Analisi e lettura di P.Gauguin, Paesaggio con due donne bretoni, 1889

P.Gauguin, Paesaggio con due donne bretoni, 1889, olio su tela, cm 72,4 x 91,4, Boston, Museum of Fine Arts.

In un ideale percorso critico, che prenda in esame le grandi influenze artistiche tra XIX e XX secolo, insieme a Paul Cezanne (1839-1906) e a Vincent Van Gogh (1853-1890), Paul Gauguin (1848-1903) deve essere  considerato uno degli anelli di congiunzione di quell’ampio e articolato “ponte cultural-stilistico” in grado di collegare il linguaggio della prima parte della contemporaneità artistica, quella già non più pienamente figurativa del Romanticismo che aveva rotto con il neoclassicismo (ed era icasticamente   rappresentata dal J. M. W. Turner di “Pioggia, vapore, velocità” o di ’”Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi”),  con le  molteplici Avanguardie del ‘900. In questo eterogeneo panorama, si distinguono almeno due tappe fondamentali: da una parte il “ritorno” del Realismo, sociale, di Courbet e Millet (in certo modo “figli” anche dell’altro grande romantico inglese J. Constable); dall’altra senz’altro maggiormente incisivo risulta l’Impressionismo che si manifesta dalle forme più variegate di Monet (rilevante la sua evoluzione verso le “ninfee”, in una sorta di trasversale parentela con Debussy e Proust) e Manet, a quelle più liriche e luminose di Renoir o a quelle ancora prospettiche di Degas o “occidental-cromatiche” di Pissarro (questi rimproverava Gauguin di eccessiva simpatia per l’esotismo e per il primitivismo).

In questo scenario, la tecnica del Cromoluminarismo/Divisionismo/Pointillisme di Seurat (ma non solo) e le eterogenee gamme stilistiche del Simbolismo (da Moreau e Redon a Ensor e Munch, nonché le teorizzazioni del letterato Mallarmé), transitando poi nell’Espressionismo, faranno da ulteriore cerniera, irreversibile salvo i temporanei/parziali e diversi ritorni all’ordine,  verso la frammentazione/proliferazione avanguardista (che si esplicherà da una parte in modalità razionalistica e scientifica, dall’altra ancora lirica) delle arti visive del ‘900, ormai definitivamente non più figurative (analogamente alle scienze non più classiche, alla musica non più tonale, alla letteratura non più centrata su una unilaterale e oggettiva narratività cosciente o su un singolo piano strutturale).

Nella Francia della III Repubblica, che pur pagando i debiti del dopo Napoleone III alla audace e diplomatica Germania di Bismarck si immergeva sempre più in un clima di rifiorente ottimismo (la Torre Eiffel, oltre a festeggiare il centenario della Rivoluzione Politica, sarà simbolo anche della Seconda Rivoluzione Scientifico-Industriale in atto al tempo in Europa) culminante con le atmosfere della Belle Epoque, Paul Gauguin, dopo aver svolto vari mestieri e avventure attorno al mondo nonché accettato per amor coniugale una borghese attività come agente di borsa a Parigi, giungerà finalmente alla pittura grazie al collezionista d’arte Gustave Arosa nonché all’amicizia di Degas e Pissarro.

Il non più giovanissimo Paul, dopo le prime sperimentazioni e scambi di carattere impressionistico, approda a un’estetica e a uno stile artistici significativamente diversi da quelli dei suoi colleghi e amici impressionisti. Da una parte avverte l’indubbia influenza dell’altro Paul, Cezanne, vero iniziatore della diversificazione/separazione delle poetiche. Cezanne, con i suoi sferoidi, poliedri, intenzionalità di ricostruzione della natura tramite le geometrie di cubi, sfere, coni e cilindri, già prelude a quelle che saranno le elaborazioni dell’avanguardia cubista. Dall’altra parte Gauguin si avvicina, se non come puro stile  e forma senza dubbio come valenze contenutistiche e concettuali, proprio al Simbolismo, il cui manifesto viene pubblicato nel 1886 sul Figaro, significativamente anno dell’ultima mostra impressionista a Parigi.

Pertanto, se la suddetta tela di Paul Gauguin è inquadrabile nel contesto storico-artistico appena delineato, in cui indubbiamente plurimi influssi convergono anche su un’artista irrequieto e sanguigno come lui, essa può essere analizzata secondo una prospettiva che fa capo a concetti presenti in Gauguin ma destinati a continuare, pur nelle differenze delle diverse correnti e avanguardie, in molta arte del XX secolo.

Gauguin in questo particolare periodo, denominato anche di “Pont Aven” (1886-1888, precedente il cercato sodalizio artistico parigino con Van Gogh),  riprende dal giovane  amico Emile Bernard, sviluppandoli ulteriormente, due dei comma del Simbolismo: il cosiddetto “cloisonnisme” e la “plat”.

Il primo termine, il “cloisonnisme”, è da intendersi nel senso di rappresentare figure tra loro “strette”, “a incastro”; a riguardo piace ricordare la colorita e vivace descrizione della Professoressa Sega che parla “di ciò che avveniva nelle grandi vetrate del Medio Evo, dove la linea delle stesse (figure) svolgeva ruolo di impaginazione figurativa ed era sottolineata dal piombo, da elementi lineari che collegavano tra loro le varie immagini, come avveniva nelle creazioni dei grandi artigiani medievali che prediligevano questa figuratività iconica, a immagine ritagliata”.

È pertanto proprio con Gauguin che nella contemporaneità assistiamo, in modo definibile possente e grandioso, all’inaugurazione di quello che viene denominato il filone dell’iconicità; quest’ultimo, che consiste sostanzialmente nel desiderio di rappresentare l’immagine solo con alcuni elementi salienti, quelli ritenuti fondamentali e che devono essere assolutamente scelti dall’artista, giungerà, attraverso un percorso continuo che si snoderà lungo tutta l’arte contemporanea, addirittura fino alla pop-art.

Il secondo dei due suddetti comma, la “plat”, indica l’uso di uno stile che già, in certa misura,  era iniziato e continuava in Cezanne (si pensi a “Il ponte di Maincy”, 1879-80 o alle varie vedute del Mont Sainte-Victoire negli ultimi anni della sua vita) ma che certamente in Gauguin si acuisce fino a diventare una connotazione peculiare. La “plat” consiste in un maggior potere della macchia nella stesura, nella tessitura; “plat” intesa come piattezza, disegno senza linee di vero e proprio confine delle fisionomie; diversa dal modo degli impressionisti ma, ad esempio, anche contraria ai rutilanti tratti lineari di Van Gogh il quale spesso, nei tre mesi di convivenza con Gauguin, solo per amicizia e probabilmente pur di malavoglia si adeguerà allo stile dell’amico (dopo di che, … l’inizio della fine!).

Ovviamente l’opera “Paesaggio con due donne bretoni” è analizzabile in chiave simbolista: le due donne, con i costumi di quella regione e i caratteristici copricapo, sono collocate nel margine basso del quadro, sottostanti a un pendente e frondoso ramo di albero che pervade la scena superiore e in parte preclude lo sguardo oltre un paesaggio variamente striato.

Esaminando questi e altri elementi, tipici del periodo ultimo di Gauguin precedente a quello di Tahiti,  si evidenzia innanzitutto la medesima tematica simbolista presente ne “La visione dopo il sermone”, sempre del 1888 (dove una frotta di figure femminili si allontanano di spalle e altre due figure, non meglio identificate, di angeli/demoni in alto a destra sono come legate in una lotta o in un atto d’amore). Elementi della tematica sono: il cappello bretone, presente anche ne “La bella Angèle” del 1889; ma soprattutto il paratatticismo ascendente delle ampie striature cromatiche paesaggistiche, già presenti in altre opere di Gauguin con la tonalità del rosa, che vige anche ne “Il risveglio della primavera o perdita della verginità”, del 1891 (le striature cromatiche saranno riprese anche dall’artista dell’Action Painting Mark Rothko).

Tutti questi elementi depongono per una simbologia spiccata di Gauguin che travalica i precedenti, se vogliamo originari, modelli o motivi ispiratori impressionisti: Gauguin nel periodo di Pont Aven aderisce, probabilmente continuando in futuro anche nel periodo tahitiano, a una ricerca di primitivismo e a una forma di religiosità e sacralità arcaica, dove l’elemento bretone era epicentro; in tale ottica non si dimentichi anche il “Cristo giallo”, del 1889, che anche presenta l’elemento donna bretone ai piedi della croce.

Con Gauguin in definitiva si inaugura, o si accentua, l’approccio sintetista, mediato dal simbolismo e dalla sue iconicità secondo il quale l’artista, osservando la realtà, la reinterpreta rappresentandola come egli l’avverte  interiormente; ad esempio:  anche per questo in “I giardini di Arles”, del 1888, aveva dipinto degli alberi ancora in rosa.

Tutto ciò, tra le molteplici possibili, lascia sintomaticamente spazio alla seguente ipotesi interpretativa: se in Vincent Van Gogh, divorato dalla brama di vivere che lo consumerà al di là degli inappagati desideri prima di evangelizzare il mondo e poi di fondare un’impossibile comune di artisti, vigeva una forma di genuino animismo primigenio e originario (De Vecchi); forse anche Paul Gauguin, nel fondo del proprio animismo pur  costruito secondariamente,  al di là delle sue avventure e malattie veneree, mediando attraverso antichi idoli e legami con la natura selvaggia lungo i percorsi di primitivismo e arcaismo sacralizzante, (forse anche Paul Gauguin) era inconsapevolmente, ma simbolicamente, alla ricerca di una qualche recondita “anima”,  una sorta di eterna ed eludente Alba chiara, analogamente (si permetta il paragone di tipo popolar-plebeo) al nostrano contemporaneo cantautore Vasco!

[Fabio Sommella, 2013]

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