol – davvero arginava il mare!

 

[Fabio, 08 febbraio 2019]

 

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Karen Georgievič Šachnazarov all’Istituto di Cultura e Lingua Russa di Roma – V02

Al centro il Maestro Karen Georgievič Šachnazarov; ai lati due autorevoli referenti dell’ICLR

Magnifico, molto toccante, fino a divenire entusiasmante, l’incontro con il regista, Maestro  russo, Karen Georgievič Šachnazarov svoltosi nella serata odierna, da parte dell’Istituto di Cultura e Lingua Russa (ICLR) di Roma, presso il Centro Congressi Cavour (via Cavour 50a, Roma).

Si è spaziato dai fondamenti della cultura russa – letteraria, musicale, filmica, artistica, scientifica – ai più generali rapporti transculturali europei e mondiali, fino a toccare le influenze sulla cultura russa da parte del cinema e della cultura italiani, nonché viceversa. Pertanto, qui, c’è stato il riferimento, da parte del Maestro, di come la cinematografia sovietica di Ėjzenštejn e Pudovkin abbia influenzato il Neorealismo italiano. Poi c’è stato un generoso indugiare su Rossellini e De Sica, ma soprattutto su Federico Fellini e Marcello Mastroianni, che, Lui, ha conosciuto di persona. Il Maestro russo si è profuso in una serie di lodi verso di loro, elogiando la semplicità umana e la grandezza artistica di entrambi. Ha detto che era prevista una collaborazione, dovendo egli realizzare un film in quei primi anni ‘90 con Mastroianni. Sempre su Fellini e Mastroianni, il Maestro ci ha regalato generosi e gustosi aneddoti: la premiazione a Mosca nel ’90 – lui secondo, Federico Fellini primo – e il Suo umile orgoglio di presiedere e stare a fianco del Maestro riminese; i coloriti racconti che gli aveva fatto Mastroianni a riguardo di quando – emozionato e riverente – a fine ’50 aveva conosciuto Federico, d’estate sulla spiaggia di Ostia – Marcello incravattato e incredibilmente accaldato, Federico tranquillamente in costume da bagno – insieme allo sceneggiatore Tonino Guerra; gli scherzi goliardici di Federico a danno di Marcello (gli aveva mostrato una sceneggiatura per La dolce vita giocosa, beffarda e inesistente); l’emozione di Marcello, che aveva comunque accettato alla cieca (Federico era già il regista de La strada e de Le notti di Cabiria, Marcello si sentiva ancora poco conosciuto).

Ma il Maestro russo, avendo appena rivisitato la Cappella Sistina, si è profuso anche sul nostro Rinascimento e sui nessi – ad esempio – con Michelangelo e con la sua arte in rapporto ai concetti di Stile e Idee, a suo avviso carenti nell’attuale contemporaneità. Voli pindarici sul Cinema mondiale, su quello di Quentin Tarantino – che, secondo il Maestro, rappresenta davvero la faccia attuale dell’America – ma anche sulla situazione “societaria” del Mondo globalizzato.

Pur attestando,  in merito all’attuale cinematografia russa,  la maggiore disponibilità di mezzi tecnologici, impensabili nell’epoca sovietica, il Maestro ha testimoniato l’attuale minore coscienza artistica e la relativa povertà di idee che oggi contaminano non solo  il cinema russo ma, secondo lui, quello di tutto il mondo. Pertanto egli ha rivendicato, deliberatamente e coscientemente, la propria identità – umana e artistica – nonché orgoglio di eminente matrice sovietica. In tale ottica, il suo stle artistico e la sua coscienza umana gettano un’incredulità e una diffidenza sul Mondo attuale, sull’unilaterale Capitalismo imperante, come se quest’ultimo fosse l’unica e sola via percorribile.

La platea – tra le sessanta-ottanta persone, con molte presenze anche russe – ha mostrato di gradire e apprezzare la profondità e la vastità degli interventi, a cui i due autorevoli referenti dell’ICLR hanno fornito tutti i riscontri del caso, traducendo puntualmente tutte le argomentazioni.

Al termine dell’incontro, dopo numerose domande da parte della platea,  l’ICLR ha consegnato al Maestro un prestigioso riconoscimento culturale,  testimonianza del ponte fra le due culture russa e italiana.

[Fabio Sommella, 25 gennaio 2019]

 

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Sgombero del centro rifugiati di Castelnuovo di Porto e relazione tra Furbizia e Intelligenza.

Prendo spunto dalle recenti iniziative del Ministero dell’Interno – lo sgombero del centro rifugiati di Castelnuovo di Porto – e da un interessante thread presente sul Gruppo di Lettere e Filosofia del Social Facebook, pertinente alla relazione tra Furbizia e Intelligenza, per considerazioni in merito e sul presente momento storico.

A tal fine specifico che, qualche giorno fa,  ho preso parte al thread citato – ripeto: Gruppo di Lettere e Filosofia del Social Facebook, pertinente alla relazione tra Furbizia e Intelligenza – inserendovi un paio di miei post.

Li ricapitolo qui, questi miei due post. Seguiranno infine le conclusioni sull’abbinamento delle due tematiche in oggetto.

Nel mio primo post sostenevo che, nell’accezione consueta, entrambe – Furbizia e Intelligenza – implicano processi cognitivi di risoluzione: di problemi, di enigmi, di punti di stallo. Se però la Furbizia é volta a un beneficio strettamente personale, e sovente implica la malizia, l’Intelligenza é generalmente più aperta e non necessariamente egocentrica; é pura, priva di orpelli personalistici, spesso – o possibilmente sempre – collettiva.

In questo senso – ad esempio, volendo semplificare moltissimo – tutte le decisioni e le azioni delle organizzazioni criminali sono da intendersi come furbe e non intelligenti, perché rivolte, con malizia, a esclusivo vantaggio di una ristretta cerchia di parassiti umani e non della più larga collettività dei giusti umani; viceversa le iniziative filantropiche e democratiche… 😊

Tornndo al cuore del tema trattato – la relazione tra Furbizia e Intelligenza – va tuttavia rimarcato che Jean Piaget, padre della psicologia dell’etá evolutiva, in chiave “biologistica” affermava pure, sostanzialmente, che ‘Intelligenza é adattamento a situazioni nuove, continua costruzione di strutture; e qui si torna – molto, direi – alla Furbizia, in questo caso del vivente che deve risolvere problemi pratici nell’ambiente in cui vive. Ergo (come del resto noto): esistono molteplici forme d’Intelligenza, che non é solo quella scolastica o accademica; tra queste la Furbizia.

Nel secondo post, sempre del suddetto thread, specificavo che la relazione tra Furbizia e Intelligenza andrebbe ancora inquadrata in una prospettiva storico-evoluzionistica. Ciò in quanto, estremamente per sommi capi, noi potremmo delieneare il seguente scenario: il primate, o ex-tale, “sceso dall’albero”, che deve fare fronte alla vita sul suolo, lottare contro fiere feroci, sopravvivere, inizialmente vive di caccia e pesca, è nomade; poi, scoprendo – Rivoluzione Neolitica – l’agricoltura e l’allevamento, diviene stanziale. Inizialmente, nella sua vicenda di specie, deve essere necesariamente furbo, pratico, pragmatico. Poi c’è la Storia, che gronda sangue; ma nella quale alcuni illuminati giungeranno a formulare la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo; in molti stati, come in Italia, a promulgare la Costituzione.

Ecco – scrivevo sempre nel secondo post – forse è solo un auspicio, vista la nostra contemporaneità e come i recenti fatti attestano: ma, utopisticamente, ritengo potremmo leggere tutta la vicenda umana come un tentativo, come la ricerca di una forma di transizione – lenta, molto lenta, tortuosa, controversa, contraddittoria – dalla Furbizia biologica alla Intelligenza culturale.

In quest’ottica – e vengo, infine, al dunque – le decisioni e le azioni dell’attuale Ministero dell’Interno – lo sgombero del centro rifugiati di Castelnuovo di Porto – possono essere lette unicamente come Furbizia, pura, rivolta a vantaggio personale di una ristretta collettività – parte della Nazione Italiana – e non come Intelligenza, altrettanto pura, ovvero rivolta a vantaggio della più ampia collettività umana, quella dell’Intero Pianeta.

Ma va detto di più!

Tutte le residuali forme di nazionalismo contemporaneo sono da leggersi ancora come vestigia dell’originaria Furbizia biologica; esse non sono intelligenti, e rimarranno tali fino a che, all’interno delle proprie decisioni e scelte, non si terrà conto non solo degli appartenenti a ciascuna Nazione occidentale (gli italiani, gli spagnoli, i francesi, i tedeschi…) ma anche della più ampia e Intera Collettività Planetaria restante (i libici, gli algerini, i cinesi, i venezuelani…)

Cari tutti, conoscete questi versi? “Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo” [Salvatore Quasimodo, Uomo del mio tempo]. Come non riconoscere, nella sagoma di questo celebre incipit poetico datato 1946, le fisionomie di coloro – siano italiani o spagnoli o francesi o tedeschi o… – che, oggi, nel 2019,  senza indugio alcuno, sull’onda di decisioni furbe e non certo intelligenti,  muovono contro i rifugiati? Contro i rifugiati nel centro di Castelnuovo di Porto? Contro gli immigrati?

Mi sembra utile – nonché interessante – concludere con un estratto da un testo principe. Erich Fromm, poco prima degli ’80 dello scorso secolo, così ammoniva: “Intendo riferirmi all’opinione secondo la quale non avremmo alternative ai modelli del capitalismo aziendale, del socialismo di marca socialdemocratica o sovietica oppure del «fascismo dal volto umano» di matrice tecnocratica. (…) In realtà, finché  problemi della ricostruzione sociale non prenderanno, almeno in parte , il posto dell’interesse per la scienza e per la tecnica che occupano attualmente le migliori menti, la fantasia umana non sarà in grado di dar corpo a nuove e realistiche alternative. ” [Erich Fromm, dall’Introduzione ad Avere o Essere]

Grazie per esser giunti a leggere fin qui.

[Fabio Sommella, 24 gennaio 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

E non finisce mica il cielo… (perché i biopic)

L’ennesima fiction biografica su un grande artista dello spettacolo – nel caso specifico ispirata a Mia Martini – cala, pur per breve tempo, nelle sale cinematografiche. La davvero brava Serena Rossi – guidata dalla esperta regia di Riccardo Donna, anch’egli senza dubbio bravo regista di fiction/serial, già delle prime serie della fortunata saga de Un medico in famiglia – interpreta molto bene la sfortunata e tormentata Mimì.

Mentre scorrono le suggestive immagini e sequenze, montate in maniera incisiva all’interno di un flashback incalzante e serrato, corredate di alcune delle più belle canzoni storiche della prestigiosa cantante – a suo tempo definita da alcuni la più grande, della generazione successiva a quella di Mina/Milva/Vanoni – non si può fare a meno di portare alla propria coscienza una domanda: qual è il motivo – la causa originaria –  di questo ennesimo biopic? Dove, tra l’altro, alcuni personaggi reali delle vicende, dai pur bravi interpreti e costumisti, sono caratterizzati – è il caso specifico qui di Franco Califano o Bruno Lauzi – in maniera parzialmente caricaturale  tendente financo al parodistico? (Inevitabile rischio in cui talvolta si incorre, in queste operazioni filmiche).

Ciò si chiede, scansando – forse a torto – il mero fattore commerciale: qual è il motivo di questo ennesimo biopic?

Così la mente va ad altri analoghi lavori, talvolta anche melensi, di personaggi altrettanto e forse anche più prestigiosi, per l’immaginario e la memoria collettivi: siano questi il dissacrante Rino Gaetano o uno dei poeti per eccellenza della canzone d’autore quale Faber, o ancora il roboante affresco internazionale dei Queen di Bohemian Rhapsody. Oppure, più indietro nel tempo, ancora le biografie di Dalidà o dei padri del nostrano cantautorato quali il sanguigno Mimmo Modugno o il tragico poeta dell’interiorità e della protesta che è stato Luigi Tenco.

La risposta non è semplice. Certamente c’è richiesta, di questi prodotti, anche di buona o ottima fattura, come il presente. C’è richiesta da parte del largo pubblico.

Ma perché?

Ma perché il pubblico vuol bene ai suoi beniamini.

E – ci si può ancora chiedere – per questo bene non sarebbe sufficiente continuare ad ascoltare le loro canzoni? Riascoltarle ancora. Oppure realizzare dei veri e propri dossier storico-giornalistici. Magari documentandosi sulle storie, reali, e non liberamente ispirate. Ovvero:  storie nude e crude, private del velo della fiction. La verità nuda e cruda non rivestita da un pur parziale velo di menzogna. Di fantasia. Fantasticheria. Parzialità. D’immaginario. Di verosimile. Di trasfigurazione.

Perché?

Se volgiamo gli occhi, transitando dai personaggi pubblici ai personaggi privati, possiamo comprendere che, a fronte della scomparsa di una persona cara, siamo pure spesso portati – perlomeno alcuni di noi, che si sentono autori – a rivedere la vita, la storia, le vicissitudini di questa persona cara scomparsa. E questa revisione può passare attraverso varie forme e generi:  la poesia, la biografia, la fiction narrativa.

E perché ciò?

Ma perché – il congiunto della cara persona scomparsa – ha impellente e prorompente necessità di esorcizzare proprio la scomparsa; di cantare la persona scomparsa eternandola; di dire che, seppure quella persona è scomparsa, non per questo finisce il cielo. Perché il cielo continuerà a esistere. E in quel cielo, colui che canta, vuole continuare a far esistere la persona cara scomparsa. E ciò non sarebbe sufficiente solo attraverso le biografie. Reali. Vere. I dossier. Perché ciò sarebbe come mangiare all’albero della conoscenza, dopo di che Adamo ed Eva si scoprirebbero nudi. E avrebbero  vergogna di loro stessi. Serve viceversa la trasfigurazione poetica. Il verosimile. Serve la fiction, per esorcizzare davvero il vuoto. Completamente. Serve l’indefinito tra l’accaduto e l’immaginato. Serve il mistero. Che perpetua la vita perduta. Eternandola.

E non finisce mica il cielo, canta Mia in uno dei cinque brani presenti per intero nel film. Brano forse ancor più intenso anche dell’Almeno tu nell’universo, vero leit-motiv di tutto il film, fil-rouge, asse portante di tutta la narrazione di Riccardo Donna. E, analogamente alla vicenda privata di cui sopra, anche per il personaggio pubblico Mia Martini, il pubblico (!) desidera eternare e perpetuare il proprio beniamino esorcizzandone così la scomparsa, attraverso non i dossier o semplicemente riascoltando le sue canzoni. Bensì vuole celebrarlo attraverso il rituale magico-iniziatico della fiction. Questo è ciò che, finalmente, lo consacra non nella realtà – in quanto già lo era – ma ulteriormente e pienamente nell’immaginario. Rendendolo immortale. Nel cielo. Che non finisce.

Perché è proprio la fiction – parzialmente menzognera a discapito della nuda verità – che, tanto nel pubblico che nel privato, permette di dire “E non finisce mica il cielo, anche se manchi tu.”

[Fabio Sommella, 15 gennaio 2019]

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Fonte dell’immagine, ripresa senza fini di lucro: https://www.panorama.it/cinema/io-sono-mia-film-mia-martini/

 

Fra poesia e trattatistica (Come vi somigliate, donne)

Di seguito alcuni miei versi di questa mattina. Sono dedicate a delle donne, passate o presenti, che ho incontrato nella mia vita (ebbene, si!) e a cui ho voluto bene: non importa se per tanto o per poco tempo, non importa la situazione, non importa cosa sia avvenuto. Ciò che è importante è la loro psicologia, la loro personalità. Perché, io, sono innamorato della personalità umana, ancor più se femminile (ebbene, ancora si). Ne sono innamorato in quanto è un meraviglioso espediente – evolutivo – di arginare le asperità dell’esistenza (!), è un tentativo sistemico/psichico di originare uno stato stazionario di equilibrio dinamico (!!), è una modalità di adattamento all’ambiente (!!!), analogamente a tanti altri espedienti (dinamici) della Natura; ad esempio: i sistemi tampone della chimica, i processi infiammatori dei tessuti viventi, le reazioni immunitarie degli organismi viventi, le emozioni della psiche, i processi stellari dell’astrofisica all’interno delle galassie, mattoni dell’universo: per la serie Su diverse scale, la Natura opera in modo analogo: impara a comparare e l’Universo si disvelerà ai tuoi occhi.

Forse un giorno, in merito, vi scriverò un trattatello.

In coda, il link a una pagina del mio sito con poesie non solo mie.

 

Ecco i miei versi di stamane, anticipati dal titolo:

 

COME VI SOMIGLIATE, DONNE

Come vi somigliate, donne,
più o meno giovani
nelle memorie e nelle presenze
attuali o del passato,
nel gioco eterno
del fuggir – spesso, così – dal vostro nodo
con cui fare i conti dover,
del lamentoso avvertir in vostra – fragile – coscienza
vulnerabilità celata
di tragica istanza
in dialettico incontro
e scontro con verità, solo mutante
il Mondo
nell’urlo di rivoluzione
del cambiamento,
il nostro spirito in grado di elevare in volo.

E io son qui
qui ero
vi amo
e amavo
uguale
nel tenero bene e afflato
che dell’amor totale
è seme base radice fusto arbusto ramo foglia stoma respiro.

Per innalzare insieme – noi – il volto.

[Fabio, 05 gennaio 2019]

 

Il LINK alla pagina delle poesie è
https://www.fabiosommella.it/wp/poesia/

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