E non finisce mica il cielo… (perché i biopic)

L’ennesima fiction biografica su un grande artista dello spettacolo – nel caso specifico ispirata a Mia Martini – cala, pur per breve tempo, nelle sale cinematografiche. La davvero brava Serena Rossi – guidata dalla esperta regia di Riccardo Donna, anch’egli senza dubbio bravo regista di fiction/serial, già delle prime serie della fortunata saga de Un medico in famiglia – interpreta molto bene la sfortunata e tormentata Mimì.

Mentre scorrono le suggestive immagini e sequenze, montate in maniera incisiva all’interno di un flashback incalzante e serrato, corredate di alcune delle più belle canzoni storiche della prestigiosa cantante – a suo tempo definita da alcuni la più grande, della generazione successiva a quella di Mina/Milva/Vanoni – non si può fare a meno di portare alla propria coscienza una domanda: qual è il motivo – la causa originaria –  di questo ennesimo biopic? Dove, tra l’altro, alcuni personaggi reali delle vicende, dai pur bravi interpreti e costumisti, sono caratterizzati – è il caso specifico qui di Franco Califano o Bruno Lauzi – in maniera parzialmente caricaturale  tendente financo al parodistico? (Inevitabile rischio in cui talvolta si incorre, in queste operazioni filmiche).

Ciò si chiede, scansando – forse a torto – il mero fattore commerciale: qual è il motivo di questo ennesimo biopic?

Così la mente va ad altri analoghi lavori, talvolta anche melensi, di personaggi altrettanto e forse anche più prestigiosi, per l’immaginario e la memoria collettivi: siano questi il dissacrante Rino Gaetano o uno dei poeti per eccellenza della canzone d’autore quale Faber, o ancora il roboante affresco internazionale dei Queen di Bohemian Rhapsody. Oppure, più indietro nel tempo, ancora le biografie di Dalidà o dei padri del nostrano cantautorato quali il sanguigno Mimmo Modugno o il tragico poeta dell’interiorità e della protesta che è stato Luigi Tenco.

La risposta non è semplice. Certamente c’è richiesta, di questi prodotti, anche di buona o ottima fattura, come il presente. C’è richiesta da parte del largo pubblico.

Ma perché?

Ma perché il pubblico vuol bene ai suoi beniamini.

E – ci si può ancora chiedere – per questo bene non sarebbe sufficiente continuare ad ascoltare le loro canzoni? Riascoltarle ancora. Oppure realizzare dei veri e propri dossier storico-giornalistici. Magari documentandosi sulle storie, reali, e non liberamente ispirate. Ovvero:  storie nude e crude, private del velo della fiction. La verità nuda e cruda non rivestita da un pur parziale velo di menzogna. Di fantasia. Fantasticheria. Parzialità. D’immaginario. Di verosimile. Di trasfigurazione.

Perché?

Se volgiamo gli occhi, transitando dai personaggi pubblici ai personaggi privati, possiamo comprendere che, a fronte della scomparsa di una persona cara, siamo pure spesso portati – perlomeno alcuni di noi, che si sentono autori – a rivedere la vita, la storia, le vicissitudini di questa persona cara scomparsa. E questa revisione può passare attraverso varie forme e generi:  la poesia, la biografia, la fiction narrativa.

E perché ciò?

Ma perché – il congiunto della cara persona scomparsa – ha impellente e prorompente necessità di esorcizzare proprio la scomparsa; di cantare la persona scomparsa eternandola; di dire che, seppure quella persona è scomparsa, non per questo finisce il cielo. Perché il cielo continuerà a esistere. E in quel cielo, colui che canta, vuole continuare a far esistere la persona cara scomparsa. E ciò non sarebbe sufficiente solo attraverso le biografie. Reali. Vere. I dossier. Perché ciò sarebbe come mangiare all’albero della conoscenza, dopo di che Adamo ed Eva si scoprirebbero nudi. E avrebbero  vergogna di loro stessi. Serve viceversa la trasfigurazione poetica. Il verosimile. Serve la fiction, per esorcizzare davvero il vuoto. Completamente. Serve l’indefinito tra l’accaduto e l’immaginato. Serve il mistero. Che perpetua la vita perduta. Eternandola.

E non finisce mica il cielo, canta Mia in uno dei cinque brani presenti per intero nel film. Brano forse ancor più intenso anche dell’Almeno tu nell’universo, vero leit-motiv di tutto il film, fil-rouge, asse portante di tutta la narrazione di Riccardo Donna. E, analogamente alla vicenda privata di cui sopra, anche per il personaggio pubblico Mia Martini, il pubblico (!) desidera eternare e perpetuare il proprio beniamino esorcizzandone così la scomparsa, attraverso non i dossier o semplicemente riascoltando le sue canzoni. Bensì vuole celebrarlo attraverso il rituale magico-iniziatico della fiction. Questo è ciò che, finalmente, lo consacra non nella realtà – in quanto già lo era – ma ulteriormente e pienamente nell’immaginario. Rendendolo immortale. Nel cielo. Che non finisce.

Perché è proprio la fiction – parzialmente menzognera a discapito della nuda verità – che, tanto nel pubblico che nel privato, permette di dire “E non finisce mica il cielo, anche se manchi tu.”

[Fabio Sommella, 15 gennaio 2019]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Fonte dell’immagine, ripresa senza fini di lucro: https://www.panorama.it/cinema/io-sono-mia-film-mia-martini/

 

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